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IL
MOIKÌVNTK MA(ir.l()l{K
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PliliC'l,
CON NOTE FILOLOGICHE DI PIETRO SERMOLLI.
VOLUME PRIMO.
FIKKNZK
KKLICE LE MONNIER.
I 855.
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PREFAZIONE DELL’ ANNOTATORE.
Nel dar opera a questo mio lavoretto , qual che esso si
sia, ebbi solo in animo di far cosa utile agli studiosi di nostra
lingua, i quali senza dover del continuo rivolger le pagine dei
Vocabolari, potessero a tutto loro agio trovar dichiarate le
maniere e le finezze del toscano parlare, di che cotanto è
ricco il Moryunle; che ad ogni piè sospinto ne vien fatto
d’ abbattersi a modi c a proverbi tutti di molta grazia e va-
ghezza ripieni, e propri della fiorentina favella, e però, mas-
sime a’ non Fiorentini, di non facile intelligenza. Ed in tale
intendimento, intorno alla parte filologica precipuamente mi
son travagliato, contentandomi del resto a dilucidar quelle
cose risguardanti la erudizione, che meno alla comun portata
dei leggitori reputava che fossero. Nè ho stimata opera vana
il trattenermi eziandio sulle etimologie delle voci, imperoc-
ché, sebbene ciò sia giudicato da molti inutil fatica di gretto e
sterile ingegno, ei non si potrà tuttavolta negare che non sia
per riuscir proficuo agli studiosi delle filologiche discipline il
considerare le alterazioni che una medesima voce soffre pas-
sando d' una in un’altra lingua, dal che si viene a compren-
dere l’attinenza che le diverse lingue hanno fra loro. Ed oltre
a ciò , è duopo considerare che queste secchezze delle etimo-
logie non isdegnarono i nostri maggiori , anzi molto vi fatica-
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II PUEFAZIONE dell’ ANNOTATOKE.
ron d’intorno, siccome, fra gli altri, fecero gli autori delle
note al Malmanlile. E andando più addietro, Platone intessè
di esse il lungo dialogo del Craiilo, e gli Stoici dalle origini
dei nomi ordivano ogni loro disputa.
In siffatto modo ho io adoperato, percioccliè mi è parso
il Principal pregio di questo poema essere appunto quel della
lingua. Gilè se il Pulci andò per poetico valore innanzi a co-
loro che in cotal maniera di componimenti lo avean precedu-
to, e che altro non avean fatto che informi racconti ; e se
vantaggiò anche in alcuna parte i contemporanei ; non rag-
giunse per certo quei che vennero dopo lui: il Derni vo’
dire, e l’Ariosto. Perocché, sebbene tutti attingessero l’ argo-
mento dei lor poemi alle sorgenti medesime, cioè ai vecchi
romanzi spagnuoli e francesi , non però di meno il Pulci e
per forza d’ immaginativa e per le altre poetiche virtù d’ as-
sai lungo tratto ai due sopraddetti rimasesi addietro. E qui,
tornando in acconcio di dover alcuna cosa dire intorno al
Poema di lui, piacemi riportare il giudizio di quel profondo
ingegno del Foscolo, togliendolo dal suo discorso Sui poemi
narrativi e romanzeschi iluliani.
« Le forme particolari della poesia romanzesca italiana
» si possono ridurre a quelle che seguono ;
» I. La narrazione è di natura complessa; storia si an-
» noda a storia , ed il filo del soggetto principale è sempre
» interrotto da episodi, introdotti per tenere gli uditori in
» sospeso, e invitargli a riunirsi ne’ giorni vegnenti per ascol-
» tare la fine. Cosi, sebbene Morgante sia l’eroe del Pulci.
» ed Orlando del Boiardo e dell’ Ariosto , pure le loro awen-
» ture tengono la minor parte de’ poemi , le guerre di Carlo-
» magno hanno il resto; ma sempre interrotte e variate dagli
» amori e dalle imprese dei cavalieri dell’ una e dell’ altra
» parte.
» IL La religione predomina nei poemi di questa fatta.
» Mentre il poeta ammassa le assurdità più solenni, s’appella
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PREFAZIONE DEI L’ ANNOTATORE. Ili
» all’ autorità dell’ arcivescovo Turpino, e invoca l’ aiuto dei
» santi e degli angeli. Non è un Canto nel poema del Pulci,
n che non cominci con una pia invocazione, tolta dall’ Ufficio
» della Chiesa Cattolica. Ma l’ Ariosto, quantunque professi
» sempre di ammettere la verità della cronaca di Turpino,
» nondimeno lasciò da parte quelle vane preghiere.
» 111. 1 vari modi che 1’ uomo usa narrando, tutti tro-
» vano luogo nella poesia romanzesca : cosi quelle riflessioni
» che gli vengono suggerite dalle cose già dette o che gli re-
» stano a dire, quell’ altre con cui egli s’ apre la strada
» quando ripiglia la narrazione interrotta, le difese de’ propri
» meriti centra i competitori , l’ accomiatarsi di cerimonia la-
» sciando l’ udienza e invitandola ad ascoltare nel giorno ap-
M presso. E questo metodo specialmente di collegare le parti
» del poema tra loro è assai caro ai poeti romanzeschi, i quali
» sempre finiscono il Canto in un distico, di cui, se variano le
» parole, pur sempre unico è il senso :
All'altro canto vi farò sentire,
Se all'altro canto mi verrete a udire.
Orlando, Canto IX.
Pereti’ esso più degli altri , io ’l serbo a dire
Nell’ altro canto , se '1 vorrete udire.
hi, Canto XLIII.
» Di forme e di materia desunta da popolari racconti
» giovaronsi anco scrittori di alto ordine che riguardarono le
)> narrazioni dei loro predecessori siccome pietre, le quali,
» sebbene già colorite e vagamente screziate per opera della
» natura, non acquistano la perfezione che dopo essere ripii- ,
» lite e lavorate con garbo. 1 poeti romanzeschi si valsero di
» certe tramandate invenzioni, in quella maniera che Dante
» delle leggende. Egli le tramutò in un poema che fu me-
II caviglia di tutte le età e di tutte le genti : se non che Dante
Il e il Petrarca furono poeti, che, quantunque da per tutto fa-
» mosi, non vennero al certo da per tutto compresi. Si aflac-
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IV PBEFAZIONE DELL’ ANNOTATORE.
» conciarono i dotti nel comentarc le loro composizioni ; ma
» la nazione, non eccettuatene le condizioni più alte , sol li
» conobbe di nome. Sul principio dtd secolo decimoquinto
» alcuni oscuri scrittori tolsero a fare romanzi in prosa ed in
» rima prendendo a tema le guerre di Carlomagno e di Or-
» landò, c taluni le avventure di Arturo e dei cavalieri della
» Tavola Rotonda ; le quali opere piacquero tanto che ven-
» nero rapidamente moltiplicate : nondimeno quel genere di
» poeti poneva piccola cura circa lo stile ed il verso ; cercava
)t solo le avventure, gl’ incantamenti, le azioni miracolose.
» 11 che almeno in parte ci spiega si rapida decadenza della
» poesia italiana, e quella corruzione singolarissima della lin-
» gua che segui appena morto il Petrarca , e discese di male
» in peggio fino all’ età di Lorenzo de’ Medici.
» Fu allora che il Pulci compose il Morgavte per tratte-
» nere piacevolmente Madonna Lucrezia, madre che fu di
» Lorenzo ; e lo andava recitando a banchetto col Ficino, col
» Poliziano, con Lorenzo medesimo e cogli altri gloriosi uo-
» mini che di que’ tempi fiorfano Fiorenza. Ma egli fedel-
» mente si attenne all’ orditura originale dei contastorie vol-
» gari, e se chi venne dopo rabbelli quei racconti per modo
» che appena possono essere riconosciuti, egli è certo che in
» verun altro poema si trovano cosi genuini e incorrotti come
» per entro il Morganle. Perocché il Pulci, sebbene per
* ischerzo, acconciavasi al gusto dei tempi; ma poiché il gu-
» sto classico e la sana critica già prendevano piede, ed erano
» grandi gli sforzi dei dotti per sceverare la verità della storia
» dal caos della favola e delle tradizioni , il Pulci medesimo,
» sebbene introduca le fole più stravaganti, pur finge di de-
» plorare gli errori di quelli che lo precedono.
E del mio Carlo imperador m' increbbe.
È stata questa istoria , a quel eh' i' veggio,
Di Carlo male intesa , e scritta peggio.
Uorgante, Canto I, St. 4.
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PBEFAZIONE DELL’ A>NOTATOHE. V
* E mentre cita con riverenza il grande isterico Leonardo
» Aretino, si professa di prestar fede al santo arcivescovo
» Tarpino, uno anche fra gli eroi del poema. In altro luogo
» dov’ egli imita le apologie che i contastorie sogliono fare a
» sè stessi, esce in una destra allusione al criterio degli udi-
» tori:
E so che andar diritto mi bisogna,
Cti’ io non ci mescolassi una bugia ,
Chè questa non è istoria da menzogna;
Chè come io esco un passo della via ,
Chi gracchia, chi riprende , e chi rampogna ,
Ognun poi mi riesce la pazzia ;
Tanto eh' eletto ho solitaria vita ,
Chè la turba di questi è inflnita.
La mia accademia un tempo, o mia ginnasio,
È stata volentier ne'- miei boschetti,
E puossi ben veder rAITrica e l'Asia;
■Vengon le ninfe con lor canestretti,
E portanmi o narciso o colocasia,
E cosi fuggo mille urban dispetti :
Sicch'io non torno a' vostri ariopaghi.
Gente pur sempre di mal dicer vaghi.
Morgante, Canto XXV, St. 116-17.
» La versificazione del Pulci ha una notabile (luidità , e
» le ottave qui sopra citate mostrano saggio dello stile di lui.
» Nondimeno difetta di melodia. Pura è la lingua, T espres-
» sionc scorre naturalmente ; ma tra le frasi non è nè séguito
» nè legamento, e la grammatica spesso non è rispettata. La
» sua forza traligna in asprezza , e amore di brevità uccide
I r immaginazione poetica sullo spiegarsi. Egli mostra i ca-
li ratteri tutti di un genio rozzo , e quantunque atto agii
» scherzi fini e delicati , pure generalmente il suo riso riesce
» amaro e severo. Chè quella sua bizzarria non manifestasi
» già per detti arguti e faceti, ma si per mezzo di situazioni
» inaspettate poste a singolare contrasto tra loro. Carloma-
t> gno condanna re Marsilio di Spagna ad essere appiccato per
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VI PREFAZIONE DELL’ ANNOTATORE.
u crimenlese, e l’arcivescovo Tarpino offre cortesemente
» r opera sua per tale esecuzione;
E disse : lo vo', Marsilio, che tu muoia ,
Dove tu ordinasti il tradimento ;
Disse Turpino; Io voglio esser il boia.
Carlo rispose : Ed io son ben contento
Che sia trattato di questi due cani
L’ opere sante colle sante mani.
Morgante, Canto XXVIl , st 268.
» Qui noi abbiamo un Imperatore che soprantende al
» supplizio di un Re , il quale viene appiccato in presenza di
» una gran folla tutta edificata dallo spettacolo di un Arcive-
t> scovo che compie l’ ufficio di giustiziere. Innanzi che ciò
a abbia luogo, Caradoro spedisce un ambasciadore a Carlo-
» magno, per lamentarsi della infame condotta di un paladino
» ribaldo, che aveva sedotto la principessa sua figlia. L’ ora-
» tore certo non si presenta colle maniere della moderna
» cortesia diplomatica ;
Macon t'abbatta come traditore,
E disleale e 'ngiusto imperadore.
A Caradoro è stato scritto , o Carlo ,
O Carlo, 0 Carlo (e crollava la testa).
Della tua corte , che non puoi negarlo ,
' Della sua flglia cosa disonesta ;
Morgfinle, Canto X, st. 131-33.
» Tali scene potranno parere un po’ strane; ma l’amba-
» sciata di Caradoro, e l’esecuzione di re Marsilio sonofedel-
» mente narrate qual si potrebbe dal popolo, e in quella ma-
» niera che noi le esporremmo se imitare volessimo i conta-
li storie. Che se il Pulci fa mostra di tanto in tanto di grazia
» e di garbo, que’ più ameni suoi passi derivano dal caratten*
» particolare dei Fiorentini, e dagli studi risorti. E parimente
» possiamo attribuire al carattere fiorentino, ed alla influenza
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PBEPAZIONE dell’ ANNOTATORE. VII
» delle brigate fra le quali il Pulci giornalmente trovavasi ,
A quella scurrilità che al parere dei forestieri fa torto troppo
» frequente al poema. 11 Ginguené ha fatto una critica alla
» francese del Pulci. Egli quindi traspone usanze moderne
» ne’ tempi antichi, e tiene per cosa certissima che gl’indivi-
» dui di ogni altra nazione pensino e facciano come i Fran-
» cesi contemporanei. Movendo da tali principii , conchiude
» che quel poeta, serbando pure il rispetto al suo tema ed al
» modo di svolgerlo, aveva intenzione di scrivere versi mera-
» mente burleschi; poiché, come alTerma, egli non avrebbe
» macchiato di tali scurrilità una composizione da recitarsi a
» Lorenzo de’ Medici e a’ dotti suoi ospiti , se avesse inteso di
» fare da senno. Nel felice ritratto che il Machiavello fa di
» Lorenzo sul fine delle sue Storie, di ciò si lagna eh’ e’ ri-
» traesse diletto dalla compagnia ” d’ uomini faceti e morda-
» ci, e da giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva
» si convenisse. ” È da notare che il Varchi, storico contem-
» poraneo, lamentasi dello stesso che il Machiavello. E molti
j> aneddoti invero abbastanza conosciuti della vita del Machia-
» vello, non meno che alcuni suoi versi, chiariscono che mi-
» nistro in azione serbava la gravità, ma che pure a suo tem-
» po, messa da un lato la dignità, sapeva ridere anch’esso
» siccome gli altri mortali. Nè in questo faceva male, credia-
» mo. Certo, qualunque opinione si possa averne, saremo
u sempre forzati a conchiudere che i grandi uomini si crede-
» ranno in dovere di biasimare i costumi de’ loro tempi,
» senza schivarne però l’ influenza. Per altro nel poema del
» Pulci egli è serio cosi l’ argomento , come il modo di colo-
» rirlo. E qui ripetiamo un’osservazione generale, pregando
» il lettore che l’applichi a tutti i poemi cavallereschi italiani;
A ed è questa : — Che la loro comica bizzarria nasce dal con-
A trasto tra lo sforzo che fanno gli scrittori continuamente di
A non mai dipartirsi dagli argomenti e dalle forme puranco
A dei popolari raccontatori, c tra il provarsi nel tempo stesso
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vili PREFAZIONE DELL’ ANNOTATOBE.
» lo ingegno loro di comunicare alla materia interesse e sn-
» blimità.
» Questa semplice spiegazione dell’ indole poetica del
» Margarite fu spesso tema dei critici: e però disputarono
» con calore ne’ due ultimi secoli se fosse scritto in burlesco
» 0 da senno, e se il Pulci non fosse un incredulo che avesse
» poetato all’ intento di farsi beffe di ogni credenza. Il sig. Me-
» rivale inclina, nel suo Orlando in Roneisvalle, a credere col
» Ginguené che il Morgante debba essere riguardato fuor
» d’ ogni dubbio come un poema burlesco, e come una satira
» della religione cristiana. Nondimeno il sig. Merivale stesso
» vi riconosce per entro un effetto tragico , ed anzi un senti-
» mento religioso che lo riveste d’ una tal qual dignità,
» ond’ egli è sforzato di abbandonare la questione tra gli altri
» fenomeni non ancora spiegati, e inesplicabili forse, del-
» r umano intelletto. E poiché una simile disputa non é
» stata ancora risoluta quanto all’ Ariosto ed a Shakspeare ,
)■ sarà argomento di questione perpetuo, se il primo abbia in-
» teso di indurci a ridere degli stessi suoi cavalieri, e di scri-
» ver tragedie il secondo. Ed è vera fortuna che, quanto a
» questi due grandi poeti, la guerra sia stata finita dall' inter-
» vento ben arrivato del corpo generale dei leggitori che in
» tale materia giudica con erudizione minore, e insieme an-
» che con minore pregiudizio, dei critici. Ma il Pulci vien
» letto poco, e poco è noto il suo secolo. 11 sig. Merivale as-
» serisce che punti di astrusa teologia si discutono nel Mor-
» gante con tale una scettica libertà che noi possiamo ben
» credere aliena dal secolo decimoquinto. Cosi egli segue le
» orme del Ginguené, che dal suo canto segue le orme del
» filosofo di Ferney; il quale suonava per tutti i quartieri a
Il raccolta contra la fede cristiana, e a questo fine adunò tutti
» i luoghi scritturali del Pulci facendovi sopra comenti in suo
» stile. Ma è solo dal Concilio di Trento, scendendo a noi, che
Il ove un qualche dubbio si levi in materia di religione, l’au-
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PREFAZIONE DELL ANNOTATORE.
IX
» tore incontri la taccia di empio ; poiché nel secolo decimo-
» quinto un Cattolico poteva essere sinceramente divoto , e
» nondimeno permettersi un certo grado di latitudine ne’teo-
» logici dubbi. E i Fiorentini potevano allora credere nel-
» l’Evangelio e ridersi di un dottore di teologia: perché fu
» di que’ tempi precisamente che si trovarono spettatori di
» quelle memorabili controversie fra i rappresentanti della
» Chiesa Occidentale e della Orientale. Vescovi greci e latini
» da ogni angolo della Cristianità si erano ragunati in Firenze
« per farvi prova d’ intendersi, se fosse stato possibile, gli uni
» cogli altri; ma si partirono odiandosi peggio di prima. Men-
» tre il Pulci scriveva il Morganle, il clero di Firenze pro-
» testava centra le scomuniche pronunciate da Sisto IV, con
» termini che alla sua volta scomunicavano il papa. Un arci-
« civescovo, convinto d’ essere un faccendone papale, veniva
» appiccato ad una delle finestre del palazzo di governo in
» Firenze : questo caso potrebbe aver suggerito l’ idea di
» cambiare un altro arcivescovo, nel poema, in carnefice.
» I poeti romanzeschi pongono le osservazioni letterarie
» e scientifiche in luogo delle intramesse triviali de’ conta-
» storie. Questo fu grande miglioramento, e quantunque non
> bene adoperato dal Pulci , pure ci vien presentando più
» d’ una curiosa incidenza. Citando il filosofo suo amico e
» contemporaneo Matteo Palmieri, egli spiega l’ istinto dei
» bruti con una ipotesi ardita, supponendo , cioè , che siano
«I essi animati da mali spiriti. Questa idea non offese i teologi
» del secolo decimoquinto , ma risvegliò molto sdegno orto-
n dosso, quando un frate francese, il Padre Rougeant, l’ an-
» nunciò come una teorica sua. 11 sig. Merivale, dopo avere
» osservato che il Pulci mori non ancora scoperta l’America
» da Colombo, cita un luogo che dee divenire un documento
» prezioso per la storia della filosofia :
Sappi che questa opinione è vana,
Perchè più oltre navicar si puote ,
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\ PUEFAZIONB dell’ ANNOTATORE.
Però che l' acqua in ogni parte è piana ,
Benché la terra abbi forma di ruote ,
Era più grossa allor la gente umana ,
Tal che potrebbe arrossirne le gote
Ercole ancor d’aver posti que' segni,
Perchè più oltre passeranno i legni.
E puossi andar giù nell' altro emisperio,
Però che al centro ogni cosa reprime :
Sì che la terra per divin misterio
Sospesa sta fra le stelle sublime,
E laggiù son città, castella e imperio;
Ma noi conobbon quelle gente prime.
Morgante, Canto XXV, st. 5t29-30.
» Più consideriamo i vestigi della scienza antica die
» rompe in subiti lampi fra le tenebre dei tempi di mezzo , i
» quali per altro riaccesero a grado a grado la luce nell’ oriz-
» zonte, più siamo disposti ad accettare l’ipotesi da Bailly
» sostenuta con seducente eloquenza. Voleva egli che tutte
» le cognizioni de’ Greci e de’ Romani fossero state loro par-
» tecipate come avanzo di un naufragio e come rottami della
» sapienza già posseduta dalle antichissime delle nazioni,
» istruite dai savi e filosolì, poi cancellate dalla superficie
» della terra per qualche sommergimento. Teorica die parrà
» stravagante ; ma certo, se le opere della letteratura romana
» non sussistessero, parrebbe cosa incredibile che dopo il corso
» di pochi secoli la civiltà del tempo d’Augusto dovesse essere
» seguita in Italia da tale e tanta barbarie. Gl’ Italiani diven-
» nero per modo ignoranti, che obbliarono fino i cognomi di
• loro famiglie , e innanzi il secolo undecimo il nome di bat-
» tesimo era il solo che distinguesse l’uno dall’altro. Avevasi
» nondimeno un’idea, sebbene confusa, dell’esistenza degli
» antipodi, ed era reminiscenza dell’ antica dottrina. Dante
» ha indicato il numero e la posizione delle stelle formanti la
» costellazione polare dell’ emispero australe, e ne dice che
» quando Lucifero rovinò dalle celesti regioni ebbe forata la
» terra cadendo giù; metà del suo corpo rimase dal lato d('l
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PnEFAZIONK dell’ ANNOTATOUE.
XI
» centro che a noi riguarda, metà dall’ altro. L’ urto dato
• alla terra , dal suo cadere , trasse gran parte d’ oceano al-
B l'emispero meridionale, e solo un’alta montagna restò sco-
» perta, sopra la quale colloca Dante il suo Purgatorio. K
» siccome questa caduta avvenne innanzi la creazione di
j) Adamo, è chiaro abbastanza perchè non abbia egli scritto
» che l’emispero meridionale fosse abitato; ma trenta anni
» dipoi, il Petrarca, che fu più pratico degli antichi scrittori,
» avventurò la supposizione che il sole splendesse sopra mor-
> tali a noi sconosciuti :
Nella stagìon che 'I cicl rapido inchina
Verso occidente, e che ’l di nostro vola
A gente che di là forse l'aspetta.
' fiime, Parte I’, Canz. IX.
» Un altro passo fu fatto nel corso di mezzo secolo
» dopo il Petrarca. L’esistenza degli antipodi fu pienamente
» provata. Il Pulci mette in campo un diavolo (Astarotte) per
» annunziare quel fatto; ma egli lo seppe dal suo concitta-
» dino Paolo Toscanelli, astronomo e matematico illustre,
» che scrisse già vecchio a Cristoforo Colombo, esortandolo
» ad intraprendere la spedizione.
» Dante ha trasportato alcuni luoghi della Volgata nella
» Commedia , e il Petrarca , il più religioso dei poeti , cita la
» Sacra Scrittura pur mentre amoreggia. Nè però furono ac-
» cusati giammai d’empietà. Nè il Pulci incorse pericolo di
» scomunica postuma, se non dopo la Riforma. La notizia che
» il Pulci fosse in odore di eresia ebbe al certo influenza so-
» pra i giudizi di Milton, che parla del Morganle siccome di
» un " romanzo per passatempo. ” Egli desiderava fervida-
» mente di dimostrare che gli scrittori cattolici istessi ave-
» vano messo in deriso i teologi papali, e che la Scrittura
« era stata soggetta al giudizio privato, non ostante che i papi
» ne proibissero la lettura. La quale ardente sua brama non
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XII PREFAZIONB DELL* ANNOTATORE.
» gli permise di soffermarsi ad esaminare se questa proibi-
» zione non potesse essere forse posteriore alla morte del
« Pulci. Aveva studiato il Margarite, e se n’ era anche giovato.
» La scienza eh’ egli attribuisce ai demonii , il loro pentirsi
» fuor di speranza, gli ahi sentimenti eh’ egli pone in alcuni
» di loro, e segnatamente il principio che , non ostante il de-
li litto e la pena , ritengono tuttavia la grandezza e la perie-
li zione dell’angelica loro natura, si trovano nell’ uno e nel-
» l’altro poema. L’ Ariosto ed il Tasso imitarono diversi altri
» luoghi. Ma quando i grandi poeti tolgono a prestito da in-
» gegni inferiori, essi migliorano di tanto le cose tolte, che è
» pur difficile di scoprire i lor furti, e più ancora di poterneli
« biasimare.
» 11 poema è zeppo di re , di cavalieri , di giganti e di
» diavoli. Vi ha molte battaglie e molti duelli. Guerre deri-
» vano da altre guerre , e gl’ imperii vengono di colpo con-
» quistati in un giorno. Il Pulci ne fa trattamento copioso di
» magie e d’ incantamenti. Le avventure amorose non hanno
» particolare interesse , e fatta eccezione di quattro o cinque
» persone principali , i suoi caratteri non sono d’ alcun rao-
♦ » mento; la favola appoggiasi interamente all’ odio che Gancl-
» Ione, perfido cavalier di Maganza, porta ad Orlando e agli
» altri paladini cristiani. Carlomagno si lascia facilmente ag-
ii girare da Ganellone, suo agente e suo intrinseco , che bis-
» tratta Orlando e gli amici suoi nella guisa la più ribalda, e
» li sommette a duri ser\igi nelle guerre contra la Francia.
» Ganellone è mandato in Ispagna per trattare con re Marsi-
• lio a fine di ottenere per Orlando la cessione di un regno ;
» ma in quella vece egli macchina un tradimento cogli Spa-
li gnuoli, e Orlando è ucciso nella battaglia di Roncisvalle. Le
Il mene di Ganellone , l’ invidia , P ostinazione , la dissimula-
li zione, la finta umiltà, l’attitudine sua a sempre nuove fal-
» lacie, ciò tutto è dipinto mirabilmente; e il carattere di G5-
» nellone è il principale e più accurato lavoro di tutto il
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PREFAZIONE dell’ AN^OTATOBE. , XIII
» poema. Carlomagno é un degno monarca, ma troppo aperto
» agl’inganni. Orlando è un eroe, casto c generoso, che
» combatte da forte per la propagazione dell’ Evangelio. Egli
» battezza Morgante, che poi lo serve da fido scudiero. Avtì
I) un altro gigante il cui nome è Margiitte. Morgante s’ in-
0 contra con lui, e da quell’ora diventano fratelli giurati.
» Margotte è un gigante infedele, pronto a confessare i suoi
» falli, e fecondo di scherzi: si ride di tutti e di tutto; di
» dotti , di giganti , d’ eroi , di diavoli , e chiude la vita scop-
> piando dal riso. »
Esposti i concetti del Foscolo intorno a questo poema,
poche cose diremo della vita del Pulci. Nacquesi egli in Fi-
renze da Iacopo di Francesco l’anno l i52, a’ di 15 d’agosto.
Due anni innanzi era nato Matteo Boiardo , conte di Scandia-
no, il quale pur gli sopravvisse intorno a dieci anni, essendo
morto il Pulci nel 1 494 , quasi subito dopo compiuto il Mor-
gante. Ignote ci sono le circostanze della sua morte, del pari
che il luogo del suo sepolcro. Tolse per moglie la Lucrezia
d’Alberto degli Albizzi, della quale generò due figliuoli, Ro-
berto, c Iacopo. E s’ ebbe altresi due fratelli, i quali pure fu-
ron , per quei tempi , poeti non dispregevoli : anzi di Luca ,
uno di essi, che compose il Ciriffo Calvaneo, fu chi giudicò
doversi a Luigi anteporre. E tra questi fu il Varchi, che nel-
r Ercolano preferì il Ciriffo al Morgante, come quello che,
oltre alla purità della favella, era eziandio nei concetti più
considerato e meno ardito. Ed oltre a questo meritò anche
Luca di esser chiamato dal Giovio, nell’elogio del Poliziano,
poeta nobile. Bernardo, l’ altro fratello , fu dei primi a scri-
vere in italiano poesie pastorali , delle quali varie compose
egli stesso, e quelle di Virgilio tradusse. Fu autore anche di
certe Rappresentazioni teatrali allora in gran voga , e che ac-
cennavano al nascimento del dramma italiano. Nel qual ge-
nere di poesia ebbe non piccola rinomanza anche Antonia
moglie di lui. Era insomma di quei tempi la casa dei Pulci
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XIV PaKFAZIONE DEI.l’ ANNOTATOBE.
la vera sede delle Muse, perciocché, senza dire d’Antonia,
ben tre fratelli s’ ebbero ad un tempo lode di abili verseggia-
tori ; onde a ragione il Verino disse di loro :
Carminilms patriis notissima Pulcia proks.
Qui non hnne urbem Musarum dica! amicam,
Si Ires producat fralres domus una poHus ?
Ma tornando a Luigi, il qual fu pure il più chiaro germe che
uscisse di quella stirpe, s’acquistò chiarissima fama appresso
i posteri, per avere il primo dato forma al Poema Romanze-
sco italiano, e con leggiadria raccontate le favolose istorie
cavate dal romanzo o cronaca , come chiamar si voglia , at-
tribuita a Turpino, o Tilpino, arcivescovo di Reims, e guer-
riero ad un tempo e paladino alla corte di Carlomagno. K
comecché gli altri, che dopo lui cantarono le cose medesime,
di gran lunga se lo lasciassero addietro; pur tuttavolta ri-
marrà a lui la gloria d’aver loro aperta la strada. Fu però chi
sostenne non esser questa opera del Pulci , ma si d’ Angelo
Poliziano; od oltre a molti altri Teofilo Folengio, più noto
sotto il nome di Merlin Coccaio , sostiene a tutt’ uomo tale
opinione. Ma da ciò che il Pulci dice a lode del Poliziano
nella stanza ItG e nelle seguenti dell’ultimo canto, e’ non
pare potersene inferire che esso Agnolo fosse l’ autore del
poema, e che al Pulci ne facesse cortese dono, come asserisce
Ortensio Landò ; ma si bene da esse stanze si cava come il
Pulci avesse Agnolo in grandissima stima, e come deside-
rasse imitarne il leggiadrissimo poetare ; onde disse alla
stanza 147:
Io seguirò la sua famosa lira
Tanto dolce soave armonizzante
Che come calamita a sé mi tira.
Senzaclié chiunque abbia lette le opere del Poliziano potrà
agevolmente scorgere da sé medesimo quanta differenza sia
fra quel suo piacevolissimo stile e questo del Pulci. Né é più
vero che Marsilio Ficino ponesse mano al poema aiutandone
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PKEFAZIONE UELL’ ANNOTATORE.
XV
l’Autore, come prende a sostenere Torquato Tasso, affer-
mando che il ricino ebbe parte in quello solo dove per forza
d’ incanto Malagigi costringe un demonio a portar Rinaldo e
Ricciardetto in tre giorni dall’ Egitto in Roncisvalle. Ma per
asserir ciò non vi è altro argomento se non quello solo che
Astarotte parla molto di cose teologiche. Ma perche non po-
teva il Pulci stesso essere in quelle versato? molto più che
esse erano in quei tempi più che al presente diffuse anche
fra i laici? Insomma, oggimai non è più da dubitare che il
Morganle non sia parto del bizzarro ingegno del Pulci, il
quale compose, oltre a questo, un altro Poema intitolato
il Drìadeo, che pur taluno volle attribuire a Luca fratello suo.
Delle altre opere di lui ci rimangono una raccolta di Odi,
Canzoni e Sonetti alquanto licenziosi, il Credo, le Rime, la
Frottola, la Confessione , un Capitolo sopra il Popule meus, i
Sonetti alla Croce e a Gesù Cristo , e una Novella a Madonna
Ippolita, figliuola del duca di Calavria. Questo solo sappiamo
della vita e delle cose del nostro Luigi. Or non ne rimane
che volgere una novella esortazione agli studiosi della lingua
nostra, affinchè da questa ricca miniera vogliano cavar largo
tesoro di belli ed eletti modi del toscano parlare. E poiché il
senso morale di un componimento non debbo mai venir tra-
scurato, apprendano i leggitori , come nel Gigante che alle
parole di Orlando si converte, e si rende cristiano , e si fa suo
.scudiere, intese per avventura il Poeta di simboleggiare (e
questo pure è concetto del Foscolo) la forza brutale che cede
al potere della religione.
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IL N0R6ANTE MAGGIORE.
CAJWTO PRimO.
juaiommaaviD,-
Vivendo Carlo Magno imperadore
Co’ Paladini in feata c in allegria,
Orlando contro Gano traditore
S’adira, e parte' verso Pagania:
Giunge a un deserto , e dal bestiai furore
Di tre giganti salva una badia.
Che due n’ uccide , e con Morgante elegge
Di bnon sozio e d’ amico usar la legge.
1 In principio era il Verbo appresso a Dio,
Ed era Iddio il Verbo, e il Verbo lai ;
Quesl’era nel principio, al parer mio,
E nulla si può far sanza costui :
Però, giusto Signor, benigno e pio.
Mandami solo un degli Angeli tui.
Che m’accompagni, e rechimi a memoria
Una famosa, antica e degna storia.
2 E tu Vergine, Gglia, e madre, e sposa
Di quel Signor, che ti dette la chiave
Del cielo, e dell’abisso, e d’ogni cosa.
Quel di che Gabriel tuo ti disse Ave ;
Peròhè tu se’ de’ tuoi servi pietosa.
Con dolce rime, e stil grato e soave
Aiuta i versi miei benignamente,
E ’nsino al fìne illumina la mente.
3 Era nel tempo, quando Filomena
Colla sorella si lamenta e plora.
Che si ricorda di sua antica pena ,
E pe’ boschetti le ninfe innamora ;
E Febo il carro temperato mena.
Che ’l suo Fetonte l’ ammaestra ancora ;
Ed appariva appunto all’ orizzonte.
Tal che Titon si grafTiava la fronte:
l
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2
IL MOHGANTE MAGGIORK.
4 Qaand’io varai ia mia barchetta, prima
Per ubbidir chi sempre ubbidir debbe
La mente, e faticarsi in prosa e in rima,
E del mio Carlo imperador m’increbhe;
Che so quanti la penna ha posto in cima ,
Che tutti la sua gloria prevarrebbe :
È stala questa istoria, a quel eh’ i’ veggio,
Di Carlo male intesa, e scritta peggio.
6 Diceva già Lionardo Aretino,
Che s’egli avessi avuto scrittor degno,
Com’ egli ebbe un Ormanno il suo Pipino,
Ch’ avessi diligenzia avuto e ingegno ;
Sarebbe Carlo Magno un uom divino,
Però ch’egli ebbe gran vittorie e regno,
E fece per la Chiesa e per la Fede
Certo assai più che non si dice, o crede.
6 Guardisi ancora a San Liberatore,
Quella badia là presso a Menappello
Giù nell’Abbruzzi fatta per suo onore,
• Dove fu la battaglia e ’l gran flagello
D’un re pagan, che Carlo imperadore
Uccise, e tanto del suo popol fello;
E vedesi tante ossa, e tanti il sanno.
Che tutte in Giosaffà poi si vedranno.
7 Ma il mondo cieco e ignorante non prezza
Le sue virtù, com’ io vorrei vedere;
E tu, Fiorenza,- della sua grandezza
Possiedi, e sempre potrai possedere
Ogni costume ed ogni gentilezza.
Che si potessi acquistare o avere
Col senno, col tesoro, o colla lancia
Dal nobil sangue venuto di Francia.
8 Dodici paladini aveva in corte
Cario, e ’l più savio e famoso era Orlando;
Gan traditor lo condusse alla morte
In Roncisvalle, un trattato ordinando;
Là dove il corno sonò tanto forte
Dopo la dolorosa rotta, quando
Nella sua Commedia Dante qui dice ,
E metlclo con Carlo in ciel felice.
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CANTO PRIMO.
3
g Era per Pasqua, quella di Natale:
Carlo la corte avca tutta in Parigi ;
Orlando, com’ io dico, il principale
Evvi, il Danese, Astolfo, e Ansuigi:
rannosi feste c cose trionfale,
E molto celebravan San Dionigi:
Angiolin di Baìona, e Ulivieri
V’ era venuto, e ’I gentil Berlinghieri. .
10 Eravi Avofio, ed Avino, ed Ottone
Di Normandia, Riccardo paladino,
E ’l savio Namo, e ’l vecchio Salomone,
Gualtier da Monlione, e Baldovino,
Ch’era flgliuol del tristo Ganellone;
Troppo lieto era il fìglinol di Pipino,
Tanto che spesso d’ allegrezza geme,
Veggendo tutti i paìadini insieme.
11 Ma la fortuna attenta sta nascosa
Per guastar sempre ciascun nostro effetto:
Mentre che Carlo cosi si riposa.
Orlando governava in fatto c in detto
La corte e Carlo Magno ed ogni cosa ;
Gan per invidia scoppia il maladetto,
E cominciava un di con Carlo a dire:
Abbiam noi sempre Orlando ad ubbidire?
12 Io ho creduto mille volte dirti :
Orlando ha in sè troppa presunzione ;
Noi siam qui Conti, Re, Duchi a servirti,
E Namo, Ottone, Uggieri, e Salomone,
Per onorarti ognun, per ubbidirti;
Che costui abbi ogni reputazione,
Noi sofferrem, ma siam deliberati
Da un fanciul non esser governati.
13 Tu cominciasti insino in Aspramente
A dargli a intender che fussi gagliardo,
£ facessi gran cose a quella fonte.
Ma se non fussi stato il buon Gherardo,
Io so che la vittoria era d’Almonte;
Ma egli ebbe sempre l’ occhio allo stendardo.
Che si voleva quel di coronarlo :
Questo è colui c’ ha meritato Carlo.
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4
IL MORGANTE MAGGIORE.
-14 Se (i ricorda, già sendo in Guascogna,
Quando e’ vi venne la gente di Spagna,
Il popol de’ Cristiani avea vergogna ,
Se non mostrava la sua forza magna :
II ver convien pur dir, quand’ e’ bisogna :
Sappi eh’ ognuno, impcrador, si lagna :
Quant’io per me, ripasserò que’ monti,
Ch’ io passai ’n qua con sessantaduo conti.
i6 La tua grandezza dispensar si vuole,
£ far che ciascun abbi la sua parte ;
La corte tutta quanta se ne duole :
Tu credi che costui sia forse Marte?
Orlando un giorno udì queste parole ,
Che si sedeva soletto in disparte ;
Dispiacqnegli di Gan-quel che diceva.
Ma molto più che Carlo gli credeva.
16 E volle colla spada uccider Gano ;
Ma Ulivieri in quel mezzo si mise,
E Dnriindana gli trasse di mano ,
E cosi il me’ che seppe gli divise.
Orlando si sdegnò con Carlo Mano,
E poco men che quivi non l’ decise ;
£ dipartissi di Parigi solo ,
E scoppia , e ’mpazza di sdegno e di duolo.
47 Ad Ermellina moglie del Danese
Tolse Cor tana, e poi tolse Rondello,
E ’n verso Brava il suo cammin poi prese.
Alda la bella come vidde quello.
Per abbracciarlo le braccia distese.
Orlando, che smarrito avea il cervello ,
Com’ella disse: Ben venga il mio Orlando;
Gli volle in sulla testa dar col brando.
48 Come colui che la furia consiglia,
E’ gli pareva a Gan dar veramente:
Alda la bella si fe meraviglia ;
Orlando si ravvidde prestamente :
E la sua sposa pigliava la briglia ,
E scese del cavai subitamente ;
Ed ogni cosa narrava a costei ,
E riposossi alcun giorno con lei.
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CANTO PRIMO.
19 Poi si parli portato dal farore,
E terminò passare in Pagania ;
E mentre che cavalca, il traditore
Di Gan sempre ricorda per la via ;
E cavalcando d’ uno in altro errore,
In un deserto trova una badia
In luoghi oscuri e paesi lontani,
Ch’era a’conGn tra Cristiani e Pagani.
20 L’ abate si chiamava Chiaramonte,
Era del sangue disceso d’ Anglante ;
Di sopra alla badia v’era un gran monte,
Dove abitava alcun Gero gigante.
De’ quali uno avea nome Passamente,
L’altro Alabastro, e ’l terzo era Morganle
Con certe Trombe giltavan da alto,
Ed ogni di facevan qualche assalto.
21 I monachetti non potieno uscire
Del monistero, o per legne, o per acque.
Orlando picchia, e non volieno aprire
Fin che all’ abate alla Gnc pur piacque :
Entrato dentro, cominciava a dire,
Come Colui, che di Maria già nacque,
Adora, ed era Cristian battezzato,
E come egli era alla badia arrivato.
22 Disse r abate : li ben venuto sia :
Di quel ch’io ho, volentier ti daremo.
Poi che tu credi al Ggliuol di Maria ;
E la cagion, cavalier, li diremo.
Acciò che non l’imputi a villania.
Perchè all’ entrar resistenza facemo,
£ non ti volle aprir quel monachetto :
Cosi interviene a chi vive in sospetto.
23 Quando ci venni al principio abitare
Queste montagne, benché sieno oscure.
Come tu vedi, pur si potea stare
Sanza sospetto, che l’eran sicure:
Sol dalle fiere l’avevi a guardare :
Feronci spesso di strane paure;
Or ci bisogna, se vogliamo starci.
Dalle bestie dimestiche guardarci.
IL MOaGA^TE HÀGGIOBE.
24 Queste ci fan piuUosio stare a segno :
Sonci appariti tre fieri giganti,
Non so di qual paese, o di qual regno;
3Ia molto son feroci tutti quanti :
La forza, e’I malvoler giunt’allo ’ngegno.
Sai, che può il tutto; e noi non siam bastanti:
Questi perturban si l’orazion nostra,
Che non so più che far, s’ altri noi mostra.
25 Gli antichi padri nostri nel deserto,
Se le lor opre sante erano e giuste.
Del ben servir da Dio n’avean buon merto:
Nè creder, sol vivessin di locuste :
Piovea dal cicl la manna, questo è certo ;
Ma qui convien che spesso assaggi e guste
Sassi, che piovon di sopra quel monte.
Che gettano Alabastro e Passamonte.
26 E ’l terzo, eh’ è Morgante, assai più Aero,
Isveglie e pini, e faggi, e cerri, e gli oppi,
E gettagli insin qui, questo è pur vero;
Non posso far, che d’ira non iscoppi.
Mentre che parlan cosi in cimitero.
Un sasso par che Rondel quasi sgroppi,
Che da’ giganti giù venne da alto,
Tanto eh’ e’ prese sotto il tetto un salto.
27 Tirati dentro, cavalier, per Dio,
Disse r abate, chè la manna casca.
Rispose Orlando: Caro abate mio.
Costui non vuol che ’l mio cavai più pasca ;
Veggo che lo guarrebbe del restio ;
Quel sasso par che di buon braccio nasca.
Rispose il santo padre : Io non t’ inganno.
Credo che il monte un giorno gitteranno.
28 Orlando governar fece Rondello,
E ordinar per sè da colazione:
Poi disse: Abate, io voglio andare a quello.
Che dette al mio cavai con quel cantone.
Disse r abate : Come? car fratello,
Consiglierotti sanza passione:
Io ti sconforto, baron, di tal gita,
Ch’ io so che tu vi lascerai la vita.
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CANTO PRIMO.
29 Quel Passamonte porla in man (re dardi,
Chi frombe, chi baslon , chi mazzafrusti;
Sai che giganti più di noi gagliardi
Son per ragiob, che sono anco più giusti :
E pur se vuoi andar, fa che li guardi,
Chè questi son villan molto robusti.
Rispose Orlando : Io lo vedrò per certo;
Ed avviossi a piè su pel deserto.
50 Disse l’abate col segnarlo in fronte:
Va, che da Dio e me sia benedetto.
Orlando, poi che salii’ ebbe il monte,
Si dirizzò, come l’ abate detto
Gli aveva, dove sta quel Passamonte,
Il quale Orlando veggendo soletto.
Molto lo squadra di drieto e davantc :
Poi domandò, se star volea per fante.
31 E prometteva di farlo godere.
Orlando disse : Pazzo Saracino,
10 vengo a te, come è di Dio volere.
Per darti morte, e non per ragazzino;
A’ monaci suoi fatto hai dispiacere.
Non può più comportarti , can mastino.
Questo gigante armar si corse a furia.
Quando senti eh’ e’ gli diceva ingiuria.
32 E ritornato ove aspettava Orlando,
11 qual non s’era partito da bomba.
Subito venne la corda girando,
E lascia un sasso andar fuor della fromba.
Che in sulla testa gìugnea rotolando
Al conte Orlando, e l’elmetto rimbomba:
E cadde per la pena tramortito.
Ma più che morto par, tanto è stordito.
33 Passamonte pensò che fussi morto,
E disse: Io voglio andarmi a disarmare ;
Questo poltron per chi m’aveva scorto?
Ma Cristo i suoi non suole abbandonare.
Massime Orlando, eh’ egli arebbe il (orlo.
Mentre il gigante l’ arme va a spogliare.
Orlando in questo tempo si risente ,
E rivocava e la forza e la mente.
8
IL HORGANTE MAGGIORE.
54 E gridò forte: Gigante, ove vai?
Ben li pensasti d’ avermi ammazzato I
Volgiti a drieto, che s’alia non hai,
Non puoi da me fuggir, can rinegalo :
A tradimento ingiuriato m’ hai.
Donde il gigante allor maravigliato,
Si volse a drieto, e riteneva il passo ;
Poi si chinò, per tor di terra un sasso.
35 Orlando avea Corlana ignuda in mano.
Trasse alla testa, e Cortana tagliava:
Per mezzo il teschio parti del Pagano,
E Passamonte morto rovinava ;
E nel cadere il superbo e villano
Divotaraente Macon bestemmiava :
Ma mentre che bestemmia il crudo e acerbo.
Orlando ringraziava il Padre e ’l Verbo,
36 Dicendo: Quanta grazia oggi m’hai datai
Sempre ti sono, o Signor mio, tenuto;
Per te conosco la vita salvala,
Però che dal gigante era abbattuto :
Ogni cosa a ragion fai misurata.
Non vai nostro poter sanza il tuo aiuto ;
Priegoli, sopra me tenga la mano.
Tanto che ancor ritorni a Carlo Mano.
37 Poi eh’ ebbe questo detto, sen’ andòe,
Tanto che Iruova Alabastro più basso.
Che si sforzava, quando e’ lo trovòe.
Di sveglier d’ una ripa fuori un masso.
Orlando, com’ e’ giunse a quel, gridòe:
Che pensi tu, ghiolton, gittar quel sasso?
Quando Alabastro questo grido intende,
Subitamente la sua fromba prende.
3S E trasse d’ una pietra mollo grossa,
Tanto eh’ Orlando bisognò schermisse ;
Che se l’avessi giunto la percossa,
Non bisognava il medico venisse.
Orlando adoperò poi la sua possa,
Nel pettignon tutta la spada misse ;
E morto cadde questo badalone,
E non dimenticò però Macone.
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CANTO PRIMO.
39 Morgante avea al suo modo un palagio
Fatto di frasche, e di schegge, e di terra ;
Quivi, secondo lui, si posa ad agio.
Quivi la notte si rinchiude e serra.
Orlando picchia, e daràgli disagio.
Perchè il gigante dal sonno si sferra ;
Yennegli aprir come una cosa matta,
Ch’ un’ aspra Vision aveva fatta.
40 E’ gli parea eh’ un feroce serpente
L’ avea assalito, e chiamar Macometto ;
Ma Macometto non valea niente ,
Ond’ e’ chiamava Gesù benedetto ;
E liberato l’ avea finalmente.
Venne alla porta, ed ebbe cosi detto:
Chi bussa qua ? pur sempre borbottando.
Tn’l saprai tosto, gli rispose Orlando.
41 Vengo per farti, come a’ tuo’ fratelli.
Far de’ peccati tuoi la penitenzia ;
Da’ monaci mandato cattivelli.
Come stat’ è divina providenzia ,
Pel mal eh’ avete fatto a torto a quelli :
È dato in ciel cosi questa sentenzia :
Sappi, che freddo già più eh’ un pilastro
Lasciato ho Passamonte e ’l tuo Alabastro.
42 Disse Morgante; 0 gentil cavaliere,
Per lo tuo Dio non mi dir villania :
Di grazia, il nome tuo vorrei sapere;
Se se’ Cristian , deh dillo in cortesia.
Rispose Orlando : Di colai mestiere
Contenterotti per la fede mia ;
Adoro Cristo, eh’ è Signor verace,
E puoi tu adorarlo, se ti piace.
43 Rispose il Saracin con nmil voce :
Io ho fatta una strana visione,
Che m’ assaliva un serpente feroce ;
Non mi valeva per chiamar Macone ;
Onde al tuo Dio, che fu confitto in croce.
Rivolsi presto la mia intenzione :
E’ mi soccorse, e fui libero e sano,
E son disposto al tutto esser Cristiano.
10
11. MOKGANTE MAGGIORE.
44 Rispose Orlando: Baron giusto c pio,
Se questo buon voler terrai nel core,
L ’ anima tua ara quel vero Dio,
Che ci può sol gradir d’eterno onore ;
E stu vorrai, sarai compagno mio,
E amerotti con perfetto amore :
Gl’ Idoli vostri son bugiardi e vani;
Il vero Dio è lo Dio de’ Cristiani.
46 Venne questo Signor sanza peccalo
Nella sua madre vergine pulzella ;
Se conoscessi quel Signor bealo,
Sanza ’l qual non risplende sole, o stella.
Aresti già Macon tuo rinegato,
E la sua fede iniqua, ingiusta e fella :
Ballézzati al mio Dio di buon talento.
Morgante gli rispose : lo son contento.
46 E corse Orlando subito abbracciare.
Orlando gran carezze gli facea,
E disse : Alla badia li vo’ menare.
Morgante: Andianvi presto, rispondea.
Co’ monaci la pace si vuol fare.
Della qual cosa Orlando in sè godea.
Dicendo: Fralel mio di voto c buono,
lo vo’ che chieggo all’abate perdono.
47 Da poi che Dio ralluminalo l’ ha.
Ed accettato per la su% umiltade.
Vuoisi che tu ancor usi umiltà.
Disse Morgante: Per la tua boutade, *
Poi che il tuo Dio mio sempre ornai sarà.
Dimmi del nome tuo la verilade ;
Poi di me dispor puoi al tuo comando.
Ond’ e’ gli disse, cora’ egli era Orlando.
48 Disse il gigante : Gesù benedetto
Per mille volle ringrazialo sia ;
Sentilo t’ho nomar, Baron perfetto.
Per tutti i tempi della vita mia:
E com’ io dissi , sempremai soggetto
Esser li vo’ per la tua gagliardia.
Insieme molte cose ragionaro,
E ’n verso la badia poi s’ inviaro.
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cìnto primo.
11
49 E fer la via da qae’ giganti morti ;
Orlando con Morgante si ragiona :
Della 4or morte vo’ che li conforti,
E poi che piace a Dio, a me perdona ;
A’ monaci avean fatto mille torli,
E la nostra Scrittura aperto suona:
il hen remunerato, e ’l mal punito;
E mai non ha questo Signor fallito.
60 Però ch’egli ama la giustizia tanto,
Che vuol, che sempre il suo giudicio morda
Ognun, eh’ abbi peccato tanto o quanto;
E cosi il ben ristorar si ricorda,
E non saria sanza giustizia santo :
Adunque al suo voler presto l’accorda,
Chè debbe ognun voler quel che vuol. questo,
Ed accordarsi volentieri e presto.
51 E sonsi i nostri dottori accordati.
Pigliando tutti una conclusione.
Che que’ che son nel ciel glorifìcali,
S’ avessin nel pensier compassione
De’ miseri parenti che dannati
Son nello inferno in gran confusione.
La lor felicità Yiulla sarebbe:
E vedi, che qui ingiusto Iddio parrebbe.
52 Ma egli hannó posto in Gesù ferma spene,
E tanto pare a ler, quanto a lui pare ;
AtTerman, ciò eh’ e’ fa, che facci bene,
E eh’ e’ non possi in nissun modo errare :
Se padre o madre è nell’ eterne pene.
Di questo non si posson conturbare ;
Chè quel che piace a Dio, sol piace a loro:
Questo s’ osserva nell’ eterno coro.
53 Al savio suol bastar poche parole,
Disse Morgante: tu il potrai vedere.
De' miei fratelli. Orlando, se mi duole,
E s’ io m’ accorderò di Dio al volere,
Come tu di’ che in ciel servar si suole :
Morti co’ morti ; or pensiam di godere ;
lo vo’ tagliar le mani a tutti quanti,
• E porterolle a que’ monaci santi.
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12
IL MORGANTE MAGGIORE.
64 Acciò eh’ Ognun sia più sicuro e cerio,
Com’e’ son morti, e non abbih paura
Andar solelli per questo deserto ^
E perchè veggan la mia mente pura
A quel signor, che m’ha il suo regno aperto,
E tratto fuor di tenebra si oscura.
E poi tagliò le mani a’ duo fratelli ,
E lasciagli alle fiere, ed agli uccelli.
55 Alla badia insieme se ne vanno.
Ove l’abate assai dubbioso aspetta :
I monaci, che ’l fatto ancor non sanno,
Correvano all’abate tutti in fretta.
Dicendo paurosi e pien d’ affanno :
Volete voi costui drento si metta?
Quando l’abate vedeva il gigante,
ài turbò tutto nel primo sembiante.
56 Orlando, che turbato cosi il vede.
Gli disse presto: Abate, datti pace;
Questi è Cristiano, e in Cristo nostro crede,
E rinegato ha il suo Macon fallace.
Morgante i moncherin mostrò per fede.
Come i giganti ciascun morto giace ;
Donde l’abate ringraziava Iddio,
Dicendo: Or m’hai contento, Signor mio.
57 E risguardava e squadrava Morgante,
La sua grandezza e una volta e due ;
E poi gli disse: O famoso gigante,
Sappi eh’ io non mi maraviglio pine,
Che tu svegliessi e gittassi le piante.
Quando io riguardo or le fattezze tue;
Tu sarai or perfetto e vero amico
A Cristo, quanto tu gli eri nimico.
58 Un nostro Apostol, Saul già chiamato.
Persegui molto la Fede di Cristo ;
Un giorno poi dallo spirto infiammato :
Perchè pur mi persegui? disse Cristo :
E si ravvidde allor del suo peccato ;
Andò poi predicando sempre Cristo,
E fatto è or della fede una tromba.
La qual per tutto risuona e rimbomba.
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CANTO PRIMO.
13
59 Cosi farai la ancor, Morgante mio;
E chi s’emenda, è scritto nel Vangelo,
Che maggior festa fa d’un solo Iddio,
Che di novantanove altri su in cielo :
Io ti conforto eh’ ogni tuo disio
Rivolga a quel Signor con giusto zelo,
Chè tu sarai felice in sempiterno,
Ch’ eri perduto, e dannato all’ inferno.
60 E grande onore a Morgante faceva
L’abate, e molti di si son posati.
Un giorno, come ad Orlando piaceva,
A spasso in qua e in là* si sono andati ;
L’abate in una sua camera aveva
Molte armadure e certi archi appiccati.
Morgante gliene piacque un che ne vede.
Onde e’ sei cinse, bench’ oprar noi crede.
61 Avea quel luogo d’ acqua carestia.
Orlando disse come buon fratello :
Morgante, vo’ che di piacer ti sia
Andar per l’ acqua ; ond’ e’ rispose a quello :
Comanda ciò che vuoi, chè fatto fia:
E posesi in ispalla un gran tinello.
Ed avviossi là verso una fonte.
Dove solea ber sempre appiè del monte.
62 Giunto alla fonte, sente un gran fracasso
Di subito venir per la foresta.
Una saetta cavò del turcasso.
Posola all’ arco, ed alzava la testa :
Ecco apparir una gran gregge al passo
Di porci, e vanno con molla tempesta,
E arrivorno alla fontana appunto.
Donde il gigante è da lor sopraggiunte.
63 Morgante alla ventura a un saetta.
Appunto nell’ orecchio lo ’ncarnava ;
Dall’ altro lato passò la verretta.
Onde il cinghiai giù morto gambettava :
Un altro, quasi per farne vendetta,
Addosso al gran gigante irato andava;
E perchè e’ giunse troppo tosto al varco.
Non fu Morgante a tempo a trar coll’ arco.
2
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u
II. HORGANTE MAGGIORE.
64 Vedendosi venuto il porco adosso,
Gli dette in sulla testa un gran punzone,
l’er modo che gl’ infranse insino all’osso,
E morto allato a quell’ altro lo pone :
Gli altri porci, veggendo quel percosso.
Si misson tutti in fuga pel vallone ;
Morgante si levò il tinello in collo.
Ch’era pien d’ acqua, e non si muove un crollo.
65 Dall’ una spalla il tinello avea posto.
Dall’ altra i porci, e spacciava il terreno;
E lorna alla badia, eh’ è pur discosto,
Ch’ una gocciola d’ acqua non va in seno.
Orlando, che ’l vedea tornar sì tosto
Co’ porci morti, e con quel vaso pieno,
Maravigliossi che sia tanto forte ;
Così l’abate: e spalancan le porte.
66 I monaci veggendo l’acqua fresca.
Si rallegrorno, ma più de’ cinghiali ;
Ch’ ogni animai si rallegra dell’ esca ;
E posono a dormire i breviali :
Ognun s’ affanna, e non par che gl’ incresca ,
Acciò che questa carne non s’insali,
E che poi secca sapessi di vieto;
E le digiune si restorno a drielo.
67 E ferno a scoppia corpo per un tratto,
E sculTian, che parien dell’acqua usciti;
Tanto che ’l cane sen doleva e ’l gatto.
Che gli ossi riraanean troppo politi.
L’abate, poi che molto onore ha fatto
A tutti, un di dopo questi conviti.
Dette a Morganle un destrier molto bello.
Che lungo tempo tenuto avea quello.
68 Morganle in su ’n un prato il cavai mena,
E vuol che corra, e che facci ogni pruova,
E pensa che di ferro abbi la schiena,
0 forse non credeva schiacciar 1’ uova ;
Questo cavai s’accoscia per la pena,
E scoppia, e’n sulla lerra si ritruova.
Dicea Morgante: Lieva su, rozzone;
E va pur punzecchiando collo sprone.
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CANTO PRIMO.
69 Ma fìnalmenle convien eh’ egli saionle,
E disse: Io soii pur Icggier come penna,
Ed è scoppialo ; che ne di’ tu, conte?
Rispose Orlando: Un arbore d’antenna
Mi par piuttosto, e la gaggia la fronte ;
Lascialo andar, chè la fortuna accenna.
Che meco a piede ne venga, Morgante.
Ed io cosi verrò, disse il gigante.
70 Quando sarà meslier, tu mi vedrai,
Com’ io mi proverrò nella battaglia.
Orlando disse : Io credo tu farai
Come buon cavalier, se Dio mi vaglia.
Ed anco me dormir non mirerai.
Di questo tuo cavai non te no caglia ;
Yorrebbesi portarlo in qualche bosco.
Ma il modo né la via non ci conosco.
71 Disse il gigante : Io il porterò bèta io.
Da poi che portar me non ha voluto ,
Per render ben per mal, come fa Dio ;
Ma vo’ eh’ a porlo addosso mi dia aiuto.
Orlando gli dicea: Morgante mio,
S’al mio consiglio ti sarai attenuto.
Questo cavai tu non vel porteresti.
Che ti farà come tu a lui facesti.
72 Guarda che non facesse la vendetta.
Come fece già Nesso, cosi morto:
Non so se la sua istoria hai inteso, o letta
E’ li farà scoppiar, dalli conforto.
Disse Morgante: Aiuta, ch’io mcl metta
Addosso, e poi vedrai s’io ve lo porto;
Io porterei. Orlando mio gentile,
, Colle campane là quel campanile.
73 Disse l’abate: 11 campani! v’è bene.
Ma le campane voi l’ avete rotte.
Dicea Morgante : E’ ne porlon le pene
Color che morti son là in quelle grotte :
E levossi il cavallo in sulle schiene,
E disse : Guarda s’ io sento di gotte.
Orlando, nelle gambe, o s’io lo posso;
E fe duo salti col cavallo addosso.
16
IL HORGANTE MAGGIORE.
74 Era Morgante come una montagna ;
Se facea questo, non è maraviglia:
Ma pure Orlando con seco si lagna,
Perchè pur era ornai di sua famiglia :
Temenza avea non pigliassi magagna.
Un’ altra volta costui riconsiglia :
Posalo ancor, noi portare al deserto.
Disse Morgante: lì porterò per certo.
75 E portello, e gittollo in luogo strano,
E tornò alla badia subitamente.
Diceva Orlando : Or che più dimoriano ?
Morgante, qui non facciam noi niente ;
E prese un giorno l’abate per mano,
E disse a quel molto discretamente,
Che vuol partir dalla sua reverenzia,
E domandava e perdono e licenzia.
78 E degli onor ricevuti da questi
Qualche volta potendo ara buon merito;
E dice : Io intendo ristorare e presto
1 persi giorni del tempo preterito ;
E’son più dì che licenzia arei chiesto,
Benigno padre, se non ch’io mi perito:
Non so mostrarvi quel che drento sento.
Tanto vi veggo del mio star contento.
77 Io me ne porto per sempre nel core
L’abate, la badia, questo deserto.
Tanto v’ ho posto in piccol tempo amore ;
Rendavi su nel ciel per me buon morto
Quel vero Dio, quell’eterno Signore,
Che vi serba il suo regno al fine aperto :
Noi aspettiam vostra benedizione,
Raccomandianci alle vostre orazione.
78 Quando l’abate il conte Orlando intese,
Rintenerl nel cor per la dolcezza.
Tanto fervor nel petto se gli accese ;
E disse: Cavalier, se a tua prodezza
Non sono stato benigno e cortese.
Come conviensi alla gran gentilezza,
Chè so, che ciò eh’ i’ ho fatto, è stato poco ;
Incolpa la ignoranzia nostra, c il loco.
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CANTO PRIMO.
79 Noi ti potremo di messe onorare,
Di prediche, di laude, e paternostri.
Piuttosto che da cena, o desinare,
0 d’ altri convenevoi che da chiostri :
Tu m’hai di te si fatto innamorare
Per mille alte eccellenzie che tu mostri.
Ch'io me ne vengo, ove tu andrai, con teco,
E d’ altra parte tu resti qui meco.
80 Tanto eh’ a questo par contradizione.
Ma so che tu se’ savio, e’ntendi, e gusti,
E intendi il mio parlar per discrizione :
De’benetìcj tuoi pietosi e giusti
Benda il Signore a te munerazione.
Da cui mandato in queste selve fusti ;
Per le virtù del qual liberi siamo,
E grazie a lui , e a te noi ne rendiamo.
81 Tu ci hai salvato l’ anima e la vita :
Tanta perturbazion già que’ giganti
Ci detton, che la strada era smarrita
Da ritrovar Gesù con gli suoi santi ;
Però troppo ci duol la tua partita,
E sconsolali resliam tutti quanti :
Nè ritener possianti i mesi e gli anni,
Chè tu non se’ da vestir questi panni;
82 Ma da portar la lancia e l’ armadura ;
E puossi meritar con essa, come
Con questa cappa; e leggi la Scrittura:
Questo gigante al ciel drizzò le some
Per tua virtù: va in pace a tua ventura
Chi tu ti sia, ch’io non ricerco il nome.
Ma dirò sempre, s’io son domandato,
Ch’ un angiol qui da Dio fossi mandato.
83 Se c’è armadnra, o cosa che In voglia.
Vattene in zambra, e pigliane tu stessi,
E cuopri a questo gigante la scoglia.
Rispose Orlando: Se armadura avessi.
Prima che noi uscissim della soglia.
Che questo mio compagno difendessi ,
Questo accetto io, e sarammi piacere.
Disse l’abate: Venite a vedere.
18
IL HOBGANTB MAGGIORE.
S4 E in certa cameretta entrali sono,
Che d’ armadure vecchie era copiosa;
Dice l’abate : Tutte ve le dono.
Morganle va rovistando ogni cosa,
Ma solo un certo stergo gli fu buono,
Ch’ avea tutta la maglia rugginosa ;
Maravigliassi che Io cuopra appunto.
Che mai più gnun forse glicn’ era aggiunto.
85 Questo fu d’ un gigante smisurato ,
Ch’ alla badia fu morto per antico
Dal gran Milon d’Anglantc, ch’arrivato
V’cra, s’ appunto questa istoria dico ;
Ed era nelle mura istorialo.
Come e’ fu morto questo gran nimico,
Che fece alla badia già lunga guerra :
E Milon v’è, com’ e’ l’abbatte in terra.
S6 Veggcndo questa istoria il conte Orlando,
Fra suo cor disse : 0 Dio, che sai sol lutto;
Come venne Milon qui capitando,
Che ha questo gigante qui distrutto?
E lesse certe letter lagrimando,
Che non potè tener più il viso asciutto,
Com’ io dirò nella seguente istoria :
Di mal vi guardi il Re dell’ alla gloria.
STO
1 . In principio era il f erba ap-
pretto a Dio. E’ non è corto lodevole
il modo con che il nostro Poeta va del
continuo frammettendo al Poema, mas-
sime nel principio, e nel lino dì cia-
scun canto, ora dello invocazioni alla
Divinità, ora dei passi di Sacre Carle
tradotti , o parafrasati. Pur tale scon-
cezza è molto da condonare ai tempi ;
c se il Pulci errò, può dirsi che errò
coi più sommi, o con Dante medesimo,
il quale non ebbe a schifo nemmeno
di appropriare le parole di un Inno
della Chiesa allo insegne diaboliche, e
dire :
ytxitta resU prodeunt inferni.
TE.
Scnzachè volle forse il Pulci imitare
quei rozzi Poeti vissuti probahilmentc
nel decìmoterzo secolo, i quali avendo
pur fatto argomento dei lor Poemi o
Carlo Magno, o Urlando, o i primi Re
di quella famiglia, usarono dar prin-
cipio o fino quasi a ciaschednn Canto
con una preghiera, o con una invoca-
zione a Dio. E di ciò può a suo agio
accertarsi chiunque abnia la pazienza
di leggere il Bitoro d' Àntona, o la
Regina Ancroja, i cui autori io ciò
solo somigliarono Umero, nell’csscr
cioè oppressi dalla miseria, c nell’ an-
dar cantando per le vie c per le piazze
i propri! versi.
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CANTO PRIUO.
19
2. E lu. Invoca la Vergine San-
tissima al modo che i poeti del genti-
lesimo, e i Cristiani purancbe, avevano
in aso di invocare le Mose. Omero
stesso fu il primo a dare un tale esem-
pio ; c se il Pulci mal fere a introdur
qni la Madonna, non fecero certo bene
altri poeti cristiani, che in principio
dei lor poemi si rivolsero a immagi-
narie DiviniU, addivennte oramai ri-
dicole.
5. Era nel tempo. Era di prima-
vera ; e descrive tale stagione coi co-
lori soliti di tatti i poeti. Le favole
alle quali si allude in questa ottava
sono si note che me ne passo scn-
l’ altro.
4. Quand'io varai la mia bar-
chetta. Quando incominciai l’opera
mia, quando impresi a cantare. Con-
cetto , e Cgnra tolta da Dante :
0 Toi die ftieto in piccioleti» barca^
Detiiarosl d’ascoltar, sagoìti
Dietro al mìo legno che cantando varca,
Tonate a rìTederìi Tostrì liti.
Parad.t canto H.
— prima Per ubbidir ec. Appella a
Lorenzo il MagniGco, e alla madre di
lui, per comandamento de^ quali il Pul-
ci scrisse questo Poema. — È ttata
questa istoria, ee. La storia di Carlo
Magno era stata scritta da Alenino,
e da Eginsrdo istoriografo di quell’im-
peratore, e da Turpino, dalla cui cro-
naca furono tratti tutti i Romanzi e
Poemi che su tale argomento furono
scritti in appresso, e i piò noti de’ quali
sono i Reati di Francia, la Spagna,
la Regina Ancroja, e simili altri.
5. Che l ’ egli avesse avuto scrit-
lor degno. Anche Alessandro Magno
lamentava che le imprese sue sareb-
bero state reputate di minor conto che
quelle d’Achille, perchè mancava a lui
un Omero che a’ posteri le tramandas-
se, ed invidiava al Pelide una tal sorte.
— E fece per la Chiesa. In servigio
della Romana Chiesa, Carlo fece guer-
ra a Desiderio re de’ Longobardi, c lo
vinse, e liberò l'Italia dalla domina-
zione longobarda. Onde Dante ebbe a
dire :
E qaiivlo il denle longobardo morsa
La Santa Chiesa, sotto alle suo ali
Carlo Magno, vincendo, la sorcorsr.
Pantd., cauto VI.
7. E tu, Fiorenza. Carlo Magno,
venuto in Firenze , 1’ abbellì di varii
monumenti , fra’ quali è da notare la
chiesa dei Santi Apostoli. Quando poi
ne parti, lasciovvi alcuni della miglior
nobiltà francese , e tra questi vuoisi
che fossero anche gli antenati del Poeta.
8. quando JYella sua Commedia
Dante qui diee. Cioè quando
Carlo Magno perdè la santa getta.
Non sonò si terribilmente Orlando.
E questa santa gesta fu l’ impresa di
cacciare i Mori di Spagna. Nella rotta
di Ronciavallc, per tradimento di Gano,
furono trucidati trentamila uomini, ivi
lasciati da Carlo Magno.
9. Era per Pasqua, quella diPia-
tale. nae-j^a. è voce d’origine caldea, c
vale trastsilus; ed è cosi detta perche
l’Angelo aterminatore, da Dio mandato
a uccidere i primogeniti degli Egizia-
ni , passò oltre , e non si fermò alle
case degli Ebrei, le cui porte erano,
a distinguerle, tinte di sangue. Fu al-
lora che il popolo d’Israele celebrò la
prima Pasqua , e poi ne fece una su-
fennitù annuale, che cadeva in prima-
vera. 1 Cristiani cbiamaron Pasqua il
di della Resurrezione, ed è la vera
Pasqua ; ma l’ uso ha poi estesa tal de-
nommazione ad altre delle maggiori
solennità della Chiesa, chiamando Pa-
squa di rugiada, o rosata (perchè viene
nel tempo in che più abbondevoli ca-
dono le mattutine rugiade , e quando
sono fiorite le rose), la festa di Pente-
coste; Pasqua di Natale, quella della
Natività di Cristo ec. E qui appunto
il Poeta parla di questa ultima, che è
detta anche Pasqua di Ceppo , per-
chè in tal giorno i fattorini delle oot-
teghe di F'irenze solevan rompere
quella cassetta di legno, detta anche
Ceppo (un quidsimile dei moderni sal-
vadanaj, e della corbona ; so non che
quella era propria dei soli sacerdoti
ebrei, e anche cristiani), nella quale
gettavano lo mance che raccoglievano
nell’anno, e se le spartivano.
45. c'ha meritalo Carlo. Cui
Czirlo ha ricompensato, guiderdonalo
10. (ernisnò. Si determinò, risol-
vette.
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30
IL HORUANTE HAfiGIOKE.
24. ilare a tegno. Star con timo-
re; e Tale anche atare a obbedien-
za, dentro a’ termini de’ convenevoli,
ejuL/ttveiv toc; ieXey/zavoi;- — La
fona, e 'I malvoler ec. Da quel di
Dante :
CIm dove l’ ergomento della mente
S'aggingne al malvolere ed alla poiia,
Neuua riparo vi po6 (ar la gente.
26. e gli oppi. L’oppio è albero
cui si marita la vite. I^t. ; opulut.
Si trova usato invece di pioppo , altro
albero a cui pure suole maritarsi la
vite. — «n etmtlero. Qui forse è pre-
so, come suol farsi comunemente, per
quel ripiano , o prato , o checchessia
che sta davanti all’ ingresso delle chie-
se. Cimitero veramente è il Campo-
santo ; e i primitivi Cristiani cosi chia-
marono il luogo ove seppellivano i
morti, da xocuàojuKi, dormire ; aven-
do forse l’occhio a quel passo d’ Isaia,
ove appella camere i sepolcri dei giu-
sti. Facie, populut meui, intra in cw-
bicula tua, Claude oitia tua super le,
abieondere modieum ad momentum,
donee pertranieat indignano.
27. guarrebbe. Guarirebbe.
29. che sono anco più giusti. Di
grandezza e di forza ben propor-
zionata.
30. se star volea per fante. Per
servo. Cosi, a prima giunta, Passamon-
te dà la baia a Orlando.
31 . ragazzino. Lo stesso che fante .
32. Il qual non s'era partito da
bomba. Non s’ era ihosso dal luogo
dov’era. Bomba è il luogo determi-
nato nel giuoco del pome, e in altri
ancora , dal quale il giuocatore si par-
te, e ritorna. Meta, rtp/ia. Il Minacci
nelle note al Malmantile, descrivendo
il giuoco fanciullesco dei birri e ladri,
fa derivare la voce bomba dal greco
^ó/jiStu, far suono, e strepito ; donde
il verbo rimbombare, e il nome dato
a quelle grosse palle di ferro incava-
te, e piene di fuochi artibciali, le quali
gettansi nelle cittì o fortezze , e rhe
incendiano ovunque vanno a cadere ,
facendo grande remore in iscoppiare.
53. per ehi m'aveva scorto. Per
chi m’aveva egli preso. — ch'egli
arebbe il torto. Questo, e altri modi
usa spesso il Poeta , i quali ledono
quel rispetto che uom deobe alla Di-
vinità. Qui potrebbe bene applicarsi
il trito proverbio '• Scherza co’ fanti ,
e lascia stare i santi. » Noli miseere
sacra profanis.
35. morto rovinava. Passamonte,
nel cadere giù, potea ben dirsi che mi-
nasse piuttostochè egli cadesse, in ri-
guardo della sua gigantesca corpo-
ratura.
38. schermisse. Si schermisse. —
pettignon. La parte del corpo tra la
pancia , e le parti che l’ uom cela ,
pubes. — badalone. Scioccone, buono
a nulla, perdigiorni. Qui per grande
I e grosso semplicemente. Cosi il Voca-
bolario.
39. come una cosa matta. Quasi
fuor di sé per l’avuta visione.
4 1 . cattivelli. Miseri , infelici , o
corno direbbesi , poveretti.
43. Non mi valeva per chiamar
Maeone. Valere ha qui forza di aver
valore , possanza : e signiGca a per
quanto io chiamassi Maeone, ei non
aveva possanza di liberarmi, a
44. gradir. Ricompensare. Il Vo-
I cabolario dì solo questo esempio. —
Stu. Se tu.
50. ristorar. Ricompensare.
52. £ tanto pare a lor, guanto
a lui pare.
E ciò che vuole Iddio , e noi volomo.
Daste, Farad.
53. Morti co’ morti. I morti, i
miei fratelli, sian co’ morti; noi atten-
diamo a godere.
54. A quel signor. Verso quel si-
gnore.
56. Come i giganti. Come dei gi-
ganti.
63. lo 'ncamava. Lo feriva, fa-
cendo penetrare entro la carne la
freccia.
64. punzone. Forte colpo di pu-
gno, pugni ictus.
66. breviali. Breviarii.
67. £ femo a scoppia corpo.
Mangiarono a crepapelle. — scuffian.
Scuffiare vale mangiar mollo, e con
ingordigia. Il Minacci, nelle sue note
al Malmantile, fa venire qnesta voce
1 da scuffina, che è una certa lima, o
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CANTO PBIHO.
21
rasDAj che leva molto legoo per volta,
e eoe è perciò detta anche ingordina.
Il Biscioni poi la fa invece venir da
cuffia, quasi tor la cuffia, o il di so-
pra alle vivande, e allega che in que-
sto stesso senso dicesi anche sgonnel-
lare, quasi tor la gonnella. Qui indica
quel certo suono che mandan fuori
dalla bocca , in masticando , quei che
mangiano ingordamente; e par quasi
un russare, ed imita anche il suono
che manda chi ò stato alcun tempo
sott’ acqua .
68. Lieva su, ronzone. Quasi di-
cesse carognone, da roxta, che vale
bestia di trista razza, che dicesi anche
carogna.
69. Mi par piuttosto. Mi pari ,
mi sembri. — e la gaggia la fronte.
La gaggia è la gabbia della nave, che
sta in cima all’albero maestro. Greco,
xopcvo;.
72. Messo. Nesso Centauro, ferito
da una freccia d’Èrcole, per vendi-
carsi di ciò, detta, in sol morire, la
propria veste a Dejanira moglie di
Ercole stesso , facendole credere che ,
ove egli se la fosse posta in dosso, lo
avrebbe tosto ricondotto al suo amore,
se mai per altra l’avesse abbandonata.
Avvenne che Ercole si invaghì d’ Iole,
e Dejanira mandògli subito quella ve-
ste; ma non sì tosto se l’ebbe egli
? iosta, che si sentì compreso da un tal
uoco divoratore, che montalo in fu-
rore andò a gettarsi tra le fiamme ap-
parecchiate per un sacrifizio , e in esse
si morì ; contuttoché Filottete e Licaa
facessero ogni sforzo per ratlenerlo.
Dejanira a questo caso si uccise. Vedi
Ovidio, Metamarf., Vih. IX, e Eroidi,
epist. IX.
74. non pigliassi magagna. Non
si facesse del male.
80. munerazvme.Remunerazione.
82. al ciel drizzò le some. Figu-
ratamente per si rivolse al cielo, si
convertì alla vera religione. Soma è
veramente il carico che si pone a’ gin-
menti, e viene dal gr. edy/ia.
83. zambra. È voce antica ; lo
stesso che camera. — scoglia. È la
pelle che ogni anno le serpi gettano
via , e deriva dal gr. ay.óXot, che ha
lo atesso significato. Qui sta per pelle ;
e forse il Poeta si pensò che la pelle
di un gigante dovesse esser dura come
la scoglia d’una serpe. Comunemente
chiamasi scaglia.
84. rovistando. Rovistare signi-
fica muovere le masserizie di una stan-
za, o altro luogo, per cercare alcuna
cosa, e dicesi anche rifrustare, tram-
bustare.
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'il mobgante maggiore.
CAunro SECONDO.
Ad Orlando e a Morgante il padre abate
Dà ’l buon viaggio e la benedizione :
Trovan ’n un bosco vivande incantate
Entro un palagio , e son presi al boccone :
Morgante a suon di molte battagliate
Un demonio aggavigna , e in tomba il pone;
Di Manfredonio Re nel campo giostra
Orlando, c Lionctto a terra prostra.
1 O giusto, o santo, o eterno monarca,
O sommo Giove per noi crocifisso,
Che chiudesti la porta, ove si varca
Per ire al fondo dello scuro abisso;
Tu che al principio movesti mia barca ,
Tu sia il nocchier intento sempre e fisso
Alla tua stella, c la tua calamita ;
Che questa istoria sia per te finita.
2 L’ abate quando vide lagrimare
Orlando, e diventar le ciglia rosse,
E per pietà le luci imbambolare,
£’ domandava, perchè questo fosse:
E poi che vide Orlando pur chetare,
Ancor più oltre le parole mosse :
Non so se ammirazion forse t’ ha vinto
Di quel che in questa camera è dipinto.
3 Io fui della gran gesta naturale:
Credo ch’io sia nipote, o consobrino
Di quel Rinaldo uom tanto principale.
Che fu nel mondo si gran paladino ;
Benché il mio padre non fu madornale,
Perch’ e’ non piacque all’ alto Dio divino
Ansuigi chiamossi in piano e in monte,
E ’l nome mio diritto è Chiaramonte.
CANTO SECONDO.
23
4 Cosi ci fossi il fìgliuol di Milone,
Che fu fralel del mio padre perfetto :
Deh dimmi il nome tuo, gentil barone,
Se cosi piace a Gesù benedetto.
Orlando s’ accendea d’ affezione ,
Bagnando tutto di lagrime il petto ;
Poi disse : Abate mio caro parente ,
Sappi eh’ Orlando tuo t’ è qui presente.
5 Per tenerezza corsone abbracciarsi :
Ognun piangeva di soperchio amore ,
Che non poteva ad un tratto sfogarsi,
£ per dolcezza trabocca nel core :
L’abate non potea tanto saziarsi
D’ abbracciar questo, quanto è il suo fervore.
Diceva Orlando : Qual grazia o ventura
Fa eh’ io vi truovi in questa parte scura !
6 Ditemi un poco, caro padre mio.
Per che cagion voi vi facesti frate,
E non prendesti la lancia com’ io,
E tante gente che di noi son nate ?
Perch’ e’ fu volontà cosi di Dio,
Rispose presto ad Orlando l’ abate.
Che ci dimostra per diverse strade
Donde si vadi nella sua cillade,
7 Chi colla spada, chi col pastorale :
Poi la natura fa diversi ingegni,
E però son diverse queste scale:
Basta che in porto salvo si pervegni,
E tanto il primo, quanto il sozzo vale;
Tulli siam peregrin per molli regni :
A Roma lutti andar vogliamo. Orlando,
Ma per molti sentier n’ andiam cercando.
8 Cosi sempre s’ affanna il corpo e l'ombra.
Per quel peccalo dell’ antico pome ;
Io sto col libro in man qui il giorno c l’ ombra,
Tu colla spada tua tra l’elsa e ’l pome
Cavalchi, e spesso sudi al sole c all’ombra ;
Ma di tornare a bomba è il fin del pome.
Dico che ognun qui s’affatica, e spera
Di ritornarsi alla sua antica spera.
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24
IL H0B6ANTE HAGGIOBE.
9 Morganle avca con loro insieme pianto,
Sentendo queste cose ragionare,
E pur cercava d’ armadure ; e ’ntanto
Un gran cappel d’ acciaio usa trovare ,
Che rugginoso si dormia in un canto.
Orlando, quando gliel vide provare.
Disse: Morgante, tu pari un bel fungo;
Ma il gambo a quel cappello è troppo lungo.
1Ó Una spadaccia ancor Morgante truova:
Cinsela , e poi sen’ andava soletto
Là dove rotta una campana cova.
Ch’era caduta, e slava sotto un tetto,
E spiccane un battaglio a tutta prnova,
E ad Orlando il mostrava in effetto:
Di questo che di’ tu, signor d’Anglante?
Dico eh’ è tal, qual conviensi a Morganle.
11 Disse il gigante: Con questo battaglio.
Che vedi com’è grave, e lungo, e grosso.
Non credi tu eh’ io schiacciassi un sonaglio?
10 vo’ schiacciare il ferro, e tritar l’osso:
Farmi mill’ anni or d’ esser al berzaglio.
Orlando a Chiaramonte ha cosi mosso :
Or vi vorrei pregar, mio santo abate.
Che di trovar ventura c’ insegniate.
12 Qualche battaglia, qualche torniamento
Trovar vorremmo, se piacessi a Dio.
Disse l’abate: Io ne son ben contento,
E credo satisfare al tuo disio ;
Sappi che qua verso Levante sento.
Che in una gran città, parente mio.
Un re pagan vi fa drente dimoro,
11 qual si fa chiamar re Caradoro.
lò E ha una sua figlia molto bella.
Onesta, savia, nobile, e gentile;
E non è uom che la muova di sella,
E ciascun cavalier reputa vile ;
S’ ella non fussi Saracina quella ,
Non fu mai donna tanto signorile:
Dintorno alla città sopra a’ confini
Sono accampati molli Saracini.
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CANTO SECONDO.
H Ed evvi un re di molta gagliardia,
Manfredonio appellalo dalla gente ;
Costai si muor per la dama giulia,
E fa gran cose, come amor consente,
Ed ha con seco tutta Pagania ,
Per acquistar questa donna piacente :
Dicon che v’ è di paesi lontani
Cenquaranta migliaia di pagani.
iò E quel re Carador n’ ha forse ottanta
Di gente Saracina, ardita e forte,
E Manfredonio ogni giorno si vanta
D’ aver questa donzella, o d’ aver morte ;
Ed or trabocchi, ed or bombarde pianta ;
Ognidì corre infino in sulle porte.
Il conte Orlando, quando questo intese.
Non domandar quanto disio l’ accese.
16 E dopo molte cose ragionate.
Di nuovo la licenzia ridomanda.
Dicendo nuovamente al santo abate,
Ch’ alle sue orazion si raccomanda ;
Che vuol trovarsi fra le genti armate
In quel paese là, ov’e’lo manda;
Che li lassassi andar colla sua pace.
Disse r abate : Sia come a voi piace.
17 Contento son, se tanto v’è in piacere;
Voi avete apparala la magione.
Sarò sempre fidato, e buon ostiere;
Ciò che c’ è, è del fìgliuol di Milone,
Ma non bisogna Ira noi profferere;
A tutti do la mia benedizione :
Cosi da Chiaramonte lacrimando
Si dipartirno Morgante ed Orlando.
is Per lo deserto vanno alla ventura:
L’uno era a piede, e l’ altro era a cavallo;
Cavalcon per la selva c per pianura,
Sanza trovar ricetto, o intervallo:
Cominciava a venir la notte oscura :
Morgante parea lieto sanza fallo,
E con Orlando ridendo dicia :
E’ par ch’io vesga appresso un’osteria.
26
IL HOBGANTE MAGGIORE.
19 E ’n questo ragionando hanno veduto
Un bel palagio in mezzo del deserto :
Orlando, poi eh’ a questo fu venuto,
Dismonta, perchè l’uscio vide aperto:
Quivi non è chi risponda al saluto.
Vannone in sala, per esser più certo ;
Le mense riccamente son parate,
E tutte le vivande accomodate.
20 Le camere cran tutte ornate e belle.
Istoriate con sottil lavoro,
E letti molto ricchi erano in quelle.
Coperti tutti quanti a drappi d’oro:
I palchi erano azzurri, pien di stelle.
Ornati si, che valieno un tesoro:
Le porte eran di bronzo, e qual d’argento,
E molto vario e lieto è il pavimento.
21 Dicea Morgante: Non è qui persona
A guardar questo si ricco palagio ?
Orlando, questa stanza mi par buona.
Noi ci staremo un giorno con grand’ agio.
Orlando nella mente sua ragiona :
O qualche Saracin molto malvagio
Vorrà che qualche trappola ci scocchi.
Per pigliarci al boccon come i ranocchi;
22 O veramente e’ c’ è sotto altro inganno ;
Questo non par che sia conveniente.
Disse Morgante : Questo è poco danno ;
E cominciava a ragionar col dente.
Dicendo: All’oste rimarrà il malanno;
Mangiam pur molto ben per al presente;
Quel che ci resta, farem poi fardello,
Ch’ io porterei, quand’ io rubo, un castello.
23 Rispose Orlando : Questa medicina
Forse potrebbe il palagio purgare.
Hanno cercato insino alla cucina.
Nè cuoco, nè vassallo usan trovare:
Adunque ognuno alla mensa cammina,
Comincian le mascella adoperare ;
Ch’ un giorno già mangialo avean in sogno,
Tal che di vettovaglia era bisogno.
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CANTO SECONDO.
24 Quivi è vivande di molte ragioni,
Pavoni, e starne, e leprette, e fagiani.
Cervi, e conigli, e di grassi capitoni,
E vino, ed acqua, per bere, e per mani.
Morgante badigliava a gran bocconi,
E fumo al bere infermi, al mangiar sani;
E poi che sono stali a lor diletto,
Si riposorno entro a un ricco letto.
25 Com’ e’ fu r alba ciascun si levava ,
E credonsene andar come ermellini,
Nè per far conto l’oste si chiamava,
Che Io volean pagar di bagattini ;
Morgante in qua e in là per casa andava,
E non ritrova dell’ uscio i confini.
Diceva Orlando; Saremo noi mezzi
Di vin, che l’uscio non si raccapezzi!
26 Questa è, s’ io non m’ inganno , pur la sala,
Ma le vivande c le mense sparite
Veggo che son ; quivi era pur la scala,
Qui son gente stanotte comparile.
Che come noi aranno fatto gala :
Le cose, che avanzorno, ove son ite?
E ’n questo crror un gran pezzo soggiornano ;
Dovunque e’ vanno, in sulla sala tornano.
27 Non riconoscon uscio, nè finestra;
Dicea Morgante : Ove siam noi entrati ?
Noi smaltiremo. Orlando, la minestra ,
Chè noi ci siam rinchiusi, e ’nviluppati,
Come fa il bruco su per la ginestra.
Rispose Orlando : Anzi ci siam murati.
Disse Morgante : A voler il ver dirti ,
Questa mi pare una stanza da spirti.
2S Questo palagio. Orlando, fla incantato,
Come far si soleva anticamente.
Orlando mille volte s’ è segnato,
E non poteva a sè ritrar la mente ;
Fra sè dicendo : aremoi noi sognato ?
Morgante dello scotto non si pente,
E disse: Io so ch’ai mangiare era desio,
Or non mi curo s’ egli è sogno il resto.
28
IL HORGANTE MAGGIORE.
29 Basta che le vivande non sognai ;
E s’elle fussin ben di Satanasso,
Arrechimene pure innanzi assai.
Tre giorni in questo error s’ andorno a spasso,
Senza trovare ond’egli uscissin mai;
E ’l terzo giorno scesi giù da basso,
’N una loggia arrivorno per ventura.
Donde un suono esce d’ una sepoltura.
50 E dice: Cavalieri, errati siete;
Voi non potresti di qui mai partire.
Se meco prima non v’ azzufferete :
Venite questa lapida a scoprire.
Se non che qui in eterno vi starete.
Perchè Morgante cominciò a dire :
Non senti tu, Orlando, in quella tomba
Quelle parole che colui rimbomba ?
31 lo voglio andar a scoprir quello avello,
Là dove e’ par che quella voce s’ oda ;
Ed escane Cagnazzo, e Farfarello,
O Libicocco, col suo Malacoda:
E finalmente s’accostava a quello.
Però che Orlando questa impresa loda,
E disse: Scuoprì, se vi fossi dentro
Quanti ne piovvon mai dal ciel nel centro.
32 Allor Morgante la pietra su alza ,
Ed ecco un diavol più eh’ un carbon nero.
Che della tomba fuor subito balza
In un carcame di morto assai fiero,
Ch’ avea la carne secca, ignuda, e scalza.
Diceva Orlando : E’ fia pur daddovero : .
Questo è il diavol, ch’io ’l conosco in faccia:
E finalmente addosso se gli caccia.
33 E questo diavol con lui s’ abbracciòe :
Ognuno scuote; e Morgante diceva:
Aspetta, Orlando, ch’io t’aiuteròe;
Orlando aiuto da lui non voleva:
Pur il diavolo tanto lo sforzòe,
Ch’Orlando ginocchion quasi cadeva;
Poi si riebbe, e con lui si rappicca:
Allor Morgante più oltre si ficca.
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CANTO SECONDO. 2'J
34 E gli parea miir anni d’ appiccare
La zuffa ; e come Orlando cosi vide,
Comincia il gran battaglio a scaricare,
£ disse : A questo modo si divide,
bla quel demon lo facea disperare;
Però che i denti digrignava, e ride.
Morgante il prese alle gavigne istretlo,
E missel nella tomba a suo dispetto.
36 Come e’ fu drento, gridò : Non serrare.
Che se tu serri , mai non uscirai.
Diceva Orlando: Che dobbiam noi fare?
E’ gli rispose : Tu lo sentirai :
Convienli quel gigante battezzare.
Poi a tua posta andar te ne potrai :
, Fallo Cristiano, e come e’ sarà fatto ,
Al tuo cammin ne va sicuro e ratto.
36 .Se tn mi lasci questa tomba aperta.
Non vi farò più noia, o increscimento ;
Ciò eh’ io ti dico, abbi per cosa certa.
Orlando disse : Di ciò son contento ,
Benché tua villania questo non merta ;
Ma, per partirmi di qui, ci consento:
Poi tolse l’acqua, e battezzò il gigante.
Ed usci fuor con Rondello.e Morgante.
37 E come e’ fu fuor del palagio uscito,
Senti dentro alle mura un gran remore,
Onde e’ si volse , e ’l palagio è sparito :
Allor conobbe più certo l’errore.
Non si rivede nè mura, nè il sito.
Dicea. Morgante : E’ mi darebbe il cuore,
Che noi potremmo or nell’ inferno andare ,
E farne tutti i diavoli sbucare;
38 Se si potessi entrar di qualche loco,
Chè nel mondo è certe buche, si dice.
Donde e’ si va , che di fuor gittan fuoco,
E non so chi v’ andò per Euridice ;
Io stimerei tutt’ i diavoli poco :
Noi ne trarremmo l’ anime infelice,
E taglierei la coda a quel Minosse ,
Se come questo ogni diavolo fosse.
:ì*
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30
IL MORGINTE MAGGIORE.
39 E pelerò la barba a qael Caron,
E leverò della sedia Plutone :
Un sorso mi vo’far di Flegeton,
E inghiottir quel Flegias ’n un boccone :
Tesifo, Aletto, Megera , e Eriton,
E Cerbero ammazzar con un punzone:
E Belzebù farò fuggir più via,
Ch’ un dromedario non andre’ in Soria.
40 Non si potrebbe trovar qualche buca?
Tu ne vedresti il più beilo spulezzo.
Pur che questo battaglio vi Conduca,
E mettimi a* diavoli poi in mezzo.
Rispose Orlando : E’ non vi si manuca ,
Morgante mio, noi vi faremo lezzo,
E nell’ entrar ci potremo anco cuocere;.
Dunque l’ andata sarebbe per nuocere.
41 Quando tu puoi , Morgante, ir per la piana.
Non cercar mai nè l’ erta nè la scesa,
O di cacciare il capo in buca o in tana :
Andiam pur per la via nostra distesa.
E cosi ragionando, una fontana
Trovoron, dove due fan gran contesa;
Eron corrier con lettere mandati,
E come micci si son bastonati.
42 Orlando, com’ e’ giunse, gli domanda:
Ditemi un poco perchè v' azzuffate ?
Voi mi parete corrier; chi vi manda?
0 che imbasciate, o lettere portate?
Venite voi di Francia, o di qual banda?
Lasciate un poco star le ^stonate :
Ditemi ancor se voi siete Cristiani ,
Se Dio vi salvi i bastoni e le mani.
43 Rispose r un di loro : Io son Cristiano,
E poco tempo è eh’ io venni abitare
A un castel chiamato Montalbnno:
Rinaldo il mio signor mi fa cercare
D’un suo cugino; e ’l traditor di Gano
Lo seguila, per far male arrivare :
Manda costui, che tu vedi, cercando
Di questo suo cugin, c’ha nome Orlando.
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canto secondo.
44 A questa fonte a caso ci Irovaramo,
E com’egli è de’ nostri pari usanza
Di domandar l’un l’altro, domandammo:
Che lettera, o imbasciata hai d'importanza?
E come stracchi un poco ci posammo :
Costui mi dice, che Gan di Àlaganza
Per far morir Orlando lo mandava,
E che per Pagania di lui cercava.
45 E perch’io presi la parte d’ Orlando,
Alzò la mazza sanza dir niente ;
Cosi si venne la zuffa appiccando.
Orlando quando le parole sente,
Diceva: 0 Dio, a te mi raccomando;
Da questo traditore e frodolente
Io pur non truovo, ovunque i’ mi dilegui.
Luogo, che ’l traditor non mi persegui.
46 Quando Morgante vede il suo signore.
Che si doleva, e contro a Gano sbuffa ;
Tanto gli venne sdegno, e pietà al core,
Che per la gola il corrier tosto ciuffa ,
Cioè quel che mandava il traditore ;
E nella fonte sott’acqua lo tuffa.
Calpesta, e pigia, e per ira si sfoga.
Tanto che tutto lo ’nfragne ed affoga.
47 Orlando disse a quell’ altro corriere :
Io son colui per chi tu se’ mandato ;
Di a Rinaldo, che in questo sentiero.
Come tu vedi, il cugino hai trovato :
Io son Orlando, e poi eh’ egli è in piacere
Di Carlo, vo pel mondo disperato.
Quando il corrier senti Ch’Orlando è questo,
Maravigliossi, e inginocchiossi presto.
48 Dimmi a Carlo, diceva ancora Orlando,
Che si consigli col suo Gano antico ;
Ed io pel mondo vo peregrinando.
Come s’ io fussi qualche suo nimico;
Digli dove trovato, e come, e quando
Tu m’ hai qui solo, e povero, e mendico :
E quel eh’ i’ ho fatto, corrier, per costui ,
Credo che’l sappi ognun, salvo che lui.
32
IL HORGANTE HAGGIORE.
49 Che non sa quel che beneGcio sia,
Non si ricorda ch’io sia suo nipote,
O eh’ in sua corte in Francia stessi, o stia;
Basta che Gan, ciò che vuol, con lui puotc,
Tanto eh’ io me ne vado in Pagania,
Pur come voglion le volubii ruote :
E di, eh’ i’ ho sol con meco un gigante,
Ch’ è battezzato, appellato Morgante.
£0 II cavai che tu vedi, e questa spada.
Altro non ho, se non questa armadura;
E ch’io non so io stesso ov’ io mi vada,
O dove ancor mi guidi la ventura :
Ma inverso Bàrberia tengo la strada.
Andrò dove mi porta mia sciagura,
Poi eh’ e’ consente a cercar la mia morte ;
E che mai più non tornerò in sua corte.
£1 Dimmi a Rinaldo mio, figliuol d’Amone,
Che la mia compagnia, ch’io vi lasciai.
Gli raccomando con aflezione ;
Ch’ io penso in Pagania morire ornai :
Saluta Astolfo, Namo, e Salamone,
E Berlinghier che sempre mollo amai :
A Ulivier di che la sua sorella
Gli raccomando, e mia sposa Alda bella.
£3 Dimmi al Danese, caro imbasciadore.
Che in Francia a questi tempi non m’ aspetti:
E di eh’ i’ ho Cortana, e ’l corridore.
Acciò che forse di ciò ignun sospetti :
Della mia sopravvesta il suo colore
Vedi come è dipinta a Macomelti :
Che si ricordi del suo caro Orlando,
Che va pel mondo sperso or tapinando.
£3 Dimmi il tuo nome or, se l’ è in piacimento.
Ond’ e’ rispose : Questo è ben dovere,
O signor mio; chiamar mi fo Chimenlo:
Cristo ti muti di si stran pensiere,
Chè tua risposta mi dà gran tormento :
Questo non è quel che ’l signor mio chiere ;
Io voglio, Orlando mio, mi perdoniate,
E che alquante parole m’ ascoltiate.
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CANTO SECONDO.
33
54 Quand’io da Montalbaa feci parlila,
Io fui a Parigi, doud’ io vengo adesso :
La corte' pare una cosa smarrita.
Lo ’mperador non pareva più desso:
Vedovo il regno, e la gente stordita.
Gli orecchi debbon cornarvi qua spesso,
Ch’ ognun ragiona della vostra fama,
£ ’l popol tutto ad un grido vi chiama.
66 11 mio signor con gran disio v’ aspetta :
Parigi, e Francia, ogni cosa si duole.
Or vi vo’ dire una mia novelletta,
Chè spesso la ragion l’ esemplo vuole.
Un tratto a spasso anco la formichetta
Andò pel mondo, come far si suole,
E trovò in fine un teschio di cavallo,
E semplicetta cominciò a cercallo.
66 Quand’ella giunse ove il cervello stava.
Questa gli parve una stanza si bella,
Che nel suo cor tutta si rallegrava ;
E dicea seco questa meschinella :
Qualche signor per certo ci abitava ;
Ma finalmente cercando ogni cella.
Non vi trovava da mangiar niente,
£ di sua impresa alla fine si pente.
67 £ rilornossi nel suo bucolino.
Perdonimi, s’ io fallo, chi m’ascolta.
Intenda il mio vulgar col suo latino :
Io vo’ che a me crediate questa volta ,
E ritorniate al vostro car cugino,
Se non eh’ ogni speranza gli fia lolla ;
Disse, che mai a lui non ritornassi.
Se meco in Francia non vi rimenassi.
68 II grande amor mi sforza a quel eh’ i’ dico :
Riconoscete e gli amici, e’ parenti :
L’ andar cosi pel mondo è pure ostico.
Orlando udendo i suo’ ragionamenti.
Disse : Chimento, tu se’ buono amico;
£ gillò fuor molti sospir dolenti :
E da costui al fin s’accomiatava,
Sanza altro dir; chè piangendo n’andava.
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31 IL HORGANTE MAGGIORE.
59 Orlando, poi che parli da Chimenlo,
Tutto quel giorno seco ha sospiralo ;
Cosi il messaggio ne va malcontento,
Non sa come a Rinaldo sia (ornalo.
Morganle ne va appiè di buon talento.
Con quel battaglio eh’ é duro e granato ;
E in su ’n un poggio le pagane schiere
Di Manfredon cominciano a vedere,
60 Padiglioni, trabacche, e pennoncelli;
E sentono stormenti oltramisora.
Nacchere, e comi, e trombe, e tamburelli;
E cavalier coperti d’ armadura
Yedean cogli elmi rilucenti e belli :
Orlando guarda inverso la pianura,
E vede tanti Pagani attendali.
Come r abate gli avea numerati.
61 Di questo molto se ne rallegròe.
Cosi Morgante; e poi che ’l poggio scese.
Dinanzi a Manfredon s’appresentòe,
Ch’ era gentil, magnanimo e cortese :
E di Morgante si maravigliòe ;
11 conte Orlando per la briglia prese,
E disse: Benvenuto sia, barone;
Dismonta, e poi verrai nel padiglione.
62 Orlando lascia a Morgante Randello,
E va nel padiglion col re pagano;
E Manfredon cosi diceva a quello :
Chi tu ti sia, Saracino o Cristiano,
Ti tratterò come gentil fratello ;
E perchè il tuo venir non sia qui invano,
Soldo darolti, se t’è in piacimento.
Tanto che tu sarai, baron, contento.
63 Rispose alle parole grate Orlando :
Preso m’ avete col vostro parlare ;
Soldo niente da voi non domando.
Se non vedete l’arme adoperare.
E cosi molle cose ragionando.
Disse il pagano : Io vi vo’ ragguagliare
Di quel che forse per voi non sapete,
Chè cavalier discreti mi parete.
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CANTO SECONDO.
64 Io vi dirò la mia disavventura ,
S’ alcun rimedio sapessi trovarmi;
Io ardo tutto, per la mia sciagura,
D’una fanciulla, e non so più che farmi;
Due volte abbiam provato l’ armadura,
Ogni volta ha potuto superarmi ,
Sì che da lei vituperato sono,
E messo ho la speranza in abbandono.
65 Egli ò ben vero, eh’ i' ho qui tanta gente,
Che mi darebbe il cuor di superarla :
Ma non sarebbe onor certanamente ;
Chè colla lancia intendo d’ acquistarla :
S’ alcun di voi sarà tanto potente,
Ch’ a corpo a corpo credessi atterrarla ,
Ricomperrollo ciò eh’ i’ ho nel mondo ;
Chè basta a me sol lei, poi son giocondo.
66 Orlando disse: Noi ci proveremo,
Ognun ci adoperrà tutta sua possa;
E credo pure al Gn noi vinceremo,
Se femmina sarà di carne e d’ ossa.
Disse il pagano : Ogni cosa diremo ;
Prima che la fanciulla facci mossa,
Manda in sul campo sempre un suo fratello.
Molto gagliardo e gentil damigello.
67 E per nome si chiama Lionetto,
Ed è iìgliuol del gran re Caradoro,
E non adora alcun più Macometlo,
Che sia si forte per piu mio martoro :
E la sorella, eh’ io v’ ho prima detto,
Per cui sol ardo, mi distruggo e moro.
Gentile, onesta, anzi cruda e villana,
Sappi che chiamata è Meridiana.
68 E veramente è come ella si chiama,
Perchè di mezzodì par proprio un sole.
Io innamorai di questa gentil dama.
Non per vista, per atti, o per parole;
Ma per le sue virtù, eh’ udi’ per fama,
0 ver che ’l mio destin pur cosi vuole :
E ila quel giorno in qua eh’ amor m’accese,
Ter lei son fatto c gentile c coilcse.
36
li. MOKGANTE MAGGIORE.
69 Or vo’ pregarvi, famosi baroni.
Che ’l nome mi diciate in cortesia.
Orlando disse con grati sermoni :
10 vel dirò, pur che in piacer vi sia.
Benché far vi vorremmo maggior doni:
A negar questo fare’ villania.
Più tempo ho fatto in Levante dimoro,
E son chiamato da ciascun Bronoro.
70 E questo mio compagno, eh’ è gigante,
Veder potrete quanto è valoroso ;
Passi chiamare il feroce Morgante,
Ed è più che non mostra poderoso.
In Macomctio crede, e Trevigante.
11 re, senlendol molto grazioso.
Rispose: Per mia fé, che voi sarete
Da me trattati come voi vorrete.
71 E quanto può Manfredon gli onorava,
E nel suo padiglion sempre gli tenne,
E molle cose con lor ragionava.
Ma finalmente un di per caso avvenne.
Che Lionello quel campo assaltava,
E ’n verso il padiglion, come e’ suol, venne;
E Manfredon chiamava con un corno
Alla battaglia per più befie e scorno.
72 E cominciò per modo a muover guerra,
Che molta gente faceva fuggire :
Parea quando alle pecore si serra
Il lupo, onde il pastor si fa sentire:
E qual ferisce, e qual trabocca in terra,
E molli il di ne faceva morire ;
E chi fuggir non può ne va prigione.
Onde fuggivan tutti al padiglione.
73 II conte Orlando ndi che Lionetto
Aveva il campo in tal modo assalilo,
Ch’ ognun fuggia dinanzi al giovinetto;
Subito sopra Rondcl fu salilo,
E disse: Vienne, Morgante, io t’aspetto:
Di Lionello non hai tn sentilo?
Tu vedrai or di Macon la possanza,
E del tuo Cristo, in chi tu hai speranza.
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CANTO SECONDO.
37
74 Dicca Morgante : Io non ho mai veduto
Provare Orlando, io lo vedrò pur ora ;
Ringrazio Iddio, che mi sarò abbattuto:
Orlando sprona il suo cavallo allora,
E spari via com’ uno strai pennuto :
Perchè Morgante s’avviava ancora,
E col battaglio si viene assettando,
E guarda pur quel che faceva Orlando.
75 Orlando nella pressa si melica,
E pur Morgante guarda dove e’ vada,
E sempre drieto a Rondel gli tenea.
Dove vedeva e’ pigliassi la strada ;
E Lionctto in quel tempo giugnea,
Ch’ aveva in man sanguinosa la spada :
Orlando il vide, e la lancia abbassava;
Ma Lionetto un’ altra ne pigliava.
76 Volse il cavallo, e ’nverso Orlando abbassa,
E vannosi a ferir con gran furore,
E r una e 1’ altra lancia si fracassa ;
Ma Lionetto usci del corridore,
E Rondel via come in suo nome passa.
Morgante guata drieto al suo signore,
E dice : Orlando è pur baron perfetto ;
E Cristo è vero, e falso è Macomctto.
77 Ma Lionetto pur si rilevoe,
E sopra il suo cavallo è rimonlato,
E Macomello a gran voce chiamoe,
Dicendo : Traditor, eh’ i’ ho adoralo
A torlo sempre, io ti rinegheroe.
Poi eh’ a tal punto tu m’ hai abbandonalo ;
L’ anima mia più non li raccomando,
Chè non are’ quel colpo fatto Orlando.
78 Poi si rivolse ad Orlando, dicendo:
Nola, che e’ fu del mio destriere il fallo ;
Orlando gli rispose sorridendo :
E’ si vorre’ co’ buOclli ammazzano.
Disse Morganic : Cosi non la intendo :
Or che tu se’ rimonlato a cavallo.
Mi par che sia tuo debito, Pagano,
Di ritrovarsi colle spade in mano.
I. 4
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38
11. MORGANTE MAGGIORE.
79 Rispose Lionello : A ogni modo
W che col brando lerminiam la zuffa.
Disse Morganle: Per Dio, ch’io la lodo,
Chè In vedrai che ’l cavai non fe Iruffa.
Or lu. Signor, a cui servir sol godo.
Per cui la lerra e l'aria si rabbuffa.
Guardaci e salva, e ’nsino al fine insegna,
Tanlo eh’ io canli quesla sloria degna.
NOTE.
1 . O giutlo, 0 tanto. Vedi quello
che è dotto nella nota al Canto I ,
St. I e 55. Anche l’Autore del Buovo
d'Ànlona chiama G.C. sooimo Giove;
0 Io pre|>o il sommo Giove che m’aiu-
ti oc. » Ed era comune in quei tempi,
e massime presso i poeti , il dare a
Dio il nome di Giove, come quello di
Plutone, o di Dite al Diavolo.
2. imbombolare. Dicesi degli oc-
chi quando l’uomo li ricuopre di la-
crime , senza mandarle Inora , come
fanno appunto i bambini quando dan
segno di voler piangere.
5. madornale. Madornale, e ma-
dernale sono adiettivi , che vagliono ,
in senso propria, di madre, da parte
di madre; onde si legge in Guido
Guinicelli : « Acesto suo madornal bi-
savolo. • S’ appropria anche a figlio
non nato di legittimo matrimonio,
yy>iSto; ', c il Poeta lo adopera appunto
in questo senso, nel quale però, come
pure nel primo, ora non si userebbe.
Si adopera comunemente in senso di
grande , principale.
7. lezzo. Ùltimo.
8. ombra. Anima, spirito. — Afa
di tornare a bomba. Vale; ma il fine
del pome, cioè delle nostre fatiche c
desiderii, è di tornare al luogo ondo
partimmo , che è il Cielo.
II. d'etter al berzaglio. Bersa-
glio , e mettere o essere al bersaglio
vale: al cimento, al pericolo.
fd. la dama giulia. Giulio vale
lo stesso che allegro , ilare ; qui sta
per bolla , piacente , che rallegra in
vederla.
fS. trabocchi, ed or bombarde.
Macchine da guerra usate dalla antica
milizia colle quali lanciavansi grossi
sassi. Bombarda chiamasi ora una sorta
d’artiglieria.
18. interrano. Spazio fra due ter-
mini di tempo o di luogo; tenta tro-
careintercallosignifica qui : senza tro-
var cosa che gli trattenesse, o che lor
desse motivo d’indugio.
2f . che qualche trappola ci icoc-
chi. I Latini c i Greci appellavano
questo arnese noGssimo da pigliar topi
con voce esprimente I’ uso che se ne
faceva , chiamandola muscipola , e
u-iàypor.. Noi usiamo tal voce anche
per trama, ondo scoccare una trappola
vai quanto tendere un' insidia , tratta
la figura dallo scoccare , o scattare
che fa la trappola quando il topo v’ò
entrato. Generalmente dicesi trappola
ogni artifizio atto a prendere animali
si di terra, che d’aria o d’acqua.
Cbiamansi trappole da quattrini le rose
poste in mostra per allcttare , c gli
artifizii per fare spendere.
22. ragionar col dente. Mangia-
re. Modo proverbiale. — (arem poi
fardello. Far fardello vale morire ,
che i Latini dicevano rata eolligere.
S’nsa anche per pigliarsi le rose che
uno ha fra mano, e andarsene con
esse , il lareinulai eolligere di Gio-
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CANTO SECONDO.
reulc, che i Greci dicevano iitoax svà-
piM ié7tiy.
25. mangiato avean tn sogno.
Cioè colle immagioazione , ma non io
fatto ; mangiar de’ sogni vale non aver
da mangiare.
24. badigliava a gran boetoni.
Apriva si la bocca per introdurvi grossi
bocconi, che pareva uom che sbavigli.
25. come ermellini. Cioè senza
impedimento, liberi e franchi. L’Er-
mellino è animale molto snello, si-
mile quasi alla Donnola_^ perdoni i
Greci lo chiamarono yal.ri'ì.vjy.-n, cioè
Donnola bianca. — bagattini. Moneta
antica veneziana, e corrispondeva nel
valore al picciolo fiorentino, cioè alla
quarta parte di un quattrino.
26. aranno fallo gala. Far gala
signihca sguazzare, stare allegramente ;
indulgere genio.
51. dal del nel centro. Nell’In-
ferno, che secondo Papia, San Grego-
rio e altri , è posto nel centro della
massa terrestre j onde gli antichi cre-
derono che i vulcani mssero gole o
specie di pozzi che comunicassero col-
l’Inferno, e che le eruzioni di quelli
fosser come un traboccamento del
fuoco di quello.
32. carcame. Scheletro. Si dava
questo nome anche a un ornamento
d’oro e di gioie che le donne porta-
vano in capo a guisa di ghirlanda, ed
era una specie di ciò che chiamasi ora
francescamente Bandeau.
34. gavigne. Son quelle parti del
collo fra il ceppo dell’ orecchie e i
cuuGni delle mascelle. Da gavigne, ag-
gavignare, pigliar per le gavigne, che
volgarmente dicesi pigliar per il collo.
38. Che nel mondo è certe buche.
I crateri appunto de’ vulcani , coma
ho di sopra accennato. — E non so
chi v'andò per Euridice. La favola
d’ Orfeo e d’ Euridice è notissima, nò
fa mestieri ripeterla. — Minosse. Re
di Creta , che celebralo in vita per
somma giustizia , fu dopo morte finto
giudice nell’Inferno, e assegnatore
delle pene alle anime, secondo il grado
<li loro colpe. Finge Danto che egli dia
ì suoi giiidizii coi movimenti delia co-
da , avvolgendosela intorno alla per-
39
sona tante volte quante bolge vuole
che le anime cadan giù ;
GioJica, c roanria seconda che avvinghia.
39. Caroti. Ha volato il Poeta
dare a questa Stanza un suono aspro
e rude, per imitare il lingnaggio in-
fernale j ma quanto non sta ella al
di sotto della inimitabile ottava del
Tasso :
Chiama gli abitator dell’umbra eterne ec.
40. spulexio. Spulezzare vale fug-
gir con grandissima fretta ; e spnlezzo
è l’ alto dello spulezzare , prcBceps
fuga.
41. ir per la piana. Figurata-
mente, e vale: non cercar mai del pe-
ricolo, quando puoi cansarlo. E certo
non è coraggio, ma sventataggine
l’esporsi volontariamente e senza ne-
cessità ad alcun pericola ; quant’ è
poi bello il non temerlo per giusta ca-
gione :
Gilè nn bel morir tutta la vita onora.
— come mied. Miccio significa lo
stesso che Asino, e si suolo anche cu-
munemento dire: « Si son picchiati
come ciuchi, s
44. Pagania. Vale Paganesimo io
generale , e anche , siccome in questo
luogo , paese abitato da Pagani.
46. ciuffa. Acciuffa, acchiappa.
48. mendico. Cho va cercando il
sostentamento uscio per uscio. Mendi-
care vale durar fatica a conseguire
una cosa, onde chi dura fatica a par-
lare si dice che mendica le parole ; ma
il suo significato più comune è andare
elemosinando, ostiatim sibi victum
quairere; onde Dante disse:
Mendicando la vita a frusto a frusto.
Parati., Canto VI.
53. chiere. Per chere, dal verbo
antico cherere, cercare.
54. Gli orecchi debhon cornarvi
qua spesso. Cornare significa suonare
il corno ; e cornar gli orecchi vale sen-
tirvi dentro alcuno zufolamento, o
fischio; il che dicesi , per baia, acca-
dere quando taluno è rammentato, e
ai parla di lui in luogo lontano.
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40
IL HOBGANTB MAGGIORE.
K8. oitieo. Di sapore ingrato e
spiacente. In senso traslato vale , co-
me qui, strano, difficile a tollerarsi,
malagevole, e simili.
£>9. grattato. Che ha fatto il gra-
nello, e dicesi comunemente granito.
Qui figuratamente vale duro , forte.
Gl . Ita. Invece di ist.
Gli. cerlanamente. Per certamen-
te; ma è voce antica. — Ricomper-
roUo. Cioò, ricompenserollo di ciò.
74. ai viene atteUando. Slava
pronto, preparato per accorrere al bi-
sogno.
78. co’ buffetti. Buffetto dicesi
quel colpo che si dà con un dito fa-
cendolo scoccare di sotto l’ altro. Que-
sta voce significa anche piccola tavola,
tavolino, e aggiunto a pane s’ iutende
pan fine.
CANTO TERZO.
Lionetto ucciso, il paladino Orlando
Rovescia dall’arcion Meridiana:
Torna un messo a Parigi , rapportando
Ch’ Orlando è vivo e sano in carne umana.
Di lui Rinaldo e Ulivirr cercando
Van con Dodonc ; c giunti per la piana ,
Dov’ era de’ giganti il concistoro ,
Rinaldo ammazza il Saracin Brunoro.
1 0 Padre, o giusto, incomprensibìi Dio,
Illamina il mio cor perfellamenle,
Si che si mondi del peccato rio :
Sebben io sono stalo negligente,
Tu se’ pur bnalmente il signor mio,
Tu se’ salute dell’ umana gente ;
Tu se’ colui, che ’l mio legno movesti,
£ insino al porlo aiutar mi dicesti.
2 Orlando gli rispose; Egli è dovere;
E colle spade si son disfidati.
E Lionello, ch’avea gran potere,
Molti pensieri aveva esaminati
Per fare al conte Orlando dispiacere :
E perchè lutti non venghin fallati.
Alzava con due man la spada forte.
Per dare al suo cavai, se può, la morte.
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CANTO TERZO.
41
3 Orlando vide il pagano adirato,
Pensò volere il colpo riparare ;
Ma non potè, chè 'I brando è giù calato
In sulla groppa, e Bondel fe cascare;
Tanto Ch’Orlando si trovò in sul prato,
E disse : Iddio non si potè guardare
Da’traditor; però chi può guardarsi?
Ma la vergogna qua non debbe usarsi.
4 Poi fra sè disse : Ove se’, Vegliantino?
Ma non disse sì pian, che ’l suo nimico
Non intendessi ben questo latino ;
E si pensò di dirlo al padre antico.
Orlando s’ accorgea del Saracino
E disse : Se più oltre a costui dico ,
In dubbio son, se mi conosce scorto :
11 me’ sarà eh’ ei resti al campo morto.
6 La gente fu dintorno al conte Orlando
Con lance, spade, con dardi e spuntoni ;
E lui soletto s’ aiuta col brando :
A quale il braccio tagliava e’ faldoni ,
A chi tagliava sbergo , a chi potando
Venia le mani, e cascono i monconi;
A chi cacciava di capo la mosca,
Acciocch’ ognun la sua virtù conosca.
6 Morgante vide in si fallo travaglio
Il conte Orlando, e là n’andava tosto,
E cominciò a sciorinare il battaglio,
E fa veder più lucciole eh’ agosto :
I Saracin di lui fanno un berzaglio
■Di dardi e lance, ma gettan discosto
Tanto, che quando dov’ è il conte venne.
Un istrice coperto par di penne.
7 Era a cavallo Orlando risalito,
E già di Lionello ricercava ;
Ma Lionello, com’e’l’ha scolpilo.
Inverso la città si ritornava,
E per paura l’ aveva fuggito :
Orlando forte Rondelle spronava ;
E tanto e tanto in su’ fianchi lo punse,
Che Lionello alla porta raggiunse.
4 *
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42
IL MOBGANTE MAGGIORE.
8 Volgili indricto; ond’ è (anta paura,
Gridò, Pagano? £ colui pur fuggiva.
Perchè e’ temeva della sua sciagura :
Orlando colla spada l’ assaliva.
£ non potè fuggir drento alle mura
11 giovinello, eh’ Orlando il feriva
Irato, con tal furia, e con tempesta.
Che gli spiccò dall’ imbusto la testa.
9 Nel campo si tornò poi che 1' ha morto ;
Trovò Morgante che nella press’ era ;
£bbe di Lionetto assai conforto,
£ ritornossi inverso la bandiera.
Il caso presto alia dama fu porto ,
Che luce più eh’ ogni celeste spera ;
Grathossi il volto, e straccia i capei d’oro,
SI che fe pianger lutto il concestoro.
10 11 vecchio padre dicea: Figliuol mio.
Chi mi l’ ha morto? e gran pianto facea.
0 Macometto, tu se’ falso Iddio,
Non te ne ’ncresce di sua morte rea?
Che pensi tu? che onor più ti face’ io,
O eh’ io t’ adori nella tua moschea?
Meridiana in cosi fatto pianto
Fece trovar tutte sue arme intanto.
11 Vennono arnesi perfetti e gambiere
Subito innanzi a questa damigella
Di tutta botta, lo sbergo, e 1’ amiere,
£ la corazza provata era anch’ella,
£lmetlo, e guanti, bracciali e gorgiere;
Mai non si vide armadura si bella ;
£ spada, che giammai non fece fallo:
£ cosi armata saltò in sul cavallo.
12 Gente non volle che l’ accompagnasse,
Uno scudiere appiè sol colla lancia ;
£ cosi par che in sul campo n’andasse.
Se r autor della storia non ciancia ;
£ come giunse, un bel corno sonasse,
Ch’ avea d’ avorio, com’ era la guancia.
Orlando disse a Manfredonio : lo torno
Alla battaglia, perch’io odo il corno.
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cìnto terzo.
13 Morganle presto assettava Rondcllo;
Orlando verso la dama ne già,
Che vendicar voleva il suo fratello;
Morgante sempre alla staOa seguia :
Meridiana, come vide quello,
Presto .s’ accòrse che Brunoro sia :
Orlando giunse, e diègli un bel saluto;
Disse la dama: Tu sia il mal venuto.
14 Se se’ colui c’ ha morto Lionetlo,
Gh’ era la gloria e T onor di Levante,
Per mille volte lo Iddio Macometto
Ti sconfonda. Apollino e Trevigantc:
Sappi, eh’ a quel famoso giovinetto
Non fu mai al mondo, o sarà simiglianle.
Orlando disse con parlare accorto :
10 son colui che Lionetto ho morto.
15 Disse la dama: Non far più parole.
Prendi del campo, io ne farò vendetta.
O Macometto crudel, non ti duole
Che spento sia il valor della tua sella?
Chè mai tal cavalier vedrà più ’l sole.
Nè rifarà cosi natura in fretta.
E rivoltò il destrier suo lacrimando ;
Cosi dall’altra parte fece Orlando.
16 Poi colle lance insieme si sconirorno:
11 colpo della dama fu possente.
Quando al principio Tasle s’ appiccamo.
Tanto eh’ Orlando del colpo si sente.
Le lance al vento in più pezzi volorno ;
£ Rendei passa furiosamente
Col suo signor, che tutto si scontorse
Pel grave colpo che colei gli porse.
17 Orlando feri lei di furia pieno :
Giunse al cimier, che in sull’ elmetto avea,
£ cadde col pennacchio in sul terreno :
L’elmo gli usci, la treccia si vedea.
Che raggia come stelle per sereno ;
Anzi pareva di Venere Iddea,
Anzi di quella eh’ è fatta un alloro.
Anzi parenn d'argento, anzi pur d’oro.
4f IL MORGANTE MAGGIORE.
18 Orlando rise, e guardava Morganle
E disse: Andianne ornai per la più piana:
Io credea pur qualche baron prestante
Pugnassi qui per la dama sovrana :
Per vagheggiar non venimmo in Levante.
Ebbe vergogna assai Meridiana :
Sanz’ altro dir, colla sua chioma sciolta,
Collo scudiere alla terra diè volta.
19 Manfredon disse, com’e’vide Orlando:
Dimmi, baron, com’andò la battaglia?
Orlando gli rispose sogghignando :
Venne una donna coperta di maglia,
E perchè l’elmo gli venni cavando,
Su per le spalle la treccia sparpaglia.
Com’io conobbi eh’ eli’ era la dama.
Partito son per salvar la sua fama.
20 Lasciamo Orlando star col Saracino,
E ritorniamo in Francia a Carlo Mano.
Carlo si stava pur molto tapino.
Cosi il Danese, e lieto era sol Gano,
Poi che non v’ è più Orlando Paladino ;
Ma sopra tutti il sir di Montalbano,
Astolfo, Avino, Avolio, e Ulivieri
Piangevan questo, e cosi Berlinghieri.
21 Chimento un giorno il messaggio è tornalo ,
E inginocchiassi innanzi alla corona.
Dicendo: Carlo, tu sia il ben trovalo.
Di cui tanto il gran nome e ’I pregio suona.
Binaldo, che lo vide addoloralo.
Disse : Novella non debbi aver buona.
Donde il messaggio disse lacrimando :
Io ho trovalo il tuo cugino Orlando.
22 E mentre che più oltre volea dire.
Si fatta tenerezza gli abbondava,
Ch’c’ non potè le parole finire.
Quando i baroni intorno riguardava,
Ch’Orlando ricordò nel suo partire,
E tramortito in terra si posava :
Perchè ciascun allor giudica scorto.
Che ’l conte Orlando dovessi esser morto.
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CANTO TBBZO.
23 Dicea Rinaldo : Caro cugin mio,
Poi che tu se’ di questa vita uscito,
Sanza te, lasso, che sarei più io?
Ed Ulivier piangea tutto smarrito.
Carlo pregava umilemente Iddio
Pel suo nipote tutto sbigottito,
£ maladia quel di, che di sua corte
E’ si |»arti, eh’ a Gan non diè la morte.
2 * Piangeva il savio Namo di Baviera,
£ Salamon ne facea gran lamento ;
Bastò quel pianto per insino a sera,
Ch’ ognun pareva fuor del sentimento ;
E Gan fìngea con simulata cera :
Ma risentito alla Gne Chimento
Levossi, e confortò costor, pregando
Che non piangessin come morto Orlando.
25 Dicendo : Orlando sia di buona voglia :
E tutti per sua parte salutoe :
lo ’l trovai nel deserto di Girfoglia,
Ch’ ad una fonte per caso arrivoe.
Dove un altro corner ini diè gran doglia.
Ma nella fonte annegalo restoe:
Chè lo mandava qui Gan traditore.
Per far morire il Roman Senatore.
26 Gridò Rinaldo : Questo rinnegato
Distrugge pur il sangue di Chiarmonte,
Come tu vuoi, o Carlo mio impazzato.
Gan gli rispose con ardita fronte,
£ disse: Io son migliore in ogni lato
Di te, Rinaldo, e del cugin tuo conte.
Rinaldo disse: Per la gola menti,
Chè mai non pensi se non tradimenti.
27 E volle colla spada dare a Gano:
Gan si fuggi, ch’appunto il conosceva.
Bernardo da Pontier suo capitano
Irato verso Rinaldo diceva :
Rinaldo, tu se’ uom troppo villano :
Allor Rinaldo addosso gli correva,
E ’l capo dalle spalle gli spiccava ,
E tulli i Maganzesi minacciava.
46
IL MORGANTE MAGGIORE.
2S I Maganzesi veggendo il furore ,
Di subito la sala sgomberorno.
Carlo gridava : Questo è troppo errore ;
Rinaldo mette sozzopra ogni giorno
La corte nostra, e fammi poco onore.
1 Paladini in questo mezzo entrorno,
E tutti quanti confortàr Rinaldo,
Ch’avessi pazienza, e stessi saldo.
29 Rinaldo dicea pur : Questo fellone
Non vo’che facci mai più tradimento;
O Carlo, 0 Carlo, questo Ganellone
Vedrai eh’ un di ti farà malcontento.
Carlo rispose: Rinaldo d’Amone,
Tempo è d’ adoperar si fatto unguento;
A qualche fine ogni cosa comporlo.
Disse Rinaldo : Ch’ Orlando sia morto.
50 A questo fine il comporti tu, Carlo,
E che distrugga te, la corte, e ’l regno:
Io voglio il mio cugino ire a trovarlo.
E Ulivier dicea : Teco ne vegno.
Dodon pregò eh’ e’ dovessi menarlo.
Dicendo: Fammi di tal grazia degno:
Disse Rinaldo: Tu credi ch’io andassi.
Che ’l mio Dodon con meco non menassi?
3t Chiamò Guicciardo, Alardo, e Ricciardetto:
Fate che Montalban sìa ben guardato.
Tanto ch’io Iruovi il cugin mio perfetto:
Ognun sia presto là rappresentalo ;
Ch’ i’ ho de’ tradilor sempre sospetto ;
E Gan fu tradilor prima che nato :
Non vi Odale se non di voi stesso,
E Malagigi getti l’ arte spesso.
32 Rinaldo, il suo Codone, c Ulivierì
Da Carlo imperador s’ accommialorno ;
E nel partirsi , questi cavalieri
Tre sopravveste verde si cacciorno,
Che in una lista rossa due cervieri
V’era, e con esse pel cammino entrorno:
Era quest’ arme d’ un gran Saracino
Disceso della schiatta di Mambrino.
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CANTO TEBJtO.
47
33 Così vanno costoro alla ventura :
Usciron della Francia incontanente,
Passoron della Spagna ogni pianura :
Tra Mezzodì ne vanno e tra Ponente.
Lasciàngli andar, che Cristo sia lor cura,
E Iratterem d’ un Saracin possente,
Che inverso Barberia facea dimoro;
Era gigante, e chiamato Brunoro:
34 0 ver cugin carnale, o ver fratello
Del gran Morgante ch’avea seco Orlando,
E Passamonte e Alabastro, quello
Ch’ Orlando uccise nel deserto, quando
Il santo abate riconobbe, e fello
Contento, il parentado ritrovando:
Brunor, per far dei suoi fratei vendetta.
Di Barberia s’ è mosso con gran fretta.
35 Con forse trentamila ben armati,
E tutti quanti usati a guerreggiare.
Alla badia ne vengon difilati.
Per far l’ abate e’ monaci sbucare ;
E tanto sono a stracca cavalcati.
Che cominciorno le mura a guardare :
E giunti alla badia, drente v’ entrare,
Chè contro a lor non vi fu alcun riparo.
36 11 domine messer, lo nostro abate
La prima cosa missono in prigione.
Disse Brunoro : Colle scorreggiate
Uccider si vorrà questo ghiottone;
Ma pur per ora in prigion lo cacciate,
Riserberollo a maggior punizione :
Cagione è stato principale, e mastro.
Che Passamonte è morto e Alabastro.
57 Rinaldo in questo tempo alla badia
Con Ulivieri e Dodonc arrivava :
Vide de’ Saracin la compagnia,
E del signor, chi fusse, domandava.
Brunor rispose con gran cortesia ;
Io son dess’io, e se ciò non vi grava,
Ditemi ancor chi voi, cavalier, siete.
Disse Rinaldo: Voi lo ’ntenderete.
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48
IL MOHGANTE MAGGIORE.
58 Noi siam là de’ paesi del Soldano
Pur cavalieri erranti, e di ventura;
Per la ragion cora’Ercol comballiano,
Abbiamo avuto assai disavventura :
Questo ci avvenne, perchè il torlo avano,
E la ragion pur ebbe sua misura :
Nostri compagni alcun n’ è stato morto.
Che, noi sappiendo, difendeano il torto.
39 Disse Brunoro: Io mi fo maraviglia,
Che voi campassi, e per Dio mi vergogno,
A dirvi quel che la mente bisbiglia :
Voi siete armati in visione e in sogno.
Se voi volete colla mia famiglia
Mangiar, che forse n’ avete bisogno,
Dismonterete, e onor vi tìa fatto,
E fate buono scotto per un tratto.
40 Disse Rinaldo : Da mangiare e bere
Accetto ; il re chiamava un Saracino,
Disse: Costor son gente da godere,
E vanno combattendo il pane, e ’l vino,
E carne, quando ne possono avere:
Non debbo bisognar dar loro uncino,
O por la scala, ove aggiungon con mano:
Dice che son cavalìer del Soldano.
41 Se la ragione aspetta che costoro
L’aiutino, in prigion sen’ andrà tosto,
S’avessi più avvocati, argento, o oro,
O carte, o testimon, che fichi agosto,
Dicea fra sè sorridendo Brunoro :
A Ercol s’agguagliò quel ciufla ’l mosto,
O cavalier di gatta, o qualch’ araldo :
E ogni cosa intendeva Rinaldo.
42 Trova colà che faccin colezione,
Se v’è reliquia, arcarne o catriosso
Rimaso, o piedi o capi di cappone,
E dà pur broda e macco all’ uom eh’ è grosso :
Vedrai com’egli scuflìa quel ghiottone.
Che debbe come il can rodere ogni osso:
Assettagli a mangiare in qualche luogo,
E lascia i porci poi pescar nel Iruogo.
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CANTO TERZO.
43 Rinaldo facea vista non adire,
E non gustar quel che diceva quello:
Non si voleva al Pagano scoprire
Per nessun modo, e fa del bufibncello ;
Ecco di molta broda comparire
In un paiuol, come si fa al porcello,
Ed ossa, dove i cani impazzerebbono,
E in Giusaffà non si ritroverebbono.
41 Rinaldo cominciava a piluccare,
E trassesi di lesta allor l’ elmetto ;
Ma Ulivier non sei volle cavare.
Cosi Dodon, che stavon con sospetto:
Perchè Brunor, veggendogli imbeccare
Per la visiera, guardava a diletto,
E comandava a un di sua famiglia,
Ch’ a' lor destrier si traessi la brìglia.
46 E fece dar lor biada e roba assai.
Dicendo: Questi pagheran lo scollo,
O l’arme lasceran con molli guai ;
Non mangeran cosi a bertolotto.
Dicea Rinaldo : Alla barba l’ arai ;
E cominciò a mangiar com’ un arlotto :
Ma quel sergente, a chi fu comandato,
Avea il cavai di Dodon governato.
46 Poi governò dopo quel Veglianlino ,
Ch’ avea con seco menato il marchese ;
Poi se ne va a fiaiardo il Saracino ;
E come il braccio alla greppia distese,
Baiardo lo ciuffò come un mastino,
E ’n sulla spalla all’ omero lo prese.
Che lo schiacciò, come e’ fussi una canna.
Tal che con bocca ne spicca una spanna.
47 Subito cadde quel famiglio in terra,
E poi per grande spasimo morio ;
Disse Rinaldo: Appiccata è la guerra.
Lo scolto pagherai tu, mi cred’io;
Vedi che spesso il disegno altrui erra.
Quando Brunor questo caso sentio.
Disse : Mai vidi il più fiero cavallo,
Io vo’ che tu mcl doni sanza fallo.
KO
II. MOBUANTE MAGGIOHE.
48 Rinaldo fece Albanese messere;
Disse : Quest’ orzo mi par del verace.
Brunor diceva con un suo scudiere :
Questo cavai si vorrà, chè mi piace.
Rinaldo torna, e riponsi a sedere,
£ rimangiò com’on lupo rapace;
Un Saracin, che ancor lui fame avea.
Allato a lui a mangiar si ponea.
49 Rinaldo l’ebbe alla fine in dispetto.
Però che diluviava a maraviglia,
E cadagli la broda giu pel petto :
Guardò più volte, e torceva le ciglia.
Poi disse: Saracin, per Macometto,
Che tu se’ porco, o bestia che ’l somiglia :
10 ti prometto, slu non te ne vai.
Farò tal giuoco che tu piangerai.
50 Disse il Pagan : Tu debb’ essere un matto.
Poi che di casa mia mi vuoi cacciare.
Disse Rinaldo: Tu vedrai bell’atto.
11 Saracin non se ne vuole andare,
E nel paiuol si tuifava allo imbratto.
Rinaldo non potè più comportare.
Il guanto si mettea nella man destra.
Tal che gli fece smaltir la minestra.
5t Chè gli appiccò in sul capo una sorba.
Che come e’ fossi una noce lo schiaccia ;
Non bisognò che con man vi si foiba ;
E morto nel paiuol quasi lo caccia.
Tanto che tutta la broda s’intorba.
Dodon gridava al marchese: Su spaccia,
Lieva su presto, la zuffa s’appicca;
Donde Ulivieri abbandonò la micca.
52 Allora una brigata di que’ cani
Subito addosso corsono a Dodone,
£ cominciossi a menarvi le mani :
Rinaldo vide appiccar la quislione,
E in mezzo si scagliò di que’ Pagani;
Cosi faceva Ulivier Borgognone :
Trasse la spada dal lato suo bella,
Ma presto sanguinosa e brulla fella.
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CANTO TERZO. SI
Al primo che trovò la zucca taglia :
Dodone uccise un Pagan molto ardito.
Brunor veggendu avviar la battaglia.
Subito verso Rinaldo fu ito,
E disse: Cavalicr, se Dio ti vaglia,
Per che cagion se’ tu stalo assalito ?
E gridò forte che ciascun s’arresti.
Tanto che ’l caso a lui si manifesti.
54 Subito la battaglia s’ arrestava.
Saper voleva ogni cosa Brunoro :
Verso Rinaldo di nuovo parlava :
Dimmi, baron, perchè tu dai marloro
Alla mia gente, che troppo mi grava?
Disse Rinaldo : Come san costoro ,
Non vo’ mai noia, quand’ io sono a desco,
E sto come ’l cavai sempre in cagnesco.
55 Venne a mangiar qua uno : io lo pregai
Che se n’andassi, e’ non curò il mio dire:
Mangiato non parea ch’avesse mai.
Ed ogni cosa faceva sparire :
Le frutte dopo al mangiar gli donai.
Perchè il convito s’ avessi a fornire :
E mentre che dicea questo al Pagano,
Frusberta sanguinosa lenca in mano.
56 Disse Brunor: Poi che cosi mi conti.
Di questo fatto se ne vuol far pace ;
Non siate cosi tosto al ferir pronti :
Io l’ ho fatto piacer; se non li spiace,
I peccali commessi sieno sconti ;
Rimettete le spade, se vi piace.
Rimesson tutti allora il brando drento ;
Brunor segnia il suo ragionamento.
57 Detto m’ avete, s’io ho inteso bene.
Che combattete sol per la ragione.
Però d’ un altro caso vi conviene
Dirne con meco vostra opinione :
Dirovvi prima quel che s’appartiene,
E voi poi solverete la quistione ;
Se no, tu lascerai qui il tuo cavallo.
Che ristorò dell’ orzo il mio vassallo.
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52
IL HORGANTE MAGGIORE.
68 Disse Rinaldo : Apparecchiato sono.
Brunoro allor gli raccontava il fatto :
Questa badia s’ è messa in abbandono,
Perchè due miei fratelli furo a un tratto
Fatti morir, sanza trovar perdono;
Ond’ io sentendo si tristo misfatto.
Venuto sono a vendicarli, e preso
L’ abate ho qui , da cui mi tengo offeso.
59 Se la ragion tu di’ che suoi difendere.
Tu doreresti aiutar me per certo ;
Ed a me par che tu mi voglia offendere ;
Gnor l’ ho fatto, aspettando buon merto.
Disse Rinaldo : Falso è il tuo contendere ;
Io ti dirò quel eh' io n’ intendo aperto :
Con un sol bue, io non son buon bifolco ;
Ma s’ io n’ ho due, andrà diritto il solco.
60 Se due campane. Tana odi sonare,
E l’altra no ; chi può giudicar questo.
Qual sia migliore? io odo il tuo parlare.
Vorrei da quello abate udire il resto.
Disse Brunoro : E questo anche a me pare.
Venne l’abate, appiccato al capresto,
E liberato fu della prigione.
Perchè potesse dir la sua ragione.
61 Disse Brunoro : Io ho detto a costui
L’ oltraggio che da te ho ricevuto ;
Contato gli ho come diserto fui
Pe’ tuoi consigli da chi t’ ha creduto:
Or tu le ragion tue puoi dire a lui.
Che mi pare uomo assai giusto e saputo.
Disse l’abate: Or l’altra parte udite,
A voler ben giudicar nostra lite.
62 lo mi posavo in queste selve strane ;
E’ suoi fratelli ognidì mi faceano
A torto mille ingiurie assai villane,
E spesso i faggi, e le pietre sveglieano;
Hanno più volte rotto le campane,
E de' mie’ frati con esse uccideano:
Convennemi alcun tempo comportargli,
Chè forze non avea da contrastargli.
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CANTO TERZO.
63 Ma, come piacque a qael signor divino
Ch’ aiuta sempre ognun c’ ha la ragione,
Ci capitò un mio fratei cugino.
Il qual si chiama Orlando di Milone :
E come quel eh’ è giusto Paladino,
Ebbe di me giusta compassione;
E in su quel monte andò a trovar costoro,
E con sua mano uccise due di loro.
64 11 terzo per suo amor si convertie,
E con quel conte Orlando se n’ andoe
Verso Levante, e da me si partie;
Tanto che sempre io ne sospireroe.
Quando Rinaldo le parole udie.
Molto d’ Orlando si maraviglioe,
E non sapea rassettar nella mente.
Come l’ abate fussi suo parente.
65 E cominciò cosi al Pagano a dire :
Or ti parrà che ’l solco vada ritto,
Or due campane si possono udire :
Tu mi parlavi simulato e fìtto :
Però s’ a questo non sai contraddire ,
La mia sentenzia è data già in iscritto :
Se vero è quel che l’abate m’ ha porto.
Egli ha ragione, e tu, Pagano, hai ’l torto.
66 E intendo di provar quel eh’ io ti dico
A corpo a corpo, a piede o a cavallo,
Perch’ io son troppo alla ragione amico.
Disse il Pagano : E’ si vorria impiccano
Con teco ; or guarii come mio nimico :
Tu debb’ essere un ghiotto sanza fallo.
Disse Rinaldo: Com’ io sarò ghiotto.
Tu mel saprai dir meglio al primo botto.
67 Disse Brunoro: Noi faremo un patto,
Che s’io ti vinco, io vo’ questo destriere;
Ch’ al primo so ti darò scaccomatto.
Colla pedona in mezzo lo scacchiere.
Disse Rinaldo: Come vuoi, sia fatto ;
Se tu m’ abbatti, questo è ben dovere;
E anco a scacchi ti potria dir reo,
Ch’ io fo i tuo’ par ballar come ’l paleo.
IL HOBGANTK MAGGIORE.
Hi
6S Ma voglio un altro patto, se ti piace,
Che s’ io ti vincerò nella battaglia,
L’ abate liber sia lasciato in pace
Dalla tua gente sanza altra puntaglia:
Cosi, se ’l mio pensier fussi fallace.
Questo cavai eh’ i’ ho coperto a maglia ,
Yo’ che sia tuo ; ma stu m’ abbatterai,
A ogni modo che dich’ io l’ arai.
69 Poi che l’accordo cosi si fermava.
Ognun quanto volea del campo tolse :
Come Brunoro il suo destrier girava,
Cosi Rinaldo Baiardo rivolse :
Il Saracin la sua lancia abbassava;
Sopra io scudo di Rinaldo colse,
Passollo tutto, e pel colpo si spezza ;
Rinaldo feri lui con gran Gerezza.
70 E passògli lo scudo e 1’ armadura;
Per mezzo al petto la lancia passava.
Due braccia o più d’ una buona misura
Dall’ altra parte sanguinosa andava ;
E cadde rovesciato alla verzura ;
L’ anima nell’ inferno s’ avviava :
Gli altri Pagani, veggendol morire,
Ulivier presto corsono assalire.
71 Rinaldo non avea rotta la lancia :
11 primo eh’ egli scontra de’ Pagani,
Gli passò la corazza, e poi la pancia;
Poi con Frusberta sgranchiava le mani :
E Ulivier, eh’ è pur di que’ di Francia,
Que’ Saracini afiTetta come pani ,
E sopra Vegliantino era salito ;
E del diciotto teneva ogni invito.
72 Allor Dodone all’abate correa,
Il quale era legalo mollo stretto ;
Tagliò il capestro, e le mani sciogliea:
L’ abate presto si misse in assetto;
Uno stangon dalla porla logliea,
Ch’ a un Pagan levò il capo di nello ;
Poi nella calca in modo arrandellollo,
Ch’ a più di sei levò il capo dal collo.
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CAUTO TBBZO. 5S
73 I frali Ognun la cappa si cavava ;
Chi piglia sassi, e chi stanga, e chi mazza ;
Ognuno addosso a costor si cacciava.
Molti uccidean di quella turba pazza:
Rinaldo tanti quel di n’ affettava,
Che in ogni luogo pel sangue si guazza;
A chi balzava il capo, a chi ’l cervello.
Come si fa delle bestie al macello.
74 £ Ulivieri, ch’avea Durlindana,
Tu dè’ pensar quel che facea di loro ;
E’ fece in terra di sangue una chiana :
Dodon pareva più bravo eh’ un toro.
Missesi in fuga la gente pagana,
Ché non polean più reggere al martoro ;
L’ abate all’ uscio per più loro angoscia
S’era recato, e nell’ uscir fuor croscia.
76 Subito la badia isgomberorno ;
Molti ne fecion saltar le Gnestre,
Fino al deserto gli perseguitorno.
Poi gli lasciorno alle Gere silvestre;
1 monaci la porta riserrorno,
E rassettàrsi alle antiche minestre :
Poi riposalo all’ abate n’ andava
Rinaldo presto , e cosi gli parlava :
76 Voi dite, abate, che siete cugino.
Se bene ho inteso lai ragionamento,
D’ Orlando degno nostro Paladino ;
Però di questo mi fate contento.
Donde disceso siete, e in qual conGno,
E che cagion vi condusse al convento.
Disse r abate : Se saper l’ è caro
Quel che tu di’, tu sarai tosto chiaro.
77 Io fui Ggliuol d’ un Ggliuol di Rernardo,
Che si chiamò dalla gente Ansuigi,
Fralel d’Amone, e fu tanto gagliardo,
Ch’ ancor la fama risnona in Parigi
D’ Ottone e Rnovo , s’ i’ non son bugiardo :
E la cagion ch’io vesto or panni bigi,
Fu dal ciel prima giusta spirazione,
Poi per conforto di Papa Lione.
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H6 IL HOBGANTB HÀ6GI0BE.
78 Rinaldo, udendo contar la novella,
Con molta festa lo corse abbracciare,
E ringraziava del cielo ogni stella;
E disse: Abate, io non vi vo’ celare,
Poi che scacciata abbiam la gente fella.
Il nome mio, ch’io non lo potre’ fare.
Tanta dolcezza supera la mente :
Son come Orlando anch’ io vostro parente.
79 Io son Rinaldo, e fui Ggliuol d’Amone;
E come a lui a me cugino ancora
Siete: e piangeva per affezione :
Perché l’ abate lo stringeva allora ,
E mai non ebbe tal consolazione :
O giusto Iddio ch’ogni Cristiano adora.
Dopo tante altre grazie e lunga etate,
Veggo Rinaldo mio ; dicea l’ abate.
SO Ed ho veduto il mio famoso Orlando,
Benché del suo partir sia sconsolato :
Nunc dimille servum luum, quando
Ornai ti piace. Signor mio beato.
Rinaldo allor soggiunse lacrimando :
E questo é Ulivier, ch’é suo cognato;
Questo é Dodone , figliuol del Danese :
L’ abate abbraccia Dodone e ’l marchese.
81 I monaci facevon molta festa.
Perché partito é il popol saracino,
E che per grazia Iddio lor manifesta
Che Rinaldo é dell’ abate cugino.
Ma perch’ io sento la terza richiesta
Di ringraziar chi ci scorge il cammino.
Farò sempre al cantar quel eh’ é dovuto :
Cristo vi scampi, e sia sempre in aiuto.
NOTE.
5. «' faldoni. Faldoae è accresci-
tivo di falda ; e cosi chiamasi la ma-
teria distesa, che agevolmente ad altra
si soprappone. Qni significa quella
parte dell’ arniatora fatta a scaglie clic
f icndeva dalla panziera, e ricnoprìva
e reni scendendo sulle parti deretane
e sulle cosce.
7. eom’ e' V ha $eolpito. Qa\ il ver-
bo scolpire ha il significato di vedere,
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CANTO TKRZO.
87
scorgere. Il Vocabolario dod dà che
questo esempio.
\7 . di quella eh’ è folta un allo-
ro. Dafne, figliuola di Peneo fiume dì
Tessaglia e della Terra, la quale fu con-
vertita dal padre in alloro, mentre ella
voleva fuggire Apollo, che la inseguiva.
Vedi Ovidio, Melamorfoii, lib. I. Di
altre due Dafne ci parla la favola;
l’ una Oreade , o ninfa da’ monti , sa-
cerdotessa della Dea Tellure, dì cui
proDunziaTa gli oracoli in Delfo; l’al-
tra figlinola di Tiresia , e profetessa
essa pure; auzi considerata da alcuni
come una Sibilla.
22. scorto. In forza d’ avverbio ,
e vale chiaramente.
31 . gellt l’arte. Gettar l’arte vale
fare incantesimi.
35. a etraeea. Di forza tanto da
straccarsi. Diciamo però anche comu-
nemente pigliare una cosa alla stracca,
e vale prenderla a suo bell’ agio.
36. teorreggiaie. Colpi di correg-
gia; e viene dal lat. corrtgia, che
era una specie di staffile , o funicella
di cuoio , colla quale percuotevansi i
servi colpevoli; onde da corrigere,
fu detta eorrigia.
38. eombattiano. Combattiamo.
Tal cangiamento in n della m, nelle
prime persone plurali del presente dcl-
l’iudicativo, fu molto in uso presso
gli antichi fiorentini. Ne abbiamo un
chiaro esempio aeìì’ JJone del Buo-
narroti, dove tal cambiamento non è
fatto, come in questo luogo , per ser-
vigio della rima:
Scoia consiglio lotti stiàn sossoprt.
Canto III, T. IO.
— eom’ Er eoi. Varii sono stati gli Er-
coli finti dall’antichità come uccisori
di mostri, e d’uomini feroci e tiran-
nici. Ma togliendo il velo della favola,
non altro si scorge essersi voluto adom-
brare sotto la figura di questi eroi,
cui attribuironsi forme gigantesche e
forza meravigliosa, che i primi civi-
lizzatori delle nazioni. Ma di ciò più
distesamente si parla nella Prefazione,
dove può vedersi eziandio la somi-
glianza fra questi Ercoli antichi e i
Giganti e gli Eroi dei Poemi roman-
zeschi, fra i quali primeggia Orlando,
che può risguardarsi come l’ Ercole de-
gli Italiani. In questo luogo il Poeta
parla dell’Èrcole greco Hpàxluo;, il
più celebre, e il più conosciuto di tolti,
e col quale vengono anzi confusi so-
vente gli altri. Sono note le sue do-
dici fatiche tollerate per comandamen-
to di Euristeo, e le altre sue gesta.
Fu dopo morte riguardato come un
Semideo, e fu ad esso consacrato il
ioppo bianco, perchè dicevano essersi
elle foglie di quello incoroaato, quan-
do discese all'Inferno per trarne il
Cerbero. Piacemi qui notare una cosa ,
che vale a dar maggior risalto alla di-
gnità dì quest’ Eroe , ed è questa ; che
egli avesse per culla lo scudo pater-
no, e da quello pugnasse coi due ser-
penti. Tale idea è del Chiabrera , e
se ne valse in una delle sue Canzoni:
Era tolto di fasce Ercole appena,
Che pargoletto, ignndu
Entro il paterno acndo
li riponea la genitrice Alcmena ;
E nelle calla dora
Traea la notte oscnra.
Quand’ ecco serpi a fnncstargli il seno
Insidiose e rie ;
Cara mortai non spie
Se por sorgesse il gemino veneno*,
Chè ben si crede allora
Ciy allo valor s’ onora.
Or non si tosto i mostri ebbe davante,
Cile colla man di latto
Erto soi piò combatte,
Gih fatto atleta il celebrato infante;
Stretto per strani modi
Entro i viperei nodi.
Alfin le belve sibilanti e crnde
Disanimata stende ;
E cosi vien che splende
Anco ne* primi tempi alma virtude ;
E da Innge prometle
Lo glorie sue perfette.
Canzone XV.
— arano. Avevamo.
42. reliquia. Quel che comune-
mente chiamiamo gli avanzi. — ar-
carne. Ossame, lo stesso che carca-
me. Forse da Àrea; chè cosi chiama-
vansi i depositi delle chiese , ove
ponevansi i morti. — calrioito. Ossa-
tura del cassero degli uccelli. — macco.
Specie dì minestra, detta anche fave-
rella, fatta di fave sgusciate, cotte, o
ridotte in pasta. Chiamasi macco an-
che la polenda, che comunemente ora
si fa di farina di castagne, o di gran-
turco. Il Biscioni, nelle nota al Uat-
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58
IL MOSGANTE MAGGIORE.
tnanlile , fa venir questa voce , come
1 >ure l’ altra Macca , che signiGca ab*
>ondanza grande, dal lat. maelut ,
composto di magi* o auctisi, quasi
mauetu*, e che si usava anche avver-
bialmente, e quasi a modo di voca-
tivo : Macie virlute e$to, disse Seneca .
1^ qui da notare la etimologia del no-
me del pittore Burialmacco , fatto ce-
lebre più che dalle opere proprie da
quelle del Boccaccio, il qual significa
u Soffiar nel macco, o nella poleuda ; »
perchè bufar, in Provenzale, signifi-
cava soffiar colla bocca. Di qui il no-
me di Buffoni a coloro che sì teneano ,
ne’ bassi tempi , per le corti dei gran
Signori, affinché divertissero coi lor
motti, e gesti, e scherzi, fra i quali vi
era quello dì gonfiare le gote , e poi
facendosele percuotere, mandar fuori
della bocca il fiato con un certo stre-
pito, 0 suono. Dalla stessa voce Pro-
venzale abbiamo buffa, che vale bur-
la , vanità ec., quasi cosa da nulla, c
ebe è come un soffio ; e diciamo di
cosa mollo leggiera è un loffio. Dal
suo fischio, o suono quasi d’un che
soffia , chiamarono i Siciliani Buffe-
ranna una sorta di serpenti, come ri-
levasi da no passo di Guido Giudice :
a Overo dì quello, il quale Bufferanna
in Sicilia si chiamasse. » E credo che
buffa si sìa chiamata quella parte del-
l’elmo, detta anche visiera, che cno-
pre la faccia , e si alza e cala a vo-
glia altrui , e buffa anche quella spe-
cie di cappuccio che si prolunga insin
sulla faccia, e che usano di porre alle
lor cappe i fratelli delle Compagnie o
Confraternite, perchè chi ha cotale im-
paccio sulla bocca è costretta a respi-
rare con maggior fatica, per cui ansa e
soffia. — E laida i pord pd pescar
nel truogo. Per disprezzo dice che i
tre Paladini mangiano con tal voraci-
tà , che paion porci che grufolino in
un truogolo d’acqua. Truogo, o truo-
golo , è voce derivante dalla greca
TpàyXrt ■, perchè nelle caverne o grot-
te vedonsi per lo più dei pìccoli la-
ghetti formati dalle acque che per-
meano dalle interne viscere dei mon-
ti, i quali laghetti somigliano appunto
a tanti trnogoli.
43. £ tnCtiMa/fd. Ecco un esempio
di quel ridicolo e specie dì disprezzo
di cui il Poeta suole spesso cospergere
le cose più sacre; difetto, del quale
non può in modo alcuno scasarsi ; e
ciò sia detto una volta per sempre.
44. imbeccare Per la viiiera.
Cioè introdurre i bocconi per il foro
della visiera. Imbeccare vale mettere
il cibo nel becco agli uccelli che non
I sanno per loro stessi beccare ; qnì è
nsato figuratamente. — a diletto. A ,
per , con , ed è vaga maniera. « Fnro
ricevuti tutti a grandissimo onore, •
disse Giovanni Villani; e Dante:
RtccomandA che l’amtssero a fede.
Parati., Cento \I.
45. Non mangeran coli a berta-
lotto. Mangiare a bertoiotto vale man-
giare senza pagare, il che dicesì anche
passare per bardotto. Modo prover-
biale , ed è 1’ aiymbolum comedere
dì Terenzio. — Alla barba Parai. Alla
barba vale in dispetto, in onta, e si-
mili, ciò che ì Latini dicevano ingra-
tiii; onde qui Kìnaldo viene a dire
quasi a Bronoro : si, mangerò senza pa-
gare, a tuo dispetto. — Arlotto. Dìcesi
a nomo goffo, gaglioffo. E conosciuto
sotto questo nome il Piovano di Macino-
li, celebre per gli spiritosi suoi motti,
eòi quali rallegrava la corte medicea.
46. ne ipicca una spanna. La
spanna è la lunghezza della mano di-
stesa, e aperta dalla estremità del dito
mìgnolo a quella del grosso. Viene
questa voce, a mio credere, dalla greca
07T(da/zn, che ha lo stesso significato,
dalla quale corrotta, si è formato span-
na. I Latini dissero dodrani. Svetonìo :
Statura ejui fuit quinque pedum, et
dodrantii.
49. diluviava. D’uno che mangia
con gran voracità , e rifinisce ciò che
ha davanti , dicesi eh’ e’ diluvia.
51 . gli appiccò lui capo una lor-
ba. Modo proverbiale, e vale, gli sca-
ricò nn colpo sul capo. — micea, mi-
nestra. Il Salvini fa venir questa voce
dal latino mica, o dal greco utxpoc,
o meglio /xtxxi), o /x(xxó/i.>], che vale
piccola; e di fatto la minestra si fa
ponendo nel brodo delle piccole par-
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CANTO TESZO.
«9
t'icclle, o pezzetti di pane, paste, o si-
mili cose. Anche (quelle piccole parti-
celle di pane o altro che avanzano a
mensa, dette coinnncmente minozzoli,
delle qnali il Vangelo dice che da-
vansi a’ cani, si chiamavano mica.
K3. te Dio ti vaglia. Modo de-
precativo, 0 desiderativo. La parti-
cella te è qui usata al modo che i
Latini usavano il tic. Sic te Diva pa-
tene Cypri, disse Orazio; o come
adoperavano la particella ri i Greci, i
qnali per esprimere il nostro fe Dio
vuole, dicevano fi Oso;
54. tn cagnetco. Stare in cagne-
sco vaie con viso arcigno, torvo vullu.
66. guarti. Guardati.
67. ti darò teaccomatlo , Colla
pedona in mesxo lo tcaechiere. Ave-
re , ricevere , o dare lo scacco , o lo
scaccomatto, vale torre, o esser tolto
di posto ; e anche ricevere , o cagio-
nare danno e perdita ; tratta la simili-
tudine dal giuocodegli scacchi, dove di-
cesi dare scacco matto quando si vince
il giuoco, facendo prigione il Re. Questo
ginoco degli Scacchi è antichissimo, e
fu usato anche dai Greci, i qnali ora lo
chiamano ì^arpiriov , e poi da’ Latini
che lo dissero lud%u latruneulorum,
e lo scacco matto ealculut mdtut, o
ad inciiat adaelui, cioè soggiogato,
abbattuto, e ridotto alle strette in
luogo da non si poter muovere; e di
fatto Scaccomatto è quando la figura
chiamata il Re non può far più mossa.
E perchè questo Re rimane vinto, sog-
giogato, lo diciamo nell’ italiano Scao-
comatto dalla antica voce latina maf-
lut, che vale bagnato c soggiogato, e
viene dal greco ^uarTw, pigiare, pesta-
re, consumare, ec. Di qui maetare che
significa soggiogare, domare, e di qui
similmente noi Italiani chiamiamo
malto colui, la retta ragione del qnale
è come abbattuta, soggiogata; e l’uc-
cìdere diciamo ammazzare, quasi am-
tnaelare, cioè superare altrui colla
morte. Altri però ha opinato che il
Verbo ammazzare derivi inveee da
uccidere con mazza. Vedi il Grassi.
Del resto noi chiamiamo un tal giuoco
gli Scacchi, perchè il tavoliere sul
naie si giunca, è distinto in tanti qua-
retti rassomiglìanti a ^nei che si veg-
gono dipinti sulle divise, e nelle in-
segne o armi gentilizie, e che si dicono
scacchi, io greco s//^>yijoàTta.
67. (t poirta citr reo. Dire reo
vale aver mala sorta, cattiva fortuna,
e ciò specialmente nel giuoco. I Lati-
ni dicevano : adverta fortuna, ec. —
paleo. Strumento con cui giuncano i
fanciulli, facendolo girare con una
sferza , e lo chiamano anche fattore.
Sì rassomiglia esso per la sua figura
alla trottola, ma ne differisce però,
come ne fa fede una certa cantilena
degli antichi ragazzi, riportata dal Mi-
nucci nelle note al Malmantile, Can-
to II, St. 23, e che dice:
E il Crittian non è Giudeo,
E le trottole non è paleo,
E il paleo non è trottola.
Il Salvini nel medesimo luogo fa ve-
nire la voce Paleo dal greco verbo
7cs).s(iv, vertere; quasi dicesse da
prima poleo, poi paleo. I Greci dalla
sua figura piramidale lo chiamarono
xùiroi , e ì Latini furto. Si dò anche
il nome di Paleo a una specie di erba
che nasce intorno alle lagune.
68. puntaglia. Contrasto, com-
battimento.
71 . E del diciotto teneva ogni
invito. Modo proverbiale, e dìcesi di
dii è soverchiamente loquace, o come
dicevano i Lattai Moichut caneni Bao-
licum. Qui pare voglia significare non
rifiutare , nè temere di venire allo
mani con chiunque.
74. chiana. Palude, ttagnum. —
croteia. Crosciare siguìfica il cadere
della subita e grossa pioggia ; e vale
anche, come qui, manaar giù con vio-
lenza, con forza, infligere ictum.
76. e in qual confino. Qui con-
fine sta per paese, territorio.
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60
IL MORGANTE MAGGIORE.
CAMTO QUARTO.
4am<B(Dmwìjw(D^
Spicca Rinaldo la testa a un dragone ,
Che s’ è con un lione avviticchiato :
Mesce di si buon peso un mostaccione
A un gigante , eh’ e’ cade sfragellato.
Con Olivier s’ imbranca e con Dodone ,
A sterminare un serpe sterminato.
S’ innamora Olivieri al maggior segno;
Fansi Cristiani il re Corbante e ’l regno.
1 Gloria in excehis Beo, e in terra pace,
Padre, e Figliuolo, e Spirito Santo,
Benedicimus le, Signor verace,
Laudamus te, Signor, con umil canto ;
Poi che per tua benignità ti piace
L’abate nostro qui consolar tanto,
E le mie rime accompagnar per tutto.
Tanto che il fior produca al fln buon frutto.
2 Era nel tempo eh’ ognun s’ innamora,
E eh’ a scherzar comincian le farfalle,
E ’l Sol, ch’avea passala 1’ ultim’ora.
Verso Murrocco chinava le spalle;
La luna appena corneggiava ancora.
De’ monti l’ombra copriva ogni valle,
Quando Rinaldo all'abate ritocca,
Che ’l nome suo non tenessi piu in bocca.
5 Rispose: Chiaramonle è il nome mio;
Benignamente a Rinaldo l’abate.
Dopo alcun giorno, acceso dal desio.
Disse Rinaldo : Io vo’ che voi ci diale
Ornai licenza col nome di Dio :
Io ho a Parigi mie genti lasciate.
Perch’io non credo, che ’l di mai veggiamo.
Di ritrovar colui che noi cerchiamo.
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CANTO QUARTO.
61
4 L’abate, ch’era prudente e saputo,
Disse: Rinaldo, benché duol mi fia,
Chè mai qui mi saresti rincresciuto,
Credo che questo buon concetto sia;
Io son contento poi eh’ io t’ ho veduto :
So che questa sarà la parte mia
Di rivedervi più ch’egli è ragione;
Però vi do la mia benedizione.
5 Se di vedere Orlando è il tuo pensiero.
Vattene in pace, caro mio fratello ;
Dio t’accompagni per ogni sentiero,
0 come fece Tobbia RaQaello.
Disse Rinaldo: Cosi priego e spero;
Rivedrenci nel ciel su presso a Quello,
Che de’ suo’ servi ara giusta merzede.
Che combatton quaggiù per la sua fede.
6 Rinaldo si parli da Chiaramonle,
E Ulivieri c Dodon , sospirando :
Van cavalcando per piano e per monte,
Per la gran voglia di vedere Orlando :
Quando sarà quel di, famoso conte,
Dicea fra sé, ch’io ti rivegga, quando?
Non mi dorrà per certo poi la morte,
S’ io ti ritrovo, e riconduco in corte.
7 Era dinanzi Rinaldo a cavallo,
E Ulivier lo seguiva e Dodone,
Per un oscuro bosco sanza fallo:
Dove si scuopre un feroce dragone
Coperto di slran cuoio verde e giallo,
Che combatteva con un gran Mone ;
Rinaldo al lume della luna il vede,
Ma che quel fussi drago ancor non crede.
8 E Ulivier più volte aveva detto,
Siccom’avvien chi cavalca di notte:
Io veggo un fuoco appiè di quel paggetto.
Gente debbe abitar per queste grotte:
Egli era quel serpente maladetto.
Che getta fiamme per bocca ta’ dotte,
Ch’una fornace pareva in calore,
E lutto il bosco copria di splendore.
I. 6
Digitized by Cooglc
62 IL MORGANTE MAGGIORE.
9 E ’l leon par che con lai s’ accapigli,
E colie branche e co’ denti lo roda,
Ed or pel collo or nel petto lo pigli :
Il drago avvolta gli aveva la coda,
E presol colla bocca e cogli artigli.
Per modo tal che da lui non si snoda :
E non pareva al lione anco giuoco,
Quando per bocca e’ vomitava fuoco.
10 Baiardo cominciò forte a nitrire,
Com’ e’ conobbe il serpente da presso :
Vegliantin d’Ulivier volea fuggire.
Quel di Dodon si volge a drieto spesso,
Chè ’l fiato del dragon si fa sentire ;
Ma pur Rinaldo innanzi si fu messo,
E increbbegli di quel lion, che perde
Appoco appoco, e rimaneva al verde.
11 E terminò di dargli al fin soccorso,
E che non fussi dal serpente morto :
Baiardo sprona e tempera col morso.
Tanto che presso a quel drago l’ha porlo,
Che si studiava co’ graffi e col morso.
Tal che condotto ha il lione a mal porlo ;
Ma invocò prima l’aiuto di sopra.
Che cominciassi si terribil opra.
-12 E adorando, sentiva una voce.
Che gli dicea : Non temer, baron dotto,
Del gran serpente rigido e feroce;
Tosto sarà per tua mano al di sotto.
Disse Rinaldo : O Signor mio, che in croce
Moristi, io ti ringrazio di tal molto ;
E trasse con Frusberta a quel dragone,
E mancò poco e’ non dette al lione.
13 Parve il lion di ciò fusse indovino,
E quanto può dal serpente si spicca,
Vcggendosi in aiuto il Paladino :
Frusberta addosso al dragon non s’ appicca ,
Perchè il dosso era più che d’ accia’ fino :
Trasse di punta, c il brando non si ficca.
Che .solea pur forar corazze e maglie.
Si dure aveva il serpente le scaglie.
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CANTO QUARTO.
63
44 Disse Rinaldo : £’ tìa di Satanasso
Il cuoio che ’i serpente porta addosso,
Poi che di punta col brando noi passo,
E che col taglio levar non ne posso ;
E lascia pur la spada andare in basso.
Credendo a questo tagliare ài fin l’ osso :
Frusberta balza, e faceva faville;
Cosi de’ colpi gli diè forse mille.
15 E quel bone lo tenca pur fermo.
Quasi dicessi : S’ io lo tengo saldo.
Non arà sempre a ogni colpo schermo :
bla poi che molto ha bussato Rinaldo,
£ conoscea che questo crudel vermo
L’ oflendea troppo col fiato e col caldo.
Se gli accostava, e prese un tratto il collo,
E spiccò il capo, che parve d’ un pollo.
46 Fuggito s’ era Ulivieri e Dodone,
Che i lor destrier non poteron tenere :
Come e’ fu morto quel fiero dragone.
Balzato il capo, e caduto a lacere.
Verso Rinaldo ne venne il bone,
E cominciava a leccare il destriere :
Parea che render gli volessi grazia ;
Di far festa a Rinaldo non si sazia.
47 Ed avviassi con esso alla briglia.
Rinaldo disse: Yergin graziosa.
Poi che mostrata m’ hai tal maraviglia.
Ancor ti priego. Regina pietosa,
Che mi dimostri ove la via si piglia
Per questa selva cosi paurosa.
Di ritrovare Ulivieri e Dodone,
0 tu mi fa fare scorta al bone.
48 Parve che questo il bone intendessi,
E cominciava innanzi a camminare.
Come se, drieto mi verrai, dicessi:
Rinaldo si lasciava a lui guidare,
Chè boschi v’ eran si folli e sì spessi ,
Che fatica era il sentiero osservare :
Ma quel bone appunto sa i sentieri,
E ritrovò Dodone e Ulivieri.
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64
IL HORGANTE MAGGIORE.
49 Era Ulivier (ulto maninconoso,
E del cavallo in terra dismontato;
Cosi Dodone, e piangea doloroso,
E ’ndrieto inverso Rinaldo è tornato.
Per dar soccorso al Paladin famoso :
E Ulivieri aveva ragionato:
Penso che morto Rinaldo vedremo
Da quel serpente, e (ardi giugneremo.
:ì 0 E non sapean ritrovar il cammino.
Erano entrati in certe strclte valli :
Ecco Rinaldo, e ’l lion già vicino
Maravigliossi, c cominciò a guardalli:
Vide Ulivier non avea Vegliantino;
Disse : Costoro ove aranno i cavalli?
A qualche fiera si sono abbattuti,
Dove egli aranno i lor destrier perduti.
31 Ulivier quando Rinaldo vedea.
Non si può dir se pareva contento,
E disse : Veramente io mi crcdea
Ch’ ornai tu fussi della vita spento ;
E poi eh’ allato il lione scorgea
Al lume della luna, ebbe spavento.
Disse Rinaldo: Ulivier, non temere
Che quel lion ti facci dispiacere.
22 Sappi, che morto è quel dragon crudele,
E liberato ho questo mio compagno,
Che meco or vien come amico fedele,
E arem fatto di lui buon guadagno :
Prima che forse la luna si cele.
Tratto ci arà questo lion grifagno
Del bosco, e guideracci a buon cammino :
Ma dimmi, bai tu perduto Vegliantino?
23 Ulivier si scusò con gran vergogna :
Come tu fusti alle man col dragone,
I destrier ci hanno grattala la rogna
Tra mille sterpi, e per ogni burrone:
Ognun voleva far quel che bisogna.
Per aiutarti, com’era ragione;
Ma ritener non gli potemmo mai ,
Tanto che forse di noi (i dorrai.
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CANTO QUARTO.
6S
24 Noi gli lasciammo presso a ana fonte,
Perchè pur quivi si fermorno a bere :
Quivi legali appiè gli abbiam del monte,
£ or di le venivamo a sapere.
Se rotta avevi al serpente la fronte ,
O da lui morto restavi a giacere.
Disse Rinaldo : Pe’ cavalli andiamo ,
E tra noi scusa, Ulivier, non facciamo.
25 Rilrovorno ciascuno il corridore ;
Dicea Rinaldo : Or da toccar col dente
Non credo che si trovi, insin che fore
Usciam del bosco, o troviamo altra gente:
Cosi stessi lo, Carlo imperadore,
Che vuoi eh’ io vada pel mondo dolente ;
Cosi stessi lo, Gan, com’io sto ora,
IVIa forse peggio star ti farò ancora.
26 E cosi cavalcando con sospetto,
Rinaldo si dolea del suo destino,
E quel lione innanzi va soletto.
Sempre mostrando a costoro il cammino :
£ poi ch’egli hanno salito un poggelto,
Ebbon veduto un lume assai vicino ;
Che in una grotta abitava un gigante,
E un gran fuoco s’ avea fatto avante.
27 Una capanna di frasche avea fatto.
Ed appiccalo a una sua caviglia
Un cervio, e della pelle l’avea tratto:
Sente i cavai calpestare , e la briglia :
Subito prese la caviglia il matto,
Come colui che poco si consiglia:
A Ulivieri, furioso più eh’ orso.
Addosso presto la bestia fu corso.
28 Ulivier vide quella mazza grossa,
£ del gigante la mente superba;
Volle fuggirlo: intanto una percossa
Giunse nel petto si forte ed acerba,
Che bench’avessi il baron molta possa.
Di Vegliantin si trovava in sull’erba.
Rinaldo quando Ulivier vide in terra.
Non domandar quanto dolor l’ afferra.
8 *
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66
IL MOBGANTE MAGGIORE.
29 E disse: Ribaldon, ghiotton da forche,
Che mille volte so 1* hai meritale ;
Prima che sotto la luna si corche,
10 ti meriterò di tal derrate.
Questo bestion con sue parole porche
Disse : A te non darò se non gotate :
Che se’ tu tratto del cervio all’ odoref
Tu debb’ essere un ghiotto o foratore.
50 Rinaldo, eh’ avea poca pazienza,
Dette in sul viso al gigante col guanto ;
£ fu quel pugno di tanta potenza,
Che tutto quanto il mostaccio gli ha infranto;
Dicendo: Iddio non ci are’ sofferenza.
Pure il gigante, riavuto alquanto,
Arrandellò la caviglia a Rinaldo,
Che d’ altro che di Sol gli vuol dar caldo.
31 Rinaldo il colpo schifò molto destro,
E fe Baiardo saltar com’ un gatto ;
Combatter co’ giganti era maestro.
Sapeva appunto ogni lor colpo ed atto ;
Parca il randello uscissi d’ un balestro :
Rinaldo menò il pugno un altro tratto ;
E fu si grande questo mostaccione.
Che morto cadde il gigante boccone.
52 E poco meno e’ non fe, com’ e’ suole
11 drago, quando uccide il leofante.
Che non s’avvede, tanto è sciocco e fole.
Che nel cader quell’ animai pesante
L’ uccide, che gii è sotto, onde e’ si duole ;
Cosi Rinaldo a questo fu ignorante,
Chè quando cadde il gigante gagliardo,
Ischiacciò quasi Rinaldo e Baiardo.
33 E con fatica gli usci poi di sotto,
E bisognò che Dodon l’ aiutassi.
Disse Rinaldo: Io non pensai di bollo
Cosi il gigante in terra rovinassi,
Ond’ io n’ ho quasi pagato lo scotto :
E’ disse eh’ all’ odor d’ un cervio trassi :
Alla sua capannetta andiamo un poco.
Dove si vede colassù quel fuoco.
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CANTO QOABTO.
34 Allor tutti smontaron dell' arcione,
Alla capanna furono avviati,
Vidono il cervio ; diceva Dodone :
Forse che mal non sarem capitati.
Fece d’ un certo ramo uno schidone.
Rinaldo intanto tre pani ha trovati,
E pien di strana cervogia un barlotto,
E disse : Il cervio mi sa di biscotto.
36 Erano i pan com’ un fondo di tino.
Tanto eh’ a dirlo pur mi raccapriccio :
Disse Rinaldo: Se c’è ’l pane e ’l vino,
Ch’aspettiam noi, Dodon? qui sa d’arsiccio.
Dicea Dodone: Aspetta un tal pochino.
Tanto che lievi la crosta so ’l riccio.
Disse Rinaldo: Più non l’arrostiano,
Chè ’l cervio molto cotto è poco sano.
36 Disse Dodone: l’t’ ho inteso, Rinaldo;
Il gorgozzol ti debbe pizzicare;
Se non è cotto, e’ basta che sia caldo:
E cominciorno del cervio a spiccare :
Rinaldo sei mangiava intero e saldo.
Se non che la vergogna il fa restare;
E de’ tre pan fece paura a uno,
Chè col barlotto non beve a digiuno.
37 Poi che fu l’alba in levante apparita.
Si dipartiron da quella capanna.
Dicea Dodon: Questa fu buona gita.
Poi che dal ciel sopravvenne la manna,
E quel gigante ha perduta la vita :
Vedi che pure ingannato è chi ’nganna.
Quel bacalare, Ulivier, ti percosse
A tradimento, or si sta per le fosse.
38 Disceson di quel monte alla pianura,
E il lor lione innanzi pure andava ;
Dicea Rinaldo: Questa è gran venterai
£ Ulivier con lui se n’ accordava :
Tanto eh’ uscirno d’ una valle oscura ,
Ove poi nel dimestico s’ entrava ;
Cominciorno a veder casali e ville,
E sopra campanii gridar le squille.
08
IL HORGANTE MAGGIORE.
39 E poco tennon più oltre il cammino,
Che cominciorno a trovar de’ pastori
Presso ad un Dame, ch’era lor vicino,
E poi sentiron gran grida e romori :
Baiardo aombra, e cosi Yegliantino:
Ed ecco uscir d’ una vailetta fuori
Una gran turba, che s’era fuggita,
E a veder parea gente smarrita.
40 Rinaldo allora a Dio si raccomanda ;
E ’ntanto appresso s’ accosta un Pagano :
Allor Dodon di subito domanda :
Che caso è questo in questo luogo strano,
Che par che tanto romor qua si spanda?
Per cortesia, non vogli esser villano.
Rispose il Saracin presto a Dodone :
10 tei dirò, e non sanza cagione.
41 Del mio dir so che ti verrà pietade :
Per una figlia nobile e serena
Quasi è disabitata una cittade,
Perch’ una vipra crudel ci avvelena :
11 Re Corbante, per la sua boutade.
La sua figliuola detta Forisena
A divorar vuol dare a questa fiera ;
La sorte tocca a lei , vuol che lei pera.
42 E di noi altri ha già mandati assai :
Ognidì ne vuol due, sera e mattina.
Dimmi, rispose Rinaldo, stu sai.
Questa cittg com’ ella c’ è vicina?
Rispose il Saracin: Tu la vedrai
Tosto la terra misera c meschina ;
Ma guarda che tal gita non sia amara ;
Ella è qui presso, e chiamasi Carrara.
43 lo ve n’ avviso per compassione,
Ch’ i’ ho di voi per Macometlo Iddio,
Che voi non vi lasciate le persone.
Poi che d’ andarvi mostrale desio;
La città troverete in perdizione,
E mollo malcontento il signor mio.
Per questa cruda fiera e maladetta.
Che debbo divorar la giovinetta.
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CANTO QCABTO.
44 Com’egli è dì, se ne viene alle porte:
Se da mangiar non gli è portato tosto,
Col tristo fiato ci conduce a morte :
Convien eh’ un uom gli pogniam là discosto.
Questa fanciulla gli è tocca la sorte,
E '1 padre suo di mandarla ha disposto:
Il popol grida, e quella fiera rugge.
Tanto eh’ ognun per paura si fugge.
45 Credo che sia sol pe’ nostri peccati ,
Perchè Corbante uccise un suo fratello,
Che fu tra noi de’ cavalier nomati
Il più savio, il più giusto, forte e bello;
Noi consentimmo a tutti questi aguati,
Però che il regno apparteneasi a quello :
La vipera è venuta a purgar certo
Questo peccalo, e rendeci tal merlo.
46 Ed è tra noi chi tiene opinione.
Che lo spirito suo drente vi sia
In questa fiera di questo garzone.
Disse Rinaldo: Di tua cortesia
10 ti ringrazio, aiutiti Macone
Da questa fiera fella c tanto ria ;
Ma dimmi, Saracin, questa donzella
Com’ella è giovinetta, e s’ell’è bella?
47 Disse il Pagali: Non domandar di questo,
Chè non si vide mai cosa si degna ;
Un atto dolce, angelico e modesto.
Di virtù porta e di beltà l’ insegna ;
Ne’ quindici anni entrata, e va pel resto.
11 popol pur di camparla s’ ingegna:
Se tu credessi questa bestia uccidere.
Tu puoi far conto il reame dividere.
48 Disse Rinaldo : Io non cerco reame.
Io n’ ho lasciati sette in mio paese ;
Io mi diletto un poco delle dame ;
Se così bella è la figlia cortese,
A quella fiera taglierò le squame.
E poi si volse al famoso marchese,
E disse: Andianne, chè la dama è nostra,
Alla città che ’l Saracin ci mostra.
70
IL HORGAMTB MAGGIORE.
49 Com’ e’ fumo in Carrara i paladini ,
Ognun volgeva a guardargli le ciglia ;
Preson conforto tulli i Saracini,
£ del lion ne prendean maraviglia.
Rinaldo giunse al palagio a’ confini,
£ salutò Corbante, e poi la figlia ;
Corbante disse: Tu sia il ben venuto,
Se per la fiera a dar mi vieni aiuto.
50 Allor Rinaldo rispose : O Corbante,
11 nome mio è ’l guerrier del lione,
£ credo in Apollino, e Treviganle,
£ non vorrei pel nostro Iddio Alacone
Avere a capitar certo in Levante,
Poi eh’ io senti’ della tua passione.
Quel disse forte, e quest’ altro bisbiglia:
Anzi poi eh’ io senti’ della tua figlia.
61 Ulivier gli occhi alla donzella gira.
Mentre Rinaldo in questo modo parla;
Subito pose al berzaglio la mira,
£ cominciò cogli occhi a saettarla,
£ luttavolta con seco sospira:
Questa non è, dicea, carne da darla
A divorare alia fiera crudele.
Ma a qualche amante gentile e fedele.
62 Corbante avea intanto cosi detto :
Sia chi tu vuoi, o famoso guerriere.
Basta sol che tu credi in Macometto :
Se tu credessi, gentil cavaliere.
Uccider questa fiera, io ti prometto
Di darli mezzo il reame e l’ avere :
£ se tu ’l vuo’ ancor tutto, i’ son contento,
Pur che mi tragga fuor d’ eslo tormento.
63 Come tu vedi, la terra è condotta,
D’ un bel giardino, spelonca o diserto :
La mia figliuola, s’appressa già l’otta.
Che morir dee sanza peccato o merlo.
Ma Ulivier nella mente borbotta:
Non mangerà si bianco pan per certo
Quest’ animai, ch’egli è pasto da amanti.
Se noi dovessim morir lutti quanti.
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cìnto quarto.
71
64 Dimmi pur (osto qual sia il loo pensiero,
Diceva il re, eh’ eli’ è presso alle mura.
Ch’io sento il fiato incomportabil, fiero,
E voi ’l dovete sentir per ventura.
Disse Rinaldo: lo non vo’ re^no o impero;
Per gentilezza caccio e per natura;
£ per amor della tua figlia bella
La vipra ucciderem crudele e fella.
65 lllivier era un gentil damigello,
E tuttavia la fanciulla vagheggia ;
Rinaldo l’occhio teneva al pennello.
Con Ulivieri in francioso motteggia:
Disse : Il falcone ha cavalo il cappello.
Non so se starna ha veduto, o acceggia;
Ma parrai questo chiaro assai vedere.
Che noi sarem due ghiotti a un tagliere.
66 Ulivicr nulla rispose a Rinaldo,
Abbassò gli occhi, che tenea si fissi:
Corbante un bando mandò mollo caldo.
Che nessun più della terra partissi.
Tanto che il popol comincia a star saldo:
Rinaldo volle cosi si seguissi ;
£ fece fare un guanto, s’ io non erro.
Coperto tutto dì punte di ferro.
67 E prese poi da Corbante licenzia.
Che gli fe compagnia fino alla porla,
Con molla gente e con gran reverenzia ;
Poi gli diceva : Io non son buona scorta ;
Io lì ricordo, tu abbi avvcrienzia
Alia tua vita ; e cosi lo conforta :
£ in ogni modo te salvar mi piace.
Poi sia che vuol della fiera rapace.
68 Queste parole furon grate tanto,
Che se l’ affìsse Rinaldo nel core ;
£ disse: Il capo arrecarti mi vanto
In og ni modo, cortese signore:
La tua benedizion mi dà col guanto,
Conforta il popol tuo per nostro amore.
Corbante il benedi pietosamente,
E priega Iddio per lui divolamente.
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72
IL HOKGANTE MAGGIORE.
69 E Ulivierì ancor fece orazione,
Raccomandossi al Salvator divino :
Dinanzi andava il feroce lionc,
Verso la fiera teneva il cammino;
Drieto seguiva Rinaldo e Codone :
Era a vedere il popol saracino,
Chi in sulle mura, e chi presso alle porle,
Desiderando all’ animai la morte.
60 E la fanciulla con faccia serena
Era salita in sur una bertesca ;
Disse Rinaldo: Vedi Forisena,
0 Ulivier, che di te par gl’ incresca.
Amore è quel eh’ a vederti lei mena.
Ulivier disse : La danza rinfresca ;
Tu hai disposto di darmi oggi'noia;
Allendiam pur che questa fiera muoia.
6t Dicea Rinaldo: Sarai tu si crudo.
Che tu non guardi questa damigella?
Tu non saresti d’ accettar per drudo ;
Che credereste far, se la donzella
Avessi in braccio per tua targa o scudo.
Atterreresti tu la fiera , o quella?
Disse Ulivier: Tu se’ pur per le ciance,
E qua sa d’ altro già che melarance.
62 E come e’ disse questo, il lion mostra
11 serpente, che fuoco vomitava.
Disse Ulivier : Questa è la dama nostra ,
E di vederla, Rinaldo, mi grava.
Disse Rinaldo: 0 Ulivier, qui giostra
Venere e Marte ; e di nuovo cianciava.
La vipera crudel tosto si rizza,
E fuoco e tosco per bocca gli schizza.
63 Parca che l’aria e la terra s’accenda,
Rinaldo aveva spugna con aceto,
E tutti, perchè il fiato non gli oflenda;
E disse : 0 animai poco discreto.
Che pensi tu, che no’ siam tua merenda.
Poi che tu vieni in qua contra divieto?
E detto questo, del cavallo scese,
E cosi fece Dodone e ’l marchese.
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CANTO QUARTO.
73
6( Non fu prinaa smontalo di Baiando,
Ch’ a Dodon giunse 1’ animale addosso ;
Dettegli un morso si fiero e gagliardo,
Che l’arme gli schiacciò, la carne e I’ osso.
Dodon gridava: Omè lasso, ch’io ardo;
Aiutami, Ulivier, che più non posso;
E cadde tramortito, e stramazzato
Subito in terra pel morso e pel fiato.
65 Ulivier lardi aiutarlo si mosse,
£ a Dodon non potè dar soccorso ;
Adunque il primo ch’assaggia si cosse.
Ed anco c’è per un compagno un morso:
Perché il serpente un tratto il capo scosse,
E poi pigliava Ulivier com’ un torso ;
E per ventura alla gamba s’appicca,
£ i denti lutti nell’ arme gli ficca.
66 E’ si senti I’ arnese sgretolare.
Che non isgretolò mai osso cane ;
£ poi pel braccio lo volle ciulTarc :
Ma Ulivieri adopera le mane,
Ch’ avea quel guanto Rinaldo fe fare:
E non è tempo a questo, dar del pane,
0 dir che San Donnin gli alleghi i denti,
Chè converrà pur che faccia altrimenti.
67 Missegli il guanto e la man nella strozza.
Però che molto lo sgrida Rinaldo,
Tanto che lutto il serpente lo ’ngozza,
E strinse ; e Ulivier lo tenne saldo,
E colla spada la lesta gli mozza :
Ma nel morir, pel fetore e pel caldo,
Ulivier cadde tramortito in terra;
Ma il capo del serpente non si sferra.
6S Che, nel finir, la bocca in modo strinse,
Ch’ Ulivier trar non ne potè la mano:
Rinaldo lutto nel viso si tinse,
li) sferrar lo credette a mano a mano ;
Ma non polea, tanto il dolor lo vinse
Del tristo caso d’ Ulivieri e strano :
Pur tante volte la spada v’accocca.
Che gliel cavò con ftalica di bocca.
7
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74
IL MORGANTE HAGGIOBB.
69 Ma quel lion, «h’egli avevan menato,
Si stette sempre di mezzo a vedere,
Perchè, se fossi da alcun domandato
Di questo fallo, il voleva sapere.
Era Dodon già di terra levalo.
Ma Ulivier pur si stava a giacere;
1 Saracin corrien fuor della porta.
Facendo festa che la fiera è morta.
70 Venne Corbanle con molla brigata,
A veder come questo fallo er’ ilo ;
Vede la bestia in terra rovesciala.
Vede Dodon sanguinoso e ferito ;
Vede Ulivier colla mano affocala.
Che morto gli parca, non tramortito;
Vede la terra per la fiera arsiccia ,
Della qual cosa assai si raccapriccia.
71 Vede la testa del fiero dragone.
Che gli parve a veder mirabil cosa ;
Vede Rinaldo turbato, e Dodone,
Perch’ Ulivieri in terra si riposa ;
Ebbe di questo gran compassione;
Vedovagli la gamba sanguinosa,
E non sapea con che parole o gesti
Si condolessi, o ringraziassi questi.
72 Abbracciò infin Rinaldo lacrimando ;
E poi Dodon, dicendo: Baron degni,
Come potrò mai ristorarvi, o quando?
Da Macon credo che tal grazia vegni.
Che in queste parli vi venne mandando ;
Ecco la vita e tulli i nostri regni,
E la corona collo scettro nostro ;
Disposto sono , ogni cosa sia vostro.
73 Ma sempre piangerò, se quest’ è morto.
Che par si degno e gentil cavalieri.
Disse Rinaldo: Re, dòtti conforto,
Chè pianger di costui non fa mestieri ;
Il tuo parlare assai ci mostra scorto
Che tu sia grato, e giusti i tuoi pensieri:
La tua corona e ’l regqo l’ accettiamo,
E come nostro a te lo ridoniamo.
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CANTO QUARTO.
74 Non aveva Rinaldo appena dello,
Ch’ Ulivier cominciossi a risentire ;
£ risenlito, il re veggendo appello
£ tanta genie, cominciò a stupire.
Come chi nuove cose per obbietto
Vede in un punto, e non sa che si dire:
Ma appoco appoco rivocò la vita,
£d ogni ammirazion fu dipartila.
75 Al popolo era orrore e maraviglia,
Veggendo quel c’ han fallo i paladini ;
£ra venuta, per veder, la fìglia
Del re Corbanle con que’ Saracini ,
Che ’i Sol, quand’ è più lucente, simiglia,
£ tutti gli atti suoi paion divini : \
£ Ulivier questa donzella guarda.
Che non s’ accorge ancor che ’l suo cor arda.
76 II re Corbanle al popol comandava
Ch’ alla città portato sia il serpente ;
£ poi Rinaldo per la man pigliava,
£ torna alla città colla sua gente:
£ come e’ giunse alla terra, ordinava
Di lasciar parte d’ un tanto accidente
Al secol nuovo ; e quella fiera morta
Col capo fe appiccar sopra la porta.
7 ; £ lettere scolpite in marmo d’ oro :
Nel tal tempo, dicea, qui capitorno
Tre paladini (e scrisse i nomi loro.
Perché in segreto gliel manifestorno).
Che liberarno il popol dal martoro
Per questa fiera, a cui morte donorno.
Ch’era apparila là mirabilmente,
£ divorava tutta la sua gente.
78 £ come il giorno alla fanciulla bella
Coccava di dover morir per sorte.
Che i tre baron vi capilorno in sella,
('.he liberata 1’ avean dalla morte.
Per lunghi tempi si potea vedella
l.a storia, e l’ animai sopra le porte.
Che cosi morto faceva paura
A chi voleva entrar dentro alle mura.
76
IL BfORGANTE MAGGIOBE.
79 E nel palagio Rinaldo menoe,
E grande onor gli fece lietamente;
E’ medici trovava, e comandoe
Che medicassin diligentemente
Ulivieri e Dodon, che bisognoe
Ch’ ognan più giorni del suo mal si sente;
E Forisene intanto, come astuta.
Dell’ amor d’ Ulivier s’era avveduta.
80 E perchè Amor malvolentier perdona,
Ch’e’ non sia alGn sempre amalo chi ama,
E non saria sua legge giusta e buona.
Di non trovar merzè chi por la chiama.
Nè giusto sire il suo servo abbandona ;
Poi che s’ accòrse questa gentil dama
Come per lei si moriva il marchese.
Subito tutta del suo amor s’ accese.
81 E cominciò cogl occhi a rimandare
Indrielo a Ulivier gli ardenti dardi,
Ch’ Amor sovente gli facea gittarc.
Acciò che solo un foco due cor ardi :
Venne a vederlo un giorno medicare,
E salulòl con amorosi sguardi :
Chè le parole fur ghiacciale e molle ,
Ma gli occhi pronti assai com’ Amor volle.
82 Quando Ulivier sentì che Forisene
Lo salutò cosi timidamente.
Fu la sua prima incomportabii pena
Fuggita, eh’ altra doglia al suo cor sente
L’ alma di dubbio e di speranza piena ;
Ma conHrmato assai par nella mente
D’ essere amalo dalla damigella :
Perchè chi ama assai, poco favella.
83 Videgli ancor, poi che più a lui s’accosta,
Il viso tutto diventar vermiglio, •
E brieve e rotta e fredda la proposta
Nel condolersi del crudele artiglio
Dell’ animai che per lei car gli costa, '
E vergognosa rabbassare il ciglio :
Questo gli delle massima speranza,
Chè cosi degli amanti è sempre usanza.
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CANTO QUABTO.
77
84 Ella avea dello: Il mìo crudo desiino,
I fall, il cielo e la spietala sorle,
0 qual si fossi allro voler divino ,
M’avean condolla a si misera morie;
Tu venisli in Levanle, paladino,
Mandalo cerio dall’ elerna corle
A liberarmi, e per te sono in vita :
Dunque io mi dolgo della lua ferita.
85 Queste parole avean passato il core
A Ulivieri, e pìen si di dolcezza,
Che mille volte ne ringrazia Amore,
Perchè conobbe la gran gentilezza :
Are’ voluto innanzi al suo signore
Morir, chè poco la vita più prezza,
E poco men che non dissi, niente ;
Pur li rispose vergognosamente.
86 Io non fe’ cosa mai sotto la luna.
Che d’ aver fatto ne sia più contento ;
S’ io t’ ho campata da si rea fortuna ,
Tanta dolcezza nel mìo cor ne sento.
Che mai più simil ne sentii alcuna :
50 che l’ incresce d’osni mio tormento;
Altro duol c’è, che chiama altro conforto:
Cosi m’ avessi quella fiera morto.
87 Intese bene allor quelle parole
La gentil dama, e drento al cor le scrisse,
51 presto insegna Amor nelle sue scuole;
E fra sè stessa sospirando disse :
Di quest’ altro tuo duolo ancor mi duole ;
Forse non era il me’ che tu morisse:
Non sarò ingrata a si fedele amante,
Ch’ io non son di diaspro o d’ adamante.
88 Partissi Forisena sospirando,
E Ulivier rimase tutto afflitto,
Della ferita sua più non curando,
Chè da più crudo artiglio era trafitto ;
Guardò Rinaldo, e quasi lacrimando,
Non potè a lui tener l’ occhio diritto ,
E disse : Vero è pur, che l’ nom non possa
Celar per certo l’ amore e la tossa.
7 *
Digilized by Coogic
78
IL HOBGANTE MAGGIORE.
$9 Come la vedi, caro fratei mio,
Amor pur preso al fìn m’ ha co’ suo’ artigli ;
Non posso più celar questo desio ;
Non so che farmi, o che partito pigli:
Cosi sia maladcllo il giorno eh’ io
Vidi costei : che fo ? che mi consigli ?
Disse Rinaldo: Se mi crederai,
Da questo loco li dipartirai.
90 Lascia la dama, marchese Ulivierì;
Non fu di vagheggiar nostra intenzione,
Ma di trovare il Signor del Quartieri ;
E ’l simiglianle diceva Dodone :
Tanto si cerchi per tutti i sentieri.
Che noi troviamo il Ggliuol di Milone :
Ulivier consentia contro sua voglia,
Chè lasciar Forisena avea gran doglia.
91 E poi che fu dopo alcun di guarito.
Cosi Dodone insieme s’ accordare
Lasciar Corhante per miglior partito,
E «he si facci de’lor nomi chiaro.
Si eh’ e’ possi saper chi 1’ ha servilo ;
E oltre a questo ancor deliberaro
Tentar se il re volessi battezzarsi
Col popol suo, e tutti Cristian farsi.
93 Avea Corhante falli torniamenli,
E giostre, e feste, e balli alla Moresca,
Per onorar costor colle sue genti ;
E ogni di nuove cose rinfresca.
Perché partir da Ini possin contenti :
Ma a Ulivier pur par che ’l suo amor cresca.
Finalmente Rinaldo un di chiamava
11 re Corhante, e in tal modo parlava.
93 Serenissimo re, fu il suo Ialino,
Perchè da te ci teniamo onorali
(Questo gli disse in parlar Saracino),
Sempre di te ci sarem ricordali ; .
E poi ch’egli è cosi voler divino.
Che i nomi nostri ti sien palesali,
Io son Rinaldo, e fui fìgliuol d’ Amone,
Bench’ io m’ appelli il guerrier del bone.
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CANTO QUABTO.
79
94 E questo è Ulivier, c’ha tanta fama,
E cognato è del nostro conte Orlando ;
Costui Dodon figlinol d’ Uggier si chiama,
Che venne Macometto già adorando :
Or per seguir più oltre nostra brama.
Cosi pel mondo ci andiam tapinando.
Perché di corte Orlando s’è partito,
. Né ritrovar possiamo ove sia gito.
95 Detto ci fu, che qua verso Levante
Era venuto da un nostro abate,
E ch’egli aveva con seco un gigante:
Cercando andiam drieto alle sue pedate.
Or ti dirò più oltre, o re Corbante:
Perché pur Macometto qua adorate.
Siete perduti, e il vero Iddio é il nostro,"
Che del vostro peccar gran segno ha mostro.
96 Non appari quest’ animai crudele
Sanza permission del nostro Iddio,
A divorare il popolo infedele;
Ma perch’egli é pietoso, e giusto, e pio,
T’ ha liberato da si amaro fele
Perché tu lasci Macon falso e rio :
Fa che conosca questo beniQcio,
Sanza aspettar da lui maggior giudicio.
97 Lascia Apollino e gli altri vani Dei,
E torna al nostro padre benedetto,
E Belfagorre, e mille Farisei;
Battezza il popol tuo, eh’ è maladetto:
Di ciò molte ragion l’assegnerei.
Ma tu se’ savio, e intendi con eflelto ;
So che conosci ben, che quel dragone
Non appari qua a te sanza cagione.
98 Ogni cosa l’ avvien pe’ tuo’ peccati :
Tu se’ il pastor che gli altri dèi guardare,
E molto più di te sono scusati :
Non l’ ha voluto Cristo abbandonare ;
Vedi eh’ a tempo qua fummo mandati ,
('he la tua figlia ha voluto salvare :
Dunque ritorna alla sua Santa Fede
Di quell’iddio, ch’ebbe di le merzede.
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80
IL HORGAN'TE MAGGIORE.
99 Parve che Iddio ispirassi il Pagano,
E rispose piangendo, e cosi disse:
Dunque tu se’ il signor di Montalbano,
Al qual simil giammai nel mondo visse I
£ questo è Ulivier, ch’udito abbiano
Nomar già tanto I 11 vostro Iddio permisse.
Che voi venissi certo, e non Macone:
E abbracciògli, e cosi ancor Dodone.
100 E pianse i suoi peccati amaramente ;
E disse: Io veggo, in quanto lungo errore
Istato son con tutta la mia gente.
E cosi il nostro eterno Salvatore
Per molte vie allumina la mente,
,,E desta in qualche modo il peccatore;
• *■ E spesso d’ un gran mal nasce un gran bene,
Ch’ ogni giudicio pel peccato viene.
101 Corbante fece venir Forisene,
E disse ancora a lei chi son costoro
Che l’avean liberata d’ ogni pena;
E poi mandò per tutto il concistoro,
Tanto che presto la sala fu piena.
Parala tutta di bei drappi d’ oro :
Poi sali in sedia, e fe tale orazione,
Che tutto il popol volse a sua intenzione.
102 E fece battezzar piccoli e grandi :
Per tutto il regno suo fu ordinato,
Ch’ ognun seguissi i suo’ precetti e bandi :
E poi eh’ ognun cosi fu battezzalo.
La fama par che per tutto si sbandi
De’ tre baron che vi son capitalo ;
Ma i nomi lor, quanto Rinaldo volle,
Celò Corbante a tutto il popol folle.
103 E riposàrsi alquanto a lor diporto,
E tolta la città facea gran festa,
Tanto del vero Iddio preson conforto,
Della sua grazia, e della sua potestà;
Come nell’ altro dir vi sarà porlo,
Dove la storia sarà manifesta ;
E priego il re della gloria infinita.
Che vi dia pace, e gaudio, e requie, e vita.
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CANTO QUARTO.
81
O T E.
2. Era nel tempo eh'ognun $’ in-
namora. Id primarera , stagiona che
alletta ad amare, e nella quale, come
disse il Petrarca ,
Ogni animai d’amar si rìconsiglia.
7. un gran lione. Dall’ aver sal-
valo questo lione assalilo dal feroce
drago, che gli fu poi guida e com-
pagno , prese Rinaldo il nome di Ca-
valier del Lioue. Questo episodio è
tolto da un romanzo di Chrcslien de
Troyes, poeta francese del XII secolo.
Jn questo romanzo, intitolato il Ca-
valier del Lione, Iveno trova un lione
alle prese con un drago; egli uccide
il drago, e il lione se gii fa compa-
gno, e più non l’abbandona. Il Poeta
francese descrive niinutamenle i segni
di riconoscenza dati dal lione al suo
liberatore in una strofa che piaccmi
riportare, come quella la quale, pei
tempi in che fu scritta , non manca
d’ona certa grazia :
Si qn'il li comanda a taira .
Saibblant qua a lui se rendoit;
Et aaa pié« jnina li aati-niliiit,
Envera terre rncliue sa chiere,
Stestut sur les Heux piés darrtera
Et puis si sa rajenoilluit
Et iute sa face moilluit
De larmes ec.
8. fiamme per bocca la’ dotte.
Son di parere che qui l’Autore abbia
adoperato a modo d’ aggettivo il so-
stantivo dòtta, che vale timore, paura,
dal verbo dottare, temere ; onde ver-
rebbe a dire che quel drago gettava
dalla bocca Gamme paurose, che face-
van paura. Circa l’origine di questa
voce il Bembo la vuol provenzale ,
sebbene il Menagio la faccia derivare
dal lat. dubito, che talvolta signiGca
anche temere.
fO. e rimaneva al verde. Cioè
agli estremi, al Gne. Dicesi anche es-
sere, 0 esser condotto al verde, tolta
la metafora da quella candela che si
tiene accesa quando si vende al pub-
blico incanto, e nel tempo che essa
brucia ognuno può offerire sull’ og-
getto che si subasta, ma quando essa
è consumata, nessnno può più offerire ;
la qual candela nsavasi in antico di
tingere all’estremo di verde-, onde di
una cosa che sia in sul Gnire^ dicesi :
la candela è al verde.
■19. maninconoto. Triste, afBitto ;
da malinconia , voce che viene dalle
due greche ^s>aiVT) (nera) e
(bile), quasi nera bile; chè atrabile
chiamarono gli antichi medici una
certa qualità di umori che suppone-
vano produrre la malinconia.
23. et hanno grattata la rogna.
Cioè ci han condotti in luogo dove gli
sterpi ci hanno lacerata la pelle, tal-
ché ci avrebbero grattata la rogna, se
noi ne fossimo stati malati. Rogna
viene, secondo il Menagio, da rubigo,
fatto poi robiginii, robigine, rogine,
rogina, e Gnalmente rogna, perchè
tal malattia che viene alla pelle è quasi
la ruggine dell’uomo.
27. caviglia. Lo stesso che cavic-
chia , ed è un piccolo legno Gtto nel
muro a guisa di chiodo , e viene dal
lat. clavut, 0 clavellut, piccolo chio-
do. Il Sansuvino, sopra il Decamerone,
fa derivare la voce cavigliuolo, dimi-
nutivo di caviglia, da capo, c pinolo.
29. ghiotlon da forche. Qui ghiot-
tone, come ghiotto in altri luoghi del
Boema, valgono, uomo di malaffare,
teele$tu$. voce italiana ghiotto de-
riva dalla latina giallo, usata fra gli
altri da Persio : JVec glutto , eorbere
salivam Mercurialem ; Sat. 5. — Io
ti meriterà di tal derrale. Ti ricom-
penserò in modo eguale a ciò che hai
fatto a me. Dicesi anche: render pan
per focaccia, o frasche per foglie. I
Greci dicevano 7iov fipuv. Der-
rata è tutto quello che ai contralta in
vendita, denariU venalU; dal latino
barbaro, ’denariata, d’onde anche il
francese denrie.
30. col guanto. Il guanto era quel-
la parte delle antiche armature che
cuopriva la mano ; onde dare il guanto
vale sGdare, invitare a battaglia, dal-
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82
li. MOUGANTE MAGGIORE.
1’ antico uso cavalleresco di gitlare il
proprio guanto al nemico offrendogli
ballaglia. Corradino, in sul morire,
gettò dal patibolo il guanto in mezzo
alla folla, invocando un vendicatore.
La voce guanto, che ora non significa
altro che la veste della mano, viene
dall’ antico tedesco tranle , da cui
nacque il latino corrotto wantut. In
latina barbaro chiamavasi con greca
voce chirotheca, cioè indumenlum
mamium. — mostaccio. Dal greco
/zJjTal, che signiiica il labbro supc-
riore , e ì peli che nascono sopra di
esso, cioè i baffi, i quali anche diconsi
mustacchi. La sopraddetta voce greca
viene dal verbo /luu, che vale pre-
mere, comprimere, e anche assentire,
dissimulare, lat. connivere, perchè
uno dei segni di assentimento, o di
connivenza, è un certo moto che si fa
colle labbra. Mostaccio poi non si dice
del viso dell’ uomo se non per ischer-
zo, 0 disprezzo. — Àrrandellò la ca-
viglia. Dette un colpo colla caviglia
servendosene a modo di randello. Il
randello, che comunemente prendesi
per qualunque pezzo di legno con cui
si voglia menar colpi ad altrui, è pro-
priamente quel bastoncello corto, pie-
gato in arco, che serve a serrar bene,
e stringer le funi colle quali si legan
le some, o simili cose. I Greci lo chia-
marono /jio’jjltov, d’onde Ipomoclio,
quasi quel punto vicino al moclion. Il
Menagio fa derivare questa voce da
ramni, a questo modo: ramus, ra-
midiu, ramdas, randut, randellut,
randello. E sarehb’cgli possibile che
la voce randaginc, c randagio, avessero
una simile origine , quasi venissero a
dire andare errando come gli uccelli
di ramo in ramo? — Che d’altro che
di Sol gli vuol dar caldo. Che lo vuol
far riscaldare non col Sole , ma colla
pugna, e cull’armi.
52. fole. Folle, per comodo della
rima. — a questo fu ignorante. Fu in
ciò poco avveduto. La scena che qui
è accennata , forma un piccalo ma
strano episodio del Mambriano del
Cieco da Ferrara. In esso Bradamante
uccide un gigante si smisurato, che
nel cadere ficca e sprofonda si nel
terreno un re saracino e il suo de-
slri^o, che mai non si poteron più
rinvenire.
Riferisce costei che nel caliere
Che fe il gigante sopra il re di Creta,
Tolto in lrrr .1 il licci) lui e h destriere,
Condncendolu in parte si segreta,
Che mai più nomo non potè saliere
Di ini novcila alcuna insta u lieta;
E che il gigante grande a dismisura
Non potè intrare in quella sepoltura.
Tutti gli autori accordano insieme,
Cile Galeano fu morto e sepolto
Di tal sciagura ec.
Canto Vili, SI. 34 e scg.
53. di botto. Botto signifìca colpo,
percossa, e nello stesso significato di-
cesi anche botta. Di botto, vale di colpo,
di subito.
F. Io stendardo pianlovvi di botto.
Aeiosto, Canto XXV, 68.
— ho quasi pagato lo scotto. Il desi-
nare , 0 cena che mangiasi nelle ta-
verne, da excoctum, quasi excoctus ci-
bus. I Latini dissero symbolum dare,
cd è il contrario di mangiare a ber-
tolotto. Pagar In scotto si usa anche
per pagare il fio del fallo commessa,
e in questo senso I’ usò Dante , Pur-
gai., Canto XXX:
L’alle fato di Dio sarebbe rutto
Se Lete si passasse, u tal vivanda
Fosse gustata sema alcuno scolto
Di pentimento che lacrime spanda.
Ed è tratta la metafora appunto dal
prezzo delle vivande. Se pnre non vo-
glia qui darsi a scotto il significato di
tributo di pentimento; cioè • senza
alcun tributo di pentimento ec. ; a chè
anche un altro Poeta usò pagare il fio
per render tributo :
E tanto a Giove o a Marte in valor cede.
Quanto il mare ad un rio che '1 6o gli rende.
36. Jl gorgozzul t> debbe pizzi-
care. Cioè: devi avere molta voglia
di mangiare. Il gorgozzule è la canna
della gola, detta con termine della
scienza l’esofago. Chiamasi anche gor-
ga, 0 gorgia, da gurges; onde gorgo-
gliare, che vale mandar fuori quel
suono che si fa gargarizzandosi, o fa-
vellando in guisa che si senta il suono
della voce senza far distinguere le pa-
role. Noi chiamiamo tal parte comu-
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CANTO QLABTO.
83
nemente ^ola, e i Latini dissero j^ur-
gulio , o eurculio la tignoola , quasi
animale formato di sola gola ; o Plauto
appropriò questo nome a quel parasito
protagonista d’una sua commedia, in-
titolata appunto il Cureulione. — fece
paura a uno. Se ne mangiò uno in-
tero ; ed eran pani della circonferenza
d’nn fondo di tino!
57. bacalare. Uomo di gran repu-
tazione ; qui detto per disprezzo, e per
derisione. In senso proprio bacalare è
10 stesso che baccelliere, cioè colui che
è graduato in armi o in lettere, e al
quale s’ usa porre in testa una corona
d’alloro, il che dicesi dar la laurea.
Credo che la voce bacalare venga dal
lat. batcalaureui , voce signiiicante
appunto baccelliere, e formata da tau-
rut e òocca; e non da ragut, d’onde
stiracchiatamente la fa derivare il Me-
nagio.
58. gridar le tquille. Suonar le
campane. La squilla c quel campa-
nello che si pone al collo degli animali
da fatica. Par che questa voce avesse
origino dalla tedesca $kel che ha lo
stesso signiCcato, e dalla quale nacque
11 Ialino barbaro tchella, come trovasi
nella Logge Satira, Gap. XXIX, Si
quii tehellam de caballit furaverit,
poi sobilla , e finalmente squilla , e il
verbo squillare che significa risno-
nare ,
d4. Quetla fanciulla. Costruisci:
c toccata la sorte a questa fanciulla.
47. e va pel rdilo. Intendi ; degli
anni, che seconda l’ordine naturale
potrebbe ancor vivere.
49. al palagio a' confini. A’ con-
fini del palazzo, al palazzo.
bf . potè al bersaglio la mira.
Modo proverbiale; gli messe, come
suol dirsi , gli occhi addosso ; comin-
ciò a riguardarla come fa il tiratore
al segno che deve colpire; il qual se-
gno appunto si chiama bersaglio da
vertaculum, come opina il Menagio,
quasi loeut circa quem vertanlur
ictui tagillariorum.
55. olla. Per ora , usalo anche
adesso nel nostro contado. — borbot-
ta. Va dicendo fra se.
55. l’occhio tenera al pennello.
Tener l’ occhio al pennello^ vale star
cauto, badare, Tztpovrusjitvoi uttou-
s'à^ctv. — Il falcone ha cacalo il
cappello. Modo proverbiale a deno-
tare l’ atto d’ Ulivieri in mirar la figlia
di Corbanle; atto simile a quello che
solean fare i falconi, quando sentendo
di lontano venir l’uccello, traevano il
capo fuor di quella coperta di cuoio,
chiamata cappello, e che si ponea loro
affiuebò non vedeaser lume , e non si
divagassero.
Qua^i falcone ch’esce dal cappello,
Huote la testa, e coll'ale a’ applaude.
Disse Dante. Da ciò suol dirsi degli
sparvieri , o simili animali , quando
sono agevoli e mansueti, a aspettare il
cappello, s Era usitatissima negli an-
tichi tempi la caccia col falcane , c i
grandi signori ne alimentavano a tale
oggetto gran numero. — acceggia. Se-
guila la metafora del falcone. Àccog-
gia è quella che comunemente chia-
miamo beccaccia, e dissesi acceggia da
acceia , che cosi la chiamarono i La-
tini, forse da Ky.ri (aciei), in riguardo
al suo lungo ed acuto becco , dal
quale anche i Greci la chiamarono
i/.o>uwaf, 0 K'Txoi.wTra? dalla voce
oyalo-i/ che significa paliccinolo acuto.
— due ghiotti a un tagliere. Lo stes-
so che due piccioni a una fava.
CO. berletca. Riparo di legname,
che facessi in antico sopra le torri ,
e viene dal tedesco bret, o òerf, che
significa asse ; e in Giovanni Villani
si legge : « E fecero steccati su per gli
fossi, e bertesche assai d’ogni legna-
me. » — La danza rinfretea. Rinco-
mincia a motteggiarmi.
CI . sa d'altro già eòe melarance.
Cioè, la cosa è seria, c da non burla-
re ; nè da pigliare a gabbo , avrebbe
detto Dante.
CC. daffare. Per acciuffare, tolte
le duo prime lettere , al modo dei Gre-
ci che dissero «vtóvupios e vuvu//.o?,
aVflòiTTov e v:a’Xtirov, e simili al-
tri.
79. menoe. Questo modo di ag-
. giungere una vocale in fine dello pa-
role terminanti per accento è sempre
in uso nel nostro contado.
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84
IL MORGANTB HAGGIOBE.
80. E perchè Amor tc. Amplia-
mento del Terso di Dante:
Amor, die ■ nollo amato amar perdona.
88. Celar per cerio l'amore e la
tona. Modo burlesco e popolare, che
mal a’ affé al patetico discorso d’Uli*
rieri. V’è anche un proverbio che
dice : ■ Amore , sonno e rogna non si
nascondono. •
00. il Signor del quartieri. Nel-
l’antico romanzo , intitolalo / Reali
di Francia, si narra che Milone d'An-
glante, bandito con sua moglie Berta
di Francia, si mise in viaggio alla
volta di Roma: ma giunto a Sutri, e
mancatogli di che seguitare il viaggio,
si ricoveri in una grotta che era presso
di quella citti, dove Berta partorì un
figlio, che fu il celebre Orlando. De-
liberato poscia Milone di tentar la for-
tuna, si parti di Sutri, lasciando Berta
io si estrema miseria, che era costretta
andare elemosinando col piccolo Or-
lando , il quale già mostrava corag-
gio 0 forza superiori all’età sua, tal-
ehé ne’ fanciulleschi giuochi si segna-
lava fra tutti i fanciulli suoi coetanei ;
i quali, tuttoché sovente vinti cd anche
battuti da lui , lo avevano come lor
capo, e faceangli parte di quanto essi
avevano. Ora avvenne, che essendo egli
coperto di rozzi e laceri cenci, quat-
tro di essi raccolsero denaro per ve-
stirlo, e due comprarono del panno
bianco, due del panno vermiglio, e
gli fecer fare una veste a quartieri
bianca e rossa. Per il che, volendo
Orlando serbare di ciò memoria , usò
in appresso di portare sempre l’arma-
tura a quartieri , e volle esser chia-
mato col nome di Orlando dal quar-
tiere.
91 . Cosi Dodone insieme. Vale,
insiem con Dodone.
92. lorniamenli, E giostre. Tor-
niamento o torneo era una specie di
pubblico festeggiamento, che consi-
steva in varii spettacoli militari. La
giostra poi è, al dire del Buti, quando
nn cavaliere vien contro all’altro, ov-
ver corre con l’ aste broccato col ferro
di tre punte, ove non si cerca vittoria
se non dello scavalcar l’un l’altro.
Circa le varie etimologie di questa
voce, vedi Menagio.
95. /u il suo latino Latino per
discorso, oratto. Dante disse :
Mi moRne la ’n6amma1a c»rte«ia
Di Fra Tummaao, e '1 di^rutu latino.
102. ss sbandi. Sbandarsi vale
dispergersi , andar chi in qua chi in
la. Qui figuratamente per diffondersi.
— capitalo. Capitato invece di capi-
tati per comodo della rima.
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83
CAIVTO QlJllliTO.
assedi»
Dal re Corbante fanno dipartenza
I (re confedfrati paladini,
E Ulivier con poca coscienza
Lascia che Foriscna si tapini ;
Da una Bnestra con piena avvertenza
Ella si ijetta agli ultimi destini.
Malagigi il cavai toglie a Rinaldo,
Che manda ai morti nn mostro per castaido.
1 Pura colomba piena d’umiltade,
In cui discese il nostro immenso Iddio
A prender carne con umanilade,
Giusto, santo, verace, eterno, e pio;
Donami grazia, per la tua boutade,
Ch’ io possi seguitare il cantar mio,
Pel tuo JoseflTo, e Giovacebino, ed Anna,
E per colui che nacque alla capanna.
3 Rinaldo, e '1 suo Dodone, e ’l gran marchese,
Gran festa fanno co’ nuovi Cristiani:
E battezzato è già tutto il paese
Del re Corbante, e’ suo’ primi Pagani :
E Ulivier per la dama cortese
Ognidì fa mille pensieri strani,
Ed ora in torniamenti, ed ora in giostra.
Per piacere a costei, gran forza mostra.
3 E benché assai lo pregassi Rinaldo,
Non si poteva accomiatare ancora,
Chè la donzella lo teneva saldo,
Com’ àncora la nave tien per prora:
Quanto è più offeso il foco, è poi più caldo;
Cosi più sempre Ulivier s’innamora.
Quanto Rinaldo il partir più sollecita;
Ed ogni scusa gli pareva lecita.
I. 8
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86
IL MORGANTE MAGGIORE.
4 Quando fìngea non esser ben guarito,
Quando fìngea quaich’ altra malattia :
E dicea il ver, ch’egli è nel cor ferito;
Quando pregava, quando promettia:
Doman ci partirem, preso ho partito.
Lasciara costar nel nome di Maria,
E Ulivier cosi morire amando,
E ritorniamo ov’ io lasciai Orlando.
b Meridiana la dama gentile
Manda a saper, se volea la battaglia
A corpo a corpo, con almo virile.
Orlando dice : Io non vesto di maglia
Per contestare una femmina vile,
Ch’i’ prezzo men eh’ un bisante o medaglia.
Sicché per questo, e pel suo Lionetlo
Troppo si duol costei di Macometto.
6 Dicendo : Almen facessimi morire.
Poiché sprezzata son da quel villano ;
Ché mai più ebbe cavaliere ardire
Combatter meco colla lancia in mano.
Ma in questo tempo si facea sentire
La fama del signor di Montalbano,
Come Corbante avea seco un barone,
Che si chiamava il guerrier del bone.
7 E ch’egli er’nom eh’ avea molto potere,
E come morto ha il serpente feroce.
Meridiana a un suo messaggicre
Impose, e disse, ch’andassi veloce
Al re Corbante, e Taccigli assapere.
Come per lutto é vulgata la boce
Di questo cavalier, ch’é tanto forte.
Il qual con seco teneva in sua corte.
5 £ come Manfredonio alla sua terra
Ha posto il campo con crudele assedio,
E tuttavia con sua gente la serra,
E non ha ignun per tenerla più a tedio ,
Ch’ a corpo a corpo con lei voglia guerra ;
Che gli dovessi mandar per rimedio
Questo guerrier eh’ avea tanta possanza ,
Per parentado antico ed amislanza ;
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CANTO QOINTO.
87
9 Però che già per tulio l’ oriente
La fama di costui mollo sonava.
11 messaggier n’ andò subitamente,
Al re Corbante si rappresentava.
E spose la ’mbasciata saviamente;
Perchè Corbante a Rinaldo parlava,
Come il re Carador quel messo manda,
E la sua Gglia a lui si raccomanda.
'IO Se tu credessi da questo martoro
Liberar la donzella, io ti conforto,
Dicea Corbante , andare a Caradoro ;
Però eh’ io so che Manfredonio ha il torlo,
£ ha menato lutto il concistoro ;
Forse, se Ga da te punito e morto,
Re Caradoro si batlezzerae.
Come ho fati’ io, e Cristo adorerae.
11 Rinaldo dall’abate prima intese,
Che in quel paese avea mandalo Orlando ;
Rispose, A Manfredon, molto cortese,
La testa leverò con questo brando,
O re Corbante ; eh’ a si giuste imprese
Sarò sempre disposto al tuo comando.
Dicea Corbante : Caradoro è antico
Parente nostro, e discreto all’amico.
12 Disse Rinaldo: Or rispondi al valletto.
Che per amor di te ne son contento;
Efl ho speranza, e cosi gli prometto,
Di salvar la sua gente fuori e drento ;
E Manfredonio il campo a suo dispetto
Leverà presto, e le bandiere al vento.
Corbante il ringraziò benignamente
Delle parole, che si grate sente.
-13 E poi si volse al messo saracino :
Dirai, che volentier la impresa piglia,
A Caradoro, questo paladino,
E del suo ardir si farà maraviglia :
Sia chi si vuol del popol d’ Apollino,
Ch’ a nessun questo volgerà la briglia ;
Se fossi Orlando, quel c’ha tanta fama,
Noi temerebbe ; cosi di alla dama.
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88
IL HORGANTE MAGGIORE.
u Vedi il lion che tuttavia l’aspetta:
Non è baron, di cui nel mondo dotti;
Vedi que’ due che son là di sua sella :
Questi fanno assai fatti, e pochi motti.
Il messaqqier si dipartiva in fretta :
Corbante disse, che voli, e non trotti:
Tanto che presto tornò a Caradoro,
E riferì come e’ vengon costoro.
-16 E che parca quel guerrier del bone
Un uom mollo famoso in vista e forte,
E d’ Ulivier diceva e di Dodone :
Non è baron, Caradoro, in tua corte
Da metterlo con questi al paragone ;
Corbante dice, che tu ti conforle.
Perchè colui che si chiama il guerriere.
Non temerebbe Orlando in sul destriere.
-16 Rinaldo da Corbante accommiatossi ,
E molle otferle fece al re pagano.
Che sempre sare’ suo , dovunque e’ fossi ;
Nè anco il re Corbante fu villano
Alla risposta: e cosi si son mossi,
E benedetti, e baciati la mano:
E Ulivieri avea potuto appena
Addio piangendo dire a Forisena.
il La qual veggendo partire Ulivieri,
Avea più volle con seco disposto
Di seguitarlo, e falli stran pensieri, ‘
Nè potè più il suo amor tener nascosto;
E la condusse quel bendato arcieri.
Per veder quanto Ulivier può discosto,
A un balcone, e I’ arco poi disserra.
Tanto che questa si gittava a terra.
ii II padre suo, che la novella sente.
Corse a vederla, e giunse ch’era morta:
Alla sua vita non fu si dolente :
E intese ben quel che ’l suo caso imporla,
E come Amore è quel che lo consente ;
E se non fusse alcun che lo conforta,
E chi la mano e chi ’l braccio gli piglia.
Uccider si volea sopra la figlia.
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CANTO QUINTO.
89
19 E dicea: Lasso, quanto fui contento
Quel di che morta l’aspra fera vidi,
Ed or tanto dolor nel mio cor sento :
E cosi vuogli. Amor, cosi mi guidi?
Ogni dolcezza volta m’ha’ in tormento :
O mondo, tu non vuoi che in te mi lidi:
Lasciato m’hai, o misera fortuna.
Afflitto vecchio e senza speme alcuna.
20 Fece il sepulcro a modo de’ Cristiani ,
E missevi la bella Forisena,
E lettere intagliò colle sue mani,
Come fu liberata d’ ogni pena
Da tre baron di paesi lontani ;
E come a morte it suo destin la mena
Pur finalmente, come piacque a Amore,
Nel dipartirsi il suo caro amadore.
21 Non si può tor quel che ’l ciel pur destina:
Il mondo col suo dolce ha sempre amaro;
Questa fanciulla cosi peregrina
li troppo amare at fin gli costa caro.
E Ulivier pe’ boschetti cammina ,
E non sa quel che gli sare’ discaro,
E chiama Forisena notte e giorno.
In questo modo più di cavalcorno.
33 Un giorno in un crocicchio d’ un burrone
Hanno trovalo un vecchio molto strano.
Tutto smarrito, pien d’afflizione.
Non parea bestia, e non pareva umano:
Rinaldo gli venia compassione :
Chi fìa costui? fra sé diceva piano;
Vedea la barba arruffata e canuta ,
Raccapricciossi, e da presso il saluta.
23 E’ gli rispose facendo gran pianto.
Per modo eh’ a Rinaldo ne ’ncrescea :
Per la bontà dello Spirito Santo,
Abbi pietà della mia vita rea ;
Uscir di questo bosco non mi vanto.
Se non m’aiuti (e del tristo facea);
Lasciami un poco in sui cavallo andare.
Per queir Iddio che ti può ristorare.
8 *
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00
IL MORGANTE UAGGIOBE.
24 Rinaldo disse : Mollo volentieri,
Chè tu mi par, vecchierei, mezzo morto;
E subito si getta del destrieri,
Perché e’ vi monti, e pigliassi conforto.
Intanto viene Dodone e Ulivieri,
Rinaldo dice questo fallo scorto.
Disse Dodon : Tu se’ mollo cortese;
E del cavai, per aiutarlo, scese.
25 Rinaldo tien Boiardo per la briglia,
E Dodon piglia questo vecchio antico ;
Baiardo allor mostrò gran maraviglia,
E ’l vecchio schiva come suo nimico :
Rinaldo strette le redini piglia,
E Dodon pure aiuta come amico :
Baiardo allor più le redini scuote.
Ed or col capo, or co’ calci percuote.
26 Ma poi che pur si lasciò cavalcare,
Quel vecchierei, come e’fussi una foglia,
Tenea la briglia, e facevai tremare ;
Poi correr lo facea contr’ a sua voglia.
Disse Rinaldo a Dodon : Che li pare?
10 dubito che mal non ce ne coglia ;
11 vecchio corre, e non mi pare or lasso,
Chè non parea da dover ir un passo.
27 Dismonla, o Ulivier, di Vegliantino :
Ulivieri scendeva da cavallo;
Rinaldo drieto pigliava il cammino
A questo vecchio, e cominciò a sgridallo:
Aspetta, tu ti fuggi, can mastino,
Si che tu credi in tal modo ruballo ;
Ma nulla par che con quel vecchio avanzi.
Che sempre più gli spariva dinanzi.
28 E Vegliantin sudava per l’ affanno,
E va pel bosco che pare uno strale :
Disse Rinaldo: Vedrai bell’inganno,
Chè questo vecchio par che metta l’ale;
Io fu’ por matto, ed arommene il danno;
E chiama, e grida, ma poco gli vale:
Colui correa come leopardo.
Anzi più forte, s’egli avea Baiardo.
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CANTO QUINTO.
29 Ma poi ch’egli ebbe a sao modo beflato
Rinaldo, al fin se gli para davante,
E ’n su ’n un passo del bosco ha aspellato
Veglianlin tanto mostrava le piante,
Che lo giugnea, e Rinaldo è infocato.
Disse Malgigi : Che farai, brigante?
Quando Rinaldo sentiva dir questo.
Lo riconobbe alla favella presto.
50 E disse ; Tu fai pur l’ usanza antica ;
Tu m’ hai fallo pensar di strane cose,
E dato a Veglianlin molla fatica.
Allor Malgigi in tal modo rispose :
Tu non sa’ ancora, innanzi ch’io tei dica,
Di questo testo, Rinaldo, le chiose.
Dodone in questo e ’l marchese giugneano
E Malagigi lor riconosceano.
51 Gran festa fecion tutti a Malagigi ,
D’ averlo in luogo trovato si strano.
Disse Malgigi: Io parti’ da Parigi,
E feci l’arte un giorno a Monlalbano;
Volli saper tulli i vostri vestigi ;
Vidi stavate in paese lontano,
E che portato avete assai periglio,
E bisognava e aiolo e consiglio.
32 Per questa selva, ove condotti siete.
Non trovereste da mangiar nè bere,
E senza me campati non sarete ;
Di questa barba vi conviene avere.
Che vi torrà e la fame e la sete ;
Vuoisene in bocca alle volle tenere.
E dette loro un’erba, e disse: Questa
Usate insino al fin della foresta.
33 Mangiaron tutti quanti volentieri
Dell’erba che Malgigi aveva detto,
E missonne poi in bocca anco a’ destrieri,
Ch’ era ciascun dalla sete costretto.
Disse Malgigi : Per questi sentieri
Serbatene, vi dico, per rispetto;
I dcstrier sempre troveran dell’erba.
Ma questa per la sete si riserba.
92
IL MOHGANTE MAGGIORE.
31 Non vi bisogna d’ altro dubitare :
Con Manfredonio è il roman senatore
Orlando, e presto il potrete trovare.
E dette molle cose, un corridore
Subito fece per arie formare :
Tanto eh’ ognun gli veniva terrore,
Chè mentre ragionare altro volieno.
Appari quivi bianco un palafreno.
55 Disse Malgigi : Caro mio fratello,
To’ti Baiardo tuo, ch’io son fornito.
Kinaldo guarda quel cavai si bello,
E (licea : Questo fallo com’ è ito ?
Malgigi presto montò sopra quello,
E fu da lor come strale sparilo :
A tulli prima toccava la mano,
E ritornò in tre giorni a Montalbnno.
, >
56 Domila miglia al nostro modo o piue
Era da Montalban, si Iruova scritto,
Dal luogo dove accommiatato fue
Rinaldo, e ’l suo fratei lasciava afflitto,
E molle volte ha chiamato Gesue,
Che lo conduca per senlier diritto :
E già sei giorni cavalcalo avia
Drieto al lion che mostra lor la via.
37 II sesto di questo baron gagliardo
In un oscuro bosco è capitalo.
Sente in un punto fermarsi Baiardo ;
Vede il lion che ’l pelo avea arriccialo,
E che faceva mollo Qero sguardo,
E Veglianlin parea tutto adombrato:
Il cavai di Dodon volea fuggire,
E raspa, e soffla, e comincia a nitrire.
38 Disse Rinaldo: O Dio, che sarà questo?
Questi cavalli han veduta quaich’ ombra.
Intanto un gran romor si sente presto.
Che le lor menti di paura ingombra ;
Ecco apparire un uom mollo foresto.
Correndo, e ’l bosco attraversava, e sgombra:
E fece a tulli una vecchia paura,
Chè mai si vide più sozza ògura.
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CANTO QCINTO.
93
39 Egli avca il capo, che parca d’ un orso,
Filoso e fiero; e’ denti come zanne,
Da spiccar netto d’ ogni pietra un morso ;
La lingua tutta scagliosa, e le canne;
Un occhio avea nel petto a mezzo il torso
Ch’era di fuoco, e largo hen due spanne;
La barba tutta arricciata e’ capegli;
Gli orecchi parean d’ asino a vedegli.
40 Le braccia lunghe setolute e strane,
E ’l petto e ’l corpo piloso era tutto ;
Avea gli unghion ne’ piedi e nelle mane,
Che non portava i zoccol per 1’ asciutto,
Ma ignudo e scalzo, abbaia com’ un cane;
Mai non si vide un mostro cosi brutto:
E in man portava un gran baston di sorbo
Tutto arsicciato, e nero com’ un corbe.
41 Questo una buca sotterra avea fatto,
E sopra quella forato un gran masso;
Quivi si slava e nascondeva il matto:
Verso la strada avea foralo il sasso,
E per un burolin traea di piatto,
E multa gente saettava al passo :
Facea degli uomin micidial governo,
E chiamai’ era il mostro dall’ inferno.
42 Rinaldo, quando apparir lo vedia.
Diceva a Ulivieri : Hai tu veduto
r.ostui, che certo la versiera fia?
Disse Ulivier: Iddio ci sia in aiuto.
Credo più tosto sia la Befania,
O Belzebù ebe ci sarà venuto.
Guardava il petto e la terribil faccia,
E ’l baston lungo più di dieci braccia.
43 Quest’ animai venia gridando forte,
E come l’orso adirato co’ cani,
Ispezza e’ rami e’ pruni, e le ritorte
Con quel baston, co’ piedi e colle mani.
Disse Dodon : Sare’ questa la Morte,
Che ci assalissi in questi boschi strani ?
Se tu riguardi, Binatdo, i vestigi.
De’ compagnon mi par di Malagigi.
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S4
IL HOltGANTE MAGGIORE.
41 Disse Rinaldo : Non temer, Dodone,
Se fussi ben la Morte o il Trentamila ;
Lasciai venire a me questo ghiottone,
Ch’ a maggior tela ho stracciate le fila.
Intanto quella bestia alza il bastone,
E inverso di Rinaldo si difila :
Rinaldo punse Boiardo in su’ fianchi,
Acciò che ’l suo disegno a colui manchi.
45 Dallato si scagliò com’un cervietto.
Giunse la mazza, e dette il colpo in fallo ;
Rinaldo intanto si messe in assetto,
Corsegli addosso presto col cavallo :
Dettegli un urto, e colselo nel petto.
Per modo che sozzopra fe cascallo ;
E nel cader quest’ animale strano
Forte abbaiava com’ un cane alano.
46 Dodon, che vide quel diavol cadere.
Diceva a Ulivier: Corriangli addosso.
Acciò che non si levi da giacere.
Disse Rinaldo : Jgnun non si sia mosso ;
Tirati a drieto, e statevi a vedere,
Ch’ io non son uso mbi d’ esser riscosso.
In questo T uom selvatico si rizza
Col sorbo, pien di furore e di stizza.
47 E scaricava un colpo in sulla testa.
Per modo tal, che se giugnea Rinaldo,
E’gli bastava solamente questa,
E non sentia mai piu freddo né caldo.
Rinaldo non aspetta la richiesta,
Ché com’ argento vivo slava saldo ;
Or qua or là facea saltar Baiardo,
Avendo sempre al protino riguardo.
4S Pareva un lioncin, quando egli scherza,
Che salta in qua e in là destro e leggieri ;
Alcuna volta menava la sferza.
Poi risaltava che pare un levrieri.
Era già 1’ ora passala di terza,
E pur Dodon dicea con Ulivieri :
Io temo sol Rinaldo non si stracchi ,
Tanto eh’ un tratto quel baston l’ ammacchi.
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CANTO QUINTO.
49 Colai non par che si curi un pistacchio,
Perchè Frusberta gli levi del pelo,
E pur attende a scaricare il bacchio,
E la spada del prenze torna al cielo :
Misericordia di questo batacchio.
Aiuta Iddio chi crede nel Vangelo :
Quel baston pare un albero di nave.
Arsiccio, duro, nocchieruto, e grave.
50 Avean già combattalo inaino a nona
Rinaldo con quel djavolo incantato;
Rinaldo gli ha frappata la persona,
E molto sangue in terra avea giltato,
E tuttavia con Frusberta lo suona :
Un tratto quel bastone è giù calalo;
Rinaldo per disgrazia gli era sotto,
E non poteva fuggir questo botto.
51 Attraversò la spada, per coprire
Il capo, chè del colpo ebbe ribrezzo;
Giunse il bastone: or qui volle alcun dire
Già, che Rinaldo gliel tagliò sol mezzo,
Ma poi si ruppe il resto nel colpire ;
Chi dice che di netto il mandò al rezzo:
Donde e* s’ è fatta gran disputazione.
Come quel fallo andassi del bastone.
52 Ma questo a giudicar vuol buon grammatico,
S’egli tagliò tutta o mezza la mazza:
Quel maledetto, e ruvido, e selvatico,
E aspro più che ’l sorbo eh’ è di guazza,
Arrandellò quel tronco come pratico ;
Dette a Rinaldo una percossa pazza.
Tanto che cadde , e dipoi si fuggia.
Ma Ulivicr lo segue tuttavia.
53 Trasse la spada, che par che riluca.
Più che non fece mai raggio di stella.
Acciò che ’l cuoio con essa gli sdruca.
Questa fiera bestiai, crudele e fella
Si fuggi come il tasso nella buca :
Ulivier si rimase in sulla sella,
E ritornossi dov’ era caduto
Rinaldo, che già s’ era riavuto.
«6
IL MOnUANTE MACGIOIIE.
61 Disse Rinaldo: Vedeslù mai lordo,
Ch’ avessi com’ ebb’ io della ramala ?
Cosini pensò di guarirmi del sordo,
Se fussi riuscila la pensala.
Disse Dodon : Quand’ io me ne ricordo,
10 Iriemo ancor di quella randellala:
Cbe hai lu fallo di lui, Ulivieri?
Tu gli corresti drielo col destrieri.
65 Disse Ulivieri: Egli è nato di granchi:
Egli entrò in una buca sotto un masso.
Mentre eh’ io gli ero colla spada a’ fianchi,
0 si tornò in inferno a Satanasso.
Intanto colui par eh’ un arco abbranchi,
Ed uno slral cavò d’ un suo turcasso.
Avvelenalo, e fessi al bucolino,
E trasse, e dette in un piè a Veglianlino.
66 E se non fussi che giunse al calcagno.
Quanto potè più basso all’unghia morta.
Non bisognava medico nè bagno.
Disse Rinaldo: In pace te lo porla.
Co’ pazzi sempre fu poco guadagno,
11 mio lion non ci fa buona scorta.
Poi non veggendo ond’egli avessi tratto.
Ognun restava come stupefatto.
67 Disse Rinaldo: A quel sasso mi mena,
Ulivier, dove lu il vedesti entrare ;
Veggiam se questa bestia da catena
Si potessi alla trappola pigliare;
Ch’ i’ so eh’ io gli darò le frutte a cena,
S’ io lo dovessi col fuoco sbucare.
Sali sopra Baiardo, e insieme andorno,
E in un tratto quel sasso accerchiorno.
68 Colui eh’ è drento, assetta lo scoppietto,
E stava al bucolin quivi alla posta ;
Trasse uno strale a Kinaldo nel petto.
Che si pensò di passargli ogni costa.
Ma la corazza a ogni cosa ha retto.
Rinaldo allor dalla buca si scosta,
E disse : Costi ancor non se’ sicuro.
Se ’l sasso più che porGr fussi duro.
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CANTO QUINTO.
97
s9 Poi che tu m’hai saettalo, ribaldo,
E randellato, che mai più non fiie
Gittalo in terra in lai modo Rinaldo,
Io ti gasligherò pel mio Gesue :
E cosi lutto di tempesta caldo.
Con ambo man Frusberta alzava sue;
Rizzossi in sulle stafle, e ’i brando striscia,
Che lo facea Gschiar com’ una biscia.
60 Tanto che l’aria e la terra rimbomba,
E si sentiva un suon fioco e ’nlerrolto.
Come quand’ esce il sasso della Tromba :
Are’ quel colpo ogni adamante rollo :
Giunse in sul masso sopra della tomba,
E fesse! tutto com’ un cacio cotto :
Parli il cervello e ’l capo e ’nsino al piede
Al crudel mostro, e sciocco è chi noi crede.
61 Le schegge di quel sasso a mille a mille
Balzorno in qua e in là, come è usanza,
E tutta l’aria s’empiè di faville.
Disse Dodone: 0 Dio, tanta possanza
Non ebbe Eltorre, o quel famoso Achille,
Quanto ha costui, ch’ogni lor forza avanza.
La spada un braccio sotterra ficcossi,
E Baiardo pel colpo inginocchiossi.
62 A gran fatica potè poi ritrarre
Rinaldo, tanto fìtta era, la spada,
E disse: Tu credevi che le sbarre
Non li tenessim, mascalzon di strada:
Cbi si diletta di Irufle e di giarre.
Cosi convien che finalmente vada ;
De’ tuo’ peccali penitenzia hai fatta,
Cosi fo sempre a ogni bestia malta.
63 Dodon guardava nella buca, e vede
Tutto fesso per lato quel ghiottone
Dal capo insin giù per le gambe al piede,
E stupì lutto per ammirazione;
Dicendo: Iddio, de’ tuoi servi hai mercede.
Questo stalo non è senza cagione :
A qualche fine tal segno hai dimostro.
Acciò eh’ a molli esempio sia quel mostro.
I. 9
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98
IL MORGANTE MAGGIORE.
64 Poi colla punta della spada scrisse:
Nel tal tempo il signor di Montalbano
Ci arrivò a caso; ed ogni cosa disse :
Come in quei sasso stava nn nomo strano,
E come tutto Rinaldo il partisse :
Ed evvi ancora scritto di sua mano
Le lettre colla punta della spada,
E puossi ancor veder sopra la strada.
65 E chiamasi la selva dall’ inferno ;
Chi vuol andare al monte Sinai,
Yi passa, quando e’ va, che sia di verno,
Per non passare il (lume Baiai :
E leggesi, quel diavol dell’ inferno
Come Rinaldo quivi lo parti :
E vedesi ancor Tossa drento al fesso,
E sentevisi urlar la notte spesso.
66 Poi si partirno, e il lion, come suole,
Sempre la strada mostrava a costoro.
Era di notte, Rinaldo non vuole
Che per le selve si facci dimoro,
Talch’ Ulivieri e Dodon se ne duole,
Chè cavalcare a stracca è lor martore ;
Tutta la notte con sospetto andorno ,
Insin che in oriente vidon giorno.
67 Come e’ fu fuor dell’oceano Apollo,
Si ritrovoron sopra ad un poggetto ;
Questo passorno, e poi più là un collo
D’ un altro monte eh’ era al dirimpetto :
E poi che a questo dato ebbono il crollo,
Yidono un pian con un certo fiumetto.
Trabacche, e padiglioni, e loggiamenti,
E cavalieri armali, e varie genti.
68 Quivi era Manfredonio innamorato,
Che lo facea morir Meridiana ,
Con tutto quanto il popolo attendato;
E la fanciulla al suo parer villana
Al re Corbante avea significato,
Ch’ assediata è dalla gente pagana,
E come Manfredon si sforza c ’ngegna
Torgli d’ onor la sua famosa insegna.
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CANTO QUINTO. 99
69 Ed aspettava il "uerrier del lione,
Che dovessi venirla a liberare ;
£ stava giorno e notte in orazione,
E molti sacrificj facca fare,
Pregando umilemente il lor Macone,
Che sua virginità debba servare;
Com’ io seguiterò nell’ altro Canto,
Colla virtù dello Spirito Santo.
NOTE.
5. almo. Per animo. — Per con-
Iettare. Contestare ò propriamente
tìtolo dei Legisti, e vale intimare,
notificare. Qui significa contrastare ,
combattere, e simili. Leggesi nelle
Vite de'Santi Padri: «Contestandosi,
e difendendosi Antonio coll’arme del-
l’orazione coatra al demonio ec. » —
hitante. Moneta antica detta cosi, se-
condo la Crusca, da hit, e da Sanclut,
perchè aveva nella impronta due Santi ;
o da Bisanzio (Costantinopoli), d’onde
pare sia in principio venuta. I Greci
la chiamarono ^uCavriov;
e Vincenzio Borghinì , nel Ditcorto
della Moneta fiorentina, disse ; « Il
secondo, cioè il Bìsante, per avventura
dalla città di Bisanzio, seggio allora
dell’impero greco. •
8. E non ha ignun. E non v’ è
alcuno.
23. e del tritio facea. E fingeva
d’ esser tristo.
27. tgridallo, ruballo. Per sgri-
darlo, rubarlo; cangiata la r in l. Il
volgo lo dice ancora , ed è modo ve-
nuto dai Greci, i quali pure dicevano,
ad esempio , paxo; e /axoi , o simili
altri.
29. mottrava le piante. Correva
velocemente.
54. il roman tenalore. Orlando
fu fatto dal Papa gonfaloniere della
Chiesa, e senatore dì Roma.
35. lo’ ti. Togliti, prenditi.
38.unuommolto foresto. D’aspet-
to strano, selvaggio. — una vecchia
paura. Vuol dire una gran paura.
Ciriff. Calv., Canto II, 44:
E ci faran delle Tecchie paure.
E in altri luoghi. S’ usa solo per
ischerzo.
39. vedegli. Per vedergli , tolta
la r. Modo usato anch’ora dal popolo.
40. Che non portava ee. Qui pare
voglia dire che andava sempre co’ piè
nudi; ma portare, o andare in zoccoli
er l’asciutto, è modo di parlar fur-
esco, e vale ; esser macchiato del vi-
I zio di soddomia.
I 42. Befania. Chiamasi a Firenze
befana un certo fantoccio di cenci o
altro, che i fanciulli e le donne pon-
gono alla finestra il giorno della Epi-
fania, detto anche dal volgo di di be-
fana, 0 di befania. Questa stessa voce
serve anche ad indicare una donna
brutta e contraffatta ; come pure un
ente immaginario che suol rammen-
tarsi ai bambini per far loro paura.
Qui è posto per indicare un essere di
aspetto mostruoso.
44. il Trentamila. Lo stesso che
la Tregenda, il qual nome denota al-
cuna favolosa brigata che vada di notte
attorno con lumi accesi. Cosi il Voca-
bolario, che non dà che questo solo
esempio, e lo fa corrispondere al lati-
no turba maxima, greco tzxu.tzÓ'j.ìoi.
I — Ch’ a maggior tela ec. Cioè : che ho
I fatte imprese d’altra fatta che queste.
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100
IL HOliGAM'E HAGGIUKE.
46. tgnun non ti tia motto. Nes-
sun si muova.
47. argento vico. Il Mercurio,
greco \iSpdpy\tpOi , quasi argento
acquoso, o allo stato di acqua. Aver
poi l’ argento vivo addosso vale non
poter star fermo.
49. bacchio. Bastone, dal latino
baculut.
BO. frappata la pertnna. Frap-
pare vale, far le frappe, cioè smerli,
o cosa simile, alle vesti. Figuratamente
significa tagliare minutamente- onde
qui viene a dire, che Kinaldo a furia
di ferite aveva quasi tagliuzzata la per-
sona al Musico.
54 . il mandò al rezzo. Mandare
al rezzo significa uccidere. Qui pare i
che il Poeta abbia voluto dire che Ri-
naldo mandò di netto per terra il ba-
stone del Mostro. Rezzo , dice il Vo-
cabolario , è ombra di Im-go aperto
che non sia percosso dal Sole, greco
ffxtà, o viene dà requiet, o meglio da
orezza, leggiera e picnda aura ; d’onda
rezzare per soffiare , o tirar vento ; e
brezza per venticello freddo e sottile ,
e brezzare il soffiare di esso venti-
cello.
52. eh' i di guazza. Dice che il
bastone di sorbo è -teucro come la
guazza in paragone dell’asprezza del
Mostro.
54. della ramata. Chiamasi ra-
mata un arnese a guisa di paia , tes-
suto di giunchi, con cui si ammazzau
gli uccelli a forniuolo. — la pensala.
Verbale da pensare: pensamento, eo-
gitatio. Usato dagli antichi anche in
prosa.
57. gli darò le frutte a cena.
Dar le frutte a cena significa battere,
percuotere.
50. Getue. Aggiunta la e nel fine
per quella figura che chiamasi Pa-
ragoge.
G2. tu credevi che le tbarre Non
ti tenessim ec. Credevi che non fos-
simo valenti a contrastarti? Chiamasi
sbarra un tramezzo per separare una
cosa da un’altra, o per impedire al-
trui il passo. — matcalzon. Assassino
di strada , ).v|7Tr){ , da persona male
in arnese, e mal vestila, q^uasi malral-
zone. — giarre. Da giarda, cambiata
in r la d, per comodo della rima, e
vale beffa, burla, e simili.
65. Chi vuol andare Descrizione
geografica fantastica, e tutta dell’Au-
tore.
67. e poi più là un collo D’ un
altro monte. Detto figuratamente per
cima di monte. — E poi .che a que-
sto dato ebbono il crollo. Intendi:
poi che ebber varcato anche questo
monte.
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101
CASTTO SESTO.
dxm<B<omsamD»
Drento al palazzo del re Caradoro
Entra Rinaldo, e i due compagni ha seco:
Rinaldo e Orlando combatton tra loro
Sconosciuti , c si dan colpi da cieco.
Va prigione Dodon. Chi sicn costoro,
La spia di Gano al re corre a far eco.
lilivieri campion d’nna sottana
s D’ amor si strugge per Meridiana.
■ì 0 Padre nostro che ne’ cieli stai,
Non circumscritto, ma per più amore
Ch’a’ primi etTetti di lassù tu hai,
Laudato sia il tuo nome e ’l tuo valore :
E di tua grazia mi concederai
Tanto, eh’ io possi finir sanza errore
La nostra istoria: e però, Padre degno.
Aiuta tu quest’ aflannato ingegno.
2 Era il Sol, dico, al halcon d’oriente,
E 1’ aurora si facea vermiglia,
£ da Titon suo antico un poco assente ;
Di Giove più non si vedea la figlia.
Queir amorosa stella refulgente.
Che spesso troppo gli amanti scompiglia ;
Quando Rinaldo giù calava il monte,
Dov’ era Orlando suo famoso conte.
3 Com’ egli ebbe veduta la cittade.
Disse a Dodone : Or puoi veder la terra
Dov’ è la dama c’ ha tanta bcltade ;
Vedi che ’l re Corbanle già non erra,
Ch’io veggo de’ Pagan gran quantitade;
Quivi è quel Manfredon che gli fa guerra.
Mentre che dice questo, e Ulivieri
Conobbe Orlando sopra il suo destrieri.
9 *
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102
IL HORGANTE MAGGIORE.
4 Vide eh’ a spasso con Morgantc andava,
E che faceva le genti ordinare
Per la battaglia che s’apparecchiava,
E gi<à faceva stormenti sonare :
Ma del gigante aramirazion pigliava,
E cominciollo a Rinaldo a mostrare :
Quell’ è Morgante, e il conte Orlando è quello
Ch’ è presso a lui : non vedi tu Kondello ?
5 Rinaldo, quando vide il suo cugino,
Per gran dolcezza il cor si sentì aprire ;
E disse: Poi ch’io veggo il paladino,
Contento sono ogni volta morire.
Or oltre segnirem nostro cammino;
A Carador promesso abbiam di gire :
Tosto sarem con Orlando alle mani,
E con quest’ altri Saracini o cani.
6 Com’entrati fur poi drento alle mura,
Domandorno del re subitamente,
Dicendo: Cavalier siam di ventura,
Dal re Corbante mandati al presente.
I terrazzan fuggivan per paura
Di quel lione sanza dir lor niente :
Rinaldo tanto innanzi cavatene,
Che in sulla piazza del re capitoe.
7 E com’e’furno veduti costoro,
Subito fu portata la novella
Drento al palazzo al gran re Caradoro.
Rinaldo intanto smontava di sella ,
Ulivieri, e Dodon non fc dimoro ;
Ognun dintorno di questo favella :
Questo debb’ esser, dicien, quel barone,
Ch’ è appellato il guerrier del lione.
8 Meridiana, eh’ era alla finestra.
Fece chiamar sue damigelle presto.
Che d’ ogni gentil alto era maestra ;
Fecesi incontro col viso modesto.
Con accoglienza si leggiadra e destra,
Che nessun più non arebbe richiesto
Tra le ninfe dì Palla o di Diana,
Che si facessi allor Meridiana.
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CANTO SESTO.
103
9 Rinaldo quando vide la donzella,
Tenlato fu di farla alla franciosa ;
A Ulivieri in sua lingua favella :
Quanl’ io non vidi mai più degna cosa.
Disse Ulivieri: E’ non è in cielo stella,
Ch’ appetto a lei non fussi tenebrosa.
Rinaldo presto rispose: Io l’ho inteso,
Che ’l vecchio foco è spento, e ’l nuovo acceso.
10 Non chiamerai più forse, come prima.
La notte sempre e ’l giorno Forisena,
Ch’ ad ogni passo ne cantavi in rima :
Non sente al capo duol chi ha maggior pena ;
Veggo che del tuo amor 1’ hai posta in cima,
E se’ legato già d’ altra catena.
Ulivier disse: S’ io vivessi sempre,
Convien sol Forisena il mio cor tempre.
11 Eron saliti già tutta la scala,
E grande onor da quella ricevuto ;
Che insino a mezzo gli scaglion giù cala,
E rendutogli un grato e bel saluto*:
Intanto Caradoro in sulla sala
Con tutti i suoi baroni era venuto :
Rinaldo e gli altri baciaron la mano.
Come è usanza ad ogni re pagano.
12 Fece ordinar di subito vivande,
E’ lor deslrier fornir di strame c biada ;
Fer la città la lor fama si spande,
E per vedergli assai par che vi vada :
A’enne la cena, e fuvvi altro che ghiande.
Ulivier pure alla donzella bada :
Poi che cenato fu, re Caradoro
In questo modo a dir cominciò loro:
13 Io vi dirò, famosi cavalieri.
Quel che ’l mio cor da voi desia e brama :
Per tutt’ i nostri paesi e sentieri
Dell’ oriente risuona la fama
Di vostra forza, e de’ vostri destrieri,
E questa è la cagion che qua vi chiama.
Come vedete, ogni campagna è piena
Di gente qua per darci affanno e pena.
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104
IL MORGANTE MAGGIORE.
U Ed ecci un re famoso, antico e degno,
Che innamoralo s’è d’ està mia figlia,
E vuol per forza lei con lutto il regno ;
E molti ha morti della mia famiglia :
Ogni di Iruova qualche stran disegno
Per oppressarci, c ’l mio campo scompiglia :
E per ventura un cavalier errante
V’è capitato con un gran gigante.
15 Con un battaglio in man d’ una campana.
Sia eh’ armadura vuol, che ne fa polvere;
E molli già di mia gente pagana
Ha sfracellati, e dato lor che asciolvere:
Ovunque e’giugne, la percossa è strana.
Non c’ è papasso che ne voglia assolvere :
Io ’l vidi un giorno a un dar col battaglio.
Che ’l capo gli schiacciò come un sonaglio.
16 Se con quel cavalier vi desse il core
A corpo a corpo, chè cosi combatte, •
E col gigante d’ acquistare onore.
Le genti mie non sarebbon disfalle.
Ed io vi giuro pel mio Dio e Signore,
S’ alcun di voi di questi ignun abbatte.
Ciò che saprete domandare, arele.
Se ben la figlia mia mi chiederete.
17 Era presente a quel Meridiana,
E una ricca cotta aveva indosso
D’ un drappo ricco all’ usanza pagana.
Fiorilo tutto quanto bianco e rosso,
Com’ era il viso di latte e di grana,
Ch’ arebbe un cor di marmo ad amar mosso :
Nel petto un ricco smalto e gemme e oro,
Con un rubin che valeva un tesoro.
is E un carbonchio ricco ancora in testa,
Che d’ ogni scura notte facea giorno :
Avea la faccia angelica e modesta,
Che riluceva come ’l Sol d’ intorno.
Ulivier, quanto guardava più questa.
Tanto r accende più il suo viso adorno :
E fra suo cor dicea : Se tu farai
Quel che dicesti, re, tu vincerai.
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CANTO SESTO.
10 «
19 Rinaldo vide Ulivier preso al vischio
Un’altra volta, e già tutto impaniato;
E dicea : Questo ne vien tosto al fischio;
Conobbe il viso già tutto mutato:
Vedeva gli occhi far del bavalischio.
Disse in francioso nn motto loro usalo :
A ogni casa appiccheremo il maio,
Chè come 1’ asin fai del pentolaio.
20 Ma non vagheggi a questa volta, come
Solevi in corte far del re Corbante ;
Chè se ti piace il bel viso e le chiome,
Piace la spada a costei del suo amante :
Queste son dame in altro modo dome,
Non c’ è più bell’ amar che nel levante.
Ulivier sospirò nel suo cor forte,
Quasi dicessi : Sol non amai in corte.
21 E ricordossi allor di Forisene,
Che del suo cor tenea le chiavi ancora, '
Ma non sapeva, omé, della sua pena:
Prima consenta il ciel, dicea, eh’ i’ mora.
Che sciolta sia dal cor quella catena.
Che scior non puossi insino all’ ultim’ ora ;
E se fra’ morti poi vorran gli Dei
Che amar si possi, amerò sempre lei.
22 Non si diparte amor si leggiermente.
Che per conformità nasce di stella ;
Dovunque andremo in levante o in ponente.
Amerò sempre Forisene bella :
Però che ’l primo amor troppo è possente.
Non son del petto fuor quelle quadrello,
Ch’ io non credo che morte ancor trar possa,
Prima che cener sia la carne e l’ ossa.
23 Lasciam costoro insieme un poco a mensa.
Aveva alcuna spia re Manfredonio,
Come colui eh’ e’ suoi pensier dispensa.
D’aver di ciò che si fa testimonio:
E poi chi ama, giorno e notte pensa
Come e’ si tragga l’ amoroso conio :
Non si può dir quel eh’ un amante faccia
Per ritrovar della dama ogni traccia.
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106
IL HOBGi?iTi: HAGGIOKE.
24 Detto gli fu, come c’son capitati
Tre cavalier famosi a Caradoro,
E paion molto arditi e bene armati ,
Ma non sapeva alcun de’ nomi loro,
Se non che tulli assai s’ eron vantali
Alla sua gente dar molto martoro,
E eh’ egli avevon sotto corridori ,
Che mai si vide ì più belli c migliori.
2 b Orlando pose orecchio alle parole :
Sarebbe questo Rinaldo d’ Amone ?
Ma poi diceva : Rinaldo non suole,
Come color dicien, menar bone :
Poi disse : Imbasciador mandar si vuole.
Per uscir fuor d’ ogni suspizione,
A Caradoro, e dirgli, cosi parmi,
Ch’ io vo’ con questi cavalier provarmi.
A Manfredonio piacque il suo parlare,
' E subito mandorno imbascieria ;
Erano ancor coloro a ragionare :
Caradoro a Rinaldo si. volgia.
Dicendo : Pro’ baron , che vuoi tu fare ?
Rinaldo sfavillava tuttavia ;
Pargli mill’anni d’ esser con Orlando,
E disse : io sono in punto al tuo comando.
27 E Ulivier soggiugneva di costa :
Del diciannove ognun terrà lo ’nvilo,
E cosi fate per noi la risposta.
Ah, Ulivier, Amor ti fa si ardilo!
Dite che al campo ne venga a sua posta.
Lo imbasciador tornò eh’ aveva udito,
E disse a Manfredonio: E’ son contenti,
E prezzon poco le colle lue genti.
28 E’ mi pareva, a guardargli nel volto,
Che tra lor fussi del combatter gaggio,
Ch’ ognun pel primo volessi esser tolto.
Tanto fier si mostravan nel visaggio.
Rispose Orlando : E’ non passerà molto
Che parleranno d’ un altro linguaggio.
Disse Morgante: Io vo’ con un fuscello
Di tuli’ a tre coslor far un fardello.
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CANTO SESTO.
107
29 £ vommeglì alla cinlola appiccare ;
Lascia pur eh’ egli assaggino il melallo,
E ch’io cominci un poco a battagliare;
Che penson di venir costoro al ballo?
Or oltre io vo’ col battaglio sonare,
Perchè non faccio gli scambietti in fallo.
Ria in questo tempo Rinaldo si è armato,
£ dal re Caradoro accommiatato.
30 Ed avea fatto cose in sulla piazza,
Che ’l popol n’ avea avuto maraviglia ;
Di terra con lo scudo e la corazza
Saltato in sella, e pigliata la briglia.
Carador disse: Questa è buona razza:
£ molto lieta si fece la hglia.
Ch’era venuta per diletto fore,
A vedergli montare a corridore.
51 Ed avea prima aiutato Ulivieri
Armar, che molto di questo gli giova;
£ saltalo di netto è in sul destrieri,
£ fatto innanzi alla dama ogni prova.
Che far potessi nessun cavalieri ;
Dodon anco nel montar non cova :
Ognun di terra a cavai si gittoe,
E lutto il popol se ne rallegroe.
32 Aveva fatti Ire salti Raiardo,
Ch’ ognun fu misurato cento braccia.
Tanto Ger era, animoso e gagliardo;
Ed Ulivier, perchè alla dama piaccia.
Di Veglianlin faceva un leopardo ;
Dodone al suo gli spron ne’ Ganchi caccia :
£ finalmente dal re Caradoro
A lanci e salti si partir costoro.
53 Poi che furono usciti della porta.
Fino alle sbarre del campo n’ andorno:
Rinaldo tanta allegrezza lo porta.
Che cominciò a sonar per festa un corno.
Fu la novella a Manfredon rapporta;
Orlando presto e Morgante n’ andorno.
Dove aspettavan questi tre baroni,
£ saliilorno in saracin sermoni.
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108
IL MOBGANTE MAGGIORE.
34 Non riconobbe Orlando il suo cugino,
Perchè Baiardo è lutto covertalo,
E lui parlava al modo saracino;
Vide il bone, e mollo ha biasimato:
Non è costume di buon paladino
Aver quest’ animai seco menato ;
Non dovercsli a gnun modo menarlo;
Per carità degli uomini ti parlo.
35 Disse Rinaldo : Buon predicatore
Saresti, poi c’hai tanta carità:
Non ti bisogna aver questo timore,
Nel tuo parlar si dimostra viltà ;
Se tu sapessi, baron di valore,
Per quel eh’ io ’l meno, ed ogni sua bontà,
Non parleresti in cotesto sermone :
Sappi che ignun non oflende il bone,
36 Se non chi a torto quistion meco piglia,
0 ver chi fussi Iraditor perfetto.
Il conte Orlando ha seco maraviglia.
Poi gli rispose: Vegnamo all’ effello;
Se vuoi combatter san%’ altra famiglia
A corpo a corpo, melliti in assetto;
Cbè in altro modo combatter non voglio:
Farò di te come degli altri soglio.
37 Disse Dodon : Tu sarai forse erralo.
Il gigante gli fece la risposta :
Tu non conosci il mio signor pregiato.
Però facesti si strana proposta ;
Io non son come le, barone, armato,
E proverommi con teco a tua posta.
Dodone allora pazienzia non ebbe,
E pure stalo il miglior suo sarebbe.
38 La lancia abbassa con molla superba,
E percosse Morgante in sulla spalla ;
E’ si pensò traboccarlo in sub’ erba :
Morgante non lo stima una farfalla.
Ed appiccògli una nespola acerba.
Tanto che tutto pel colpo traballa :
E come e’ vide balenar Dodone,
Se gli accostava, e trassei dell’arcione.
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CANTO SESTO.
lOD
39 AI padiglion ne Io porla il giganle :
A Manfredonio Dodon presentava ;
Manfredo!! rise, vergendo Morganle,
E per Macon d’ inapiccarlo giurava.
Morganle in drielo volgeva le piante,
Torna ad Orlando ch’ai campo aspettava.
Uinaldo irato ad Orlando dicia :
Io ti farò, cavalicr, villania.
40 Aspettami, se vuoi, tanto ch’io vada
A qualche cosa a legar quel lione.
Poi proveremo la lancia e la spada
Per quel c’ ha fatto il gigante ghiottone.
Rispose Orlando: Fa come t’aggrada,
0 lancia, o spada, o cavallo, o pedone.
Rinaldo smonta, e la bestia legava.
Poi verso Orlando in tal modo parlava:
4J Non potrai nulla del lion più dire;
Olire provianci colle lande in mano,
Vedrem se, come mostri, hai tanto ardire;
Chè il can che morde, non abbaia invano.
Volse il deslricr, per tornarlo a ferire.
Orlando al suo RondoI gira la mano.
Del campo prese, e con molla tempesta
Si volse in drieto colla lancia in resta.
42 Non domandar quel che facea Boiardo,
Con quanta furia spacciava il cammino;
E Rondel anco non jiareva tardo,
Anzi pareva quel di Vegliantino:
Rinaldo aveva al bisogno riguardo
Dov’ e’ ponessi la lancia al cugino;
Ma conosceva ch’egli è tanto forte.
Che perieoi non v’ è di dargli morte.
43 A mezzo il petto la lancia appiccoe.
Orlando feri lui similemente;
E r una c 1’ altra lancia in aria andoe;
Non si conosce vantaggio niente;
E l’uno e l’altro destrier s’ accoscioe,
E cadde in terra pel colpo possente:
Tanto che fuor della sella sallorno
1 duo baroni, e le spade ìrapugnorno.
IO
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110
II. mohgante maggioue.
n E cominciorno si fiera ballaglia,
Che far comparazion non si può a quella;
Perchè Frusberla e Corlana anco taglia,
E ’l suo signor, che con essa impcnnella,
Disaminava e la piastra e la maglia ;
Rinaldo sempre all’ elmetto martella,
Perch’ e’ sapea ch’egli è d’acciaio fino.
Che fu d’ Almonte nobil Saracino.
45 Pur nondimen si voleva aiutare.
Però che Orlando vedea riscaldato,
E conosceva quel che sapea fare
Il suo cugin, quand’ egli era adirato ;
Ma Cristo volle un miraeoi mostrare.
Acciò eh’ ignun di lor non abbi errato :
E perchè de’ suo’ amici si ricorda.
Il fier bone spezzava la corda.
46 Venne a Rinaldo, ed Orlando dicia :
Per Dio, baron, di te mi maraviglio;
Questa mi par da chiamar villania ;
Ma questa volta non hai buon consiglio,
Chè a te e lui caverò la pazzia.
Rinaldo in drieto volgea presto il ciglio ;
Vide il bone, e funne malcontento,
E cominciò questo ragionamento:
47 Aspetta, cavalier, tanto ch’io possi
Questo lion rimenare alla terra ;
La mìa intenzion non fu, quand’ io mi mossi.
Di venir qui col bone a far guerra.
Rispose Orlando : Qual cagion si fossi
Non so, ma in fine è l’errato chi erra ;
S’ io ti volessi guastar il lione.
Guarda ’l battaglio c’ ha quel compagnone.
48 Disse Rinaldo: Noi farem ritorno.
Tu al tuo re, ed io nella cittade,
E domattina come scocca il giorno.
Ritornerò per la mia Icaltade ;
E chiamerotti, com’io fe’, col corno,
E proveremo chi ara più bontade ;
Questo di grazia, baron, ti domando;
Tanto che fe contento il conte Orlando.
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cìnto sesto.
Ili
49 E torna con Morgante al padiglione,
E per la via si doleva con quello,
E dicea : Maladelto sia il lione !
S’ avessi Vegliantin, come ho Rondcllo,
Parlilo non saria questo barone ;
O segnato l’arei del mio suggello,
S’avessi la mia spada Durlindana:
E duolsi assai eh’ egli aveva (Soriana.
60 Ulivieri e ’l signor di Montalbano
Si rilornorno verso la citiate.
Or ritorniamo al traditor di Gano,
Ch’avea per molle parte spie mandale:
Ed ecco un messaggiero a mano a mano
A Carador con letlcr suggellale ;
E per ventura al marchese s’ accosta ,
Dicendo: In cortesia, fammi risposta
61 Come si chiama la terra, e ’l paese,
E ’l suo signor, se Dio ti dia conforto ;
Io ho paura indarno avere spese
Le mie giornate, e di scambiare il porlo.
A lui rispose il famoso marchese :
Alla domanda tua non vo’ far torto ;
Non so il paese come sia chiamato,
Ma ’l suo signor ti sarà ricordato.
62 Sappi che ’l re si chiama Caradoro,
E la figliuola sua Meridiana ;
Per lei tal guerra ci fanno costoro
Che tu vedi alloggiali alla fiumana.
Disse la spia : Macon ti dia ristoro,
E guardi sempre d’ ogni morte strana ;
£ finalmente al palazzo n’ andoe
A Caradoro, e da parte il chìamoe.
Disse : Macon ti dia gioconda vita ;
Io son messaggio di Gan di Maganza,
E quando feci da lui dipartila.
Questo brieve mi diè, eh’ è d’importanza;
Vedi la ’mpronla sua qui slabilila,
Perèhè tu abbi del fallo cerlanza.
Carador riconobbe quel suggello
Del conte Gan, traditor cruilo c fello.
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112
IL MORGANTE MAGGIORE.
{iA La lellera apre, e ’l suo tenore intese.
La lettera dicca: Caro signore,
Sappi, re Carador, quel eh’ è palese,
Che venuto è Rinaldo traditore
Nella tua terra e nel tuo bel paese ;
Io te n’avviso, ch’io li porlo amore;
E seco ha Ulivier, che è uom di razza.
Col suo compagno Dodon della mazza.
65 £ nel campo è di Manfredonio Orlando,
E r un dell’ altro ben debbe sapere;
E so che tuli’ a due vanno cercando,
0 Carador, di farti dispiacere :
Vengonvi insieme alla mazza guidando ;
Quando fia tempo, vel faran vedere:
Non piace al nostro re qua tradimento.
Però eh’ io ti scrivessi fu contento.
òì Ed ha con seco menato un gigante.
Che se s’accosta un giorno alle lue mura,
E’ le farebbe tremar tutte quante ;
Abbi del regno e di tua gente cura:
E’ son Cristiani, e tu se’ AITricanle;
Guarda che danno non abbi e paura,
Chè so ch’ai fin n’arai da molle bande;
Or tu se’ savio, e ’nlendi, e ’l mondo è grande.
57 Era quel re pien d’ alla gentilezza,
E ben conobbe ciò che Gan dicea ;
Fece pigliarlo con molta prestezza :
In questo tempo Rinaldo giugnea.
Ed ogni cosa con lui raccapezza,
Ed in sua man la lettera ponea,
E di Ulivier, eh’ è nella sua presenzia.
Per dimostrare ogni magnificenzia.
68 Quando Rinaldo intese quel eh’ è scritto.
Ringrazia il suo Gesù con sommo affetto ;
A Ulivier si volse lutto afflitto;
Disse : Tu vedi quel che Gano ha detto.
La damigella tenca l’occhio drillo.
Quando senti che ’i suo amante perfetto
Era Ulivier, che tanta fama a via;
Non domandar quanto gaudio senlia.
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CANTO SESTO.
113
69 E poi mandò nel campo un messaggiere
Al conte Orlando, e ’n questo modo scrisse:
Poi ch’abbiara fatto triegua, cavaliere,
Acciò che grand’ inganno non seguisse,
Contento sia di venirmi a vedere
Alta città sicuramente, disse;
Cosa udirai, che ne sarai poi lieto;
Ma sopra tutto sia presto e segreto.
60 II messaggiero Orlando ritrovava,
Che si chiamava nel campo Brunoro ;
Segretamente la lettera dava :
Orlando lesse, e sanza alcun dimoro
A Manfredon la lettera mostrava.
Manfredon disse : Forse Caradoro
Potrebbe qualche inganno fabbricare,
E quel baron tei vorrà rivelare.
61 Mentre eh’ è triegua, va sicuramente;
Chi sa chi sia quel guerrier del lione?
Pel mondo attorno va di strana gente;
Io ti conforto d’ andarvi, barone.
Morgante a ogni cosa era presente,
E disse : Forse eh’ egli ha del fellone ;
Egli ebbe voglia infin oggi di dirti
Qualche trattato, e ’l suo segreto aprirti.
62 Io vo’ con teco alla terra venire,
Ché non ci fossi qualche inganno doppio,
E in ogni modo con teco morire;
E ’niìn del campo udirete lo scoppio.
Se col battaglio s’ avessi a colpire :
Perchè, se bene ogni cosa raccoppio,
Di chieder triegua, e tornarsi oggi drento.
Segno mi par di qualche tradimento.
63 Alla città n’andorno finalmente.
Rinaldò immaginò la lor venula:
Fccesi incontro al suo cugin possente,
E giunto appresso, in francioso il saluta.
Orlando rispondea cortesemente
Quel che gli parve risposta dovuta ;
E pur parlava come Saracino,
Che non conosce il suo caro cugino.
IO*
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114 IL HOUGANTE UAGGIOHE.
61 Dicea Rinaldo: A Caradoro andremo,
Se non li fussi, cavalicr, disagio.
Orlando disse : A tuo modo faremo,
Chè di piacerli mi sarà sempre agio.
Disse Morganle ; Andale, noi verremo.
E fìnalmenle n’ andorno al palagio.
Rinaldo a Carador gli rappresenta,
Perch’ e’ voleva eh’ ogni cosa senla.
65 Re Caradoro, quando Orlando vede,
Toslo della sua sedia s’ è levalo :
Orlando gli volea baciar il piede.
Ma Carador l’ ha per la man piglialo;
* Disse: Macone abbi di le merzede.
Il luo venir m’ è Iroppo, baron, gralo,
Per veder quel che non ha pari al mondo.
Come se’ lu, Brunor, baron giocondo.
66 Meridiana quando fu in presenzia
D’ Orlando, sospirò la damigella;
Orlando prese di questo lemenzia,
Verso la dama in lai modo favella :
Are’ li io fallo oltraggio , o violenzia,
Che lu sospiri si? dimmel, donzella.
E ricordossi ben di Lionello,
Tanto eh’ egli ebbe al principio sospetto.
67 Disse la dama : Tu m’ innamorasti
Quel di che insieme provammo la lancia,
£ con quel colpo I’ elmo mi cavasti.
Tanto eh’ ancor n’ arrossisco la guancia ;
E questa treccia tutta scompigliasti,
Come se fussi un paladin di Francia;
Poi mi dicesti: Tornali alla terra,
Chè colle dame non venni a far guerra.
68 Questo mi parve un alto si gentile.
Che bastere’ che fussi stato Orlando :
Tu disprezzasti una femmina vile ;
Per questo venni cosi sospirando.
Orlando è corbacchion di campanile,
E non si venne per questo mutando;
E disse a Carador : Seguila avanlc
Quel che vuoi dir dopo mie lode tante.
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CANTO SESTO.
115
69 Carador disse: Tu lo intenderai
Da questo cavalier che t’ ha menalo :
E disse al preuze: Tu cominccrai
A dir, perchè per lui fusse mandato.
Ma tu, Signor, che i sempiterni rai
Governi c reggi, e ’l bel cielo stellato,
Grazia mi dona, che nel dir seguente
Segua la storia eh’ io lascio al presente.
VOTB.
1 . Non circutntcrilCo ec. Dante
dice di Dio :
QnelPono, e <lue, e tre^ dio sempre vive
iSoB circonscritto, e tutto circouscrìve.
Parad., Canto XIV.
9. di farla alla franciosa. Usa-
vano i Francesi di baciare, per modo
ili saluto , le dame. A talo usanza
appella qui forse il Poeta.
H. £ron. Per erano.
1 o. dato lor che asciolvere. Asciai-
vere chiamasi il pasto della mattina ,
la colazione, quasi solvere jejanium,
perchè con esso pasto rompesi il di-
i;inno ; onde gli Italiani lo chiamano
anche lo sdigiuno. Qui è detto lign-
ralamente. — papasso. Dal greco Po-
pas, in latino Pater. Gl’Italiani ne
lian fatto Papasso , come da Thomas
Tomasso o Tommaso, da Primas Pri-
masso e simili j e vale capo, padrone,
principale.
-16. ignun di voi. Qualcun di voi,
t7. E una ricca colla. Lunga so-
pravveste usata dalle antiche donne
latine, o da loro chiamata Crocota.
Il Pignora, nelle Origini di Padova,
dice: a Avevano gli antichi una veste
che chiamavano per le femmine Cro-
cota; » e lo Scaligero su quel verso
del poema intitolato Cecris, attribuito
a Virgilio :
firius in tenui steterat tuccincta croeota ; j
soggiunge : Crocolam ctiam hodie de- j
curiato nomine cottam voeamus in
Iota Gallia. Pianto, nella Aulularia,
chiama crocotarii quei che facevano
tali vesti, le quali furon cosi appellate
dal greco xpof.O ( , perchè s’ usavan
portare tinte di color del croco, che è
una specie di colore tra il giallo e il
rosso; e, come disse Virgilio, piclee
J croco. Ora chiamasi colta quella so-
! pravvesta bianca che portano ì Keli-
I giosi negli uffizii divini. Il Giambullari
I fa venir questa voce dalla arainea Col,
che significa veste. — viso di latte e
! di grana. Diciamo comunemente bian-
co e rosso. La grana è una tinta che
cavasi dai corpiciattoli di certi insetti,
i quali, per essere nell’aspetto quasi si-
mili alle coccole dell’ellcra, furon
dagli antichi creduti una specie di coc-
cole anch’essi, e reputati esseri vege-
tabili anziché animali. I Greci chia-
' marongli /.sxxst , e i Latini grana
I tincloria o infecloria. — un ricco
smalto. Smalto è materia di più co-
lori che si pone sopra i lavori d’oro
per ornamento. Vedi la origine di que-
sta voce nel Menagio , Origini della
Lingua francese, alla voce émail.
fS. Ed un carbonchio. Lo stesso
clic rubino, ed è cosi detto per il suo
splendore, quasi d’un carbone acceso.
Perciò i Greci chiamarono questa gem-
ma «v3rpa| (carbone), e i Latini Py.
ropus.
19. Rinaldo vide ee. Metafora
tratta tutta dalla caccia che si fa agli
uccelli colla pania. — appiccheremo
il maio. Il maio è un albero dello
Alpi , quello stesso che i Latini chia-
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Ii6
IL MORGANTE MAGGIORE.
inaron cylilUS. Si è poi applicato tal
nome a qualunque albero , omlc Dante
disse:
La gran rariazion dti’frercht mai,
per indicare le molte specie di alberi
che erano nel Paradiso terrestre. Dal
nostro contado rbiamasi maio quel >
ramo d’albero, che i contadini pian-
tano la notte di caien di maggio in-
nanzi all’uscio delle loro belle; onde
appiccare il maio a ogni uscio, a ogni
rasa, vale appunto fare il vagheggino
con tutte. Anche i Latini ebbero tale
usanza , c la rhianiaron majuma.
Snida però racconta clic in un deter-
minato giorno del mese di maggio so-
levano i Romani andar su per il Te-
vere infino ad ttstia , c quivi far de*
giuochi , 0 sollazzarsi nello marine
onde nuotando, e che anche questo
giuoco era detto Majuma. — batali-
schio. Lo stesso che hasilisrn, il quale
è un animale antibio, che gli antichi |
favoleggiarono per un mostro spaven-
toso, e che avvelenasse cullo sguardo.
È opinione del volgo che esso nasca
dall’uovo partorito da un gallo. —
l'asin fai del pentolaio. Proverbio
che vale fermarsi ad ogni uscio ; come
fa appunto il pentolaio, che quasi ad
ogni casa si ferma a spacciare la sua
mercanzia.
22. Che per conformità nasce di
stella. L’opinione che l'influsso cele-
ste agisse sulle umane azioni fu nei
passati tempi s't universale c radicata,
che i più grandi uomini prestaronvi
fede. Da tal credenza ebbe origine la
celebre scienza dell’ Astrologia giiidi-
ciaria. Al pianeta di Venere partico-
larmente si attribuì l’influsso della |
passione amorosa ; onde Dante disse
che le genti antiche nell’antico orrore,
cioè nella idolatria , credettero che la
Dea Venero :
li filile amnre
Uaggtasse volta noi terzo epiciclo.
Il domma cristiano poi tolse il domi-
nio dei pianeti alle divinità che vi
nvevan poste i Gentili, e nel luogo di
quelle pose in ciascuno di essi alcuna
angelica intelligenza , deputata a reg- i
geme I moli, c regolarne gli influssi. <
A queste angeliche intelligenze rivol-
geva Dante stesso suo discorsa, in
una delle sue più belle Canzoni , che
comincia :
Voi che iiHendcntìo il terzo del movete.
In questo luogo però le parole di Lli-
' sieri vogliono significare, che egli e
Korisena si sarebbero sempre amati,
perche il Pianeta che influiva sulle
azioni e sulla vita di Clivicri stessa
era di natura conforme a quello che
esercitava la medesima influenza sn
Forisena; e ciò è secondo le teorie
della scienza astrologica.
23. conio. Dal lat. cuneua. Stru-
mento di metallo o di legno che è
tagliente da una testa, e verso l’altra
va ingrossando, c pigliando forma
piramidale, onde, percosso, ha forza
di penetrare, e di fendere. Cosi il Vo-
caholario.
27. di costa. Posto cosi awer-
I bialinente, vale da banda, in disparte.
— Del diciannore. Sembra che valga
lo stesso che tener P invito del diciotto.
28. del combatter gaggio. Gaggio
è pegno, 0 cauzione d’uiia promessa
o patto. Qui pare voglia significare
gara, o simili. Viene probabilmente
dal latino radium, secondo dice il
Caslelvetro , il quale soggiunge : « E
significa propriamente quella promes-
sa, che le parti tra loro fanno in giu-
dicio, quando vogliono piatire in pena
0 di colui che domanda ingiustamente
quel che sa non dovere avere , o di
colui che niega di pagare quel di che
sa esser debitore. E questo promettere
si dice ingaggiare; si come si vede
nelle Novelle Antiche: le parli s' in-
I gaggiaro; appresso si trasporta ad
ogni guadagno, che meritando e quasi
piatendo s’ acquista. Laonde Dante
chiamò gaggi de’ Reati i premii eterni
dati loro da Dio per gli suoi meriti:
Ma nel commen^nrar de’noatri paggi
Cui iiirrtu è pariti dt nostra tctlzta. n
Significa anche le paghe c premii de’
soldati, come si rileva da G. \illaiii:
« 1 Tedeschi non potendo avere le
loro paghe e gaggi dal Bavaro ec. »
i pare, per similitudine, si chia-
< ma ridili che è fermamente obbligato
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CANTO SESTO.
117
ad alcano ; e l’ usò, infra gli altri ,
Dante da Maiano :
E quella cui son gaggio,
Non credo mai le risuTTenga.
E in qnest’ullimo significato deriva,
secondo il Castelvetro medesimo, da
vadet , clic significa la persona pro-
mettente c obbligata.
29. ch’egli assaggino il metallo.
Egli invece cb’ eglino. As-aggiare il
metallo poi significa assaggiare, pro-
vare le armi. — Che penson di tenir
costoro al ballo? Clic si danno a cre-
dere di venire a intraprendere una
leggiera bisogna nel venire a pro-
varsi meco? Venire e andare al ballo,
per andare ad una festa di ballo
manca nei V'ocabolarii ; ina ve n’ha
uno spiccato esempio neWAjone, Can-
to I, St. 28:
Con Ine, eli’ era ancor donna assai fresca.
Venne al ballo ìnùtata la IJgIiuola.
38. superba. Per superbia, in ser-
vigio della rima. — una nespola acer-
ba. Nespola è nome di butta noia,
derivato dal greco osvTTi/oy, che i
latini dissero mespilum; d’onde gli
Italiani, cambiala la m in n, fecero
nespila, c poi nespola. Appiccare una
nespola acerba significa percuotere con
gran forza, gravi ietu. — balenar Do-
done. Balenare è quell’ondeggiarc che
fa chi per ebbrezza o per altra ca-
gióne non può reggersi io piedi.
A2. Rinaldo aveva ec. Badava a
non ferire Orlando in parto dov’ e’ po-
tesse cagionargli ferita pericolosa.
•54. Frusberta e Cortana. Nomi
delle spade dei due combattenti. Ri-
cordisi che Orlando avea tolta Cortana
a Ei mellina. — che con essa impen-
nella. Impenncllaie significa dar di
pennello, o delle pennellate. Qui vale
liguratanienle colpire.
43. riscaldalo. Preso da ira; e
dìcesi coinuncniente.
48. come scocca il giorno. Dicesi
anche camnnementc, alla punta del
giorno.
35. Questo brieve mi diè. Breve
è veramente un pìccolo involto entro
al quale pongonsi orazioni, relìquie, e
simili cose, c che portasi al collo per
devozione. Brevi cbiamansi anche le
lettere c decreti papali. Qui sta per
lettera scmplicenicule.
G2. se bene ogni cosa raceoppio.
Accoppio, raccozzo.
tifi. Are’li io. T’avrei io?
C8. corbacchion di campanile.
Corbacchione è accrescitivo di corba ,
e vale corbo o corvo grande. Corbac-
chione di campanile poi dicesi a chi
non si lascia aggirare o muovere da
parole; ed è presa la figura appunto
dai corvi , i quali usando ricoverarsi
I in luoghi eminenti, come ton i o cam-
panili , ancorché suonino le campane
non se ne spaventano e non fuggono.
Nello stesso significato dicesi anche
Formicon di sorbo.
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1J8
IL MOKGANTE MAGGIORE.
CAIVTO SETTinO.
Itiiialdo c Orlando, le visiere alzate,
S’ abbracciano Ira lor con (jran diletto :
l’cr Mnr(ranlc racquista liberiate
Uiidon , eli’ avea le rorclio addirim|ictto:
Il gigante le membra arfardcllate
Di Manfredunio sfardellando , un getto
Ne fa ’n un riiiinc; il re dall’acqne tratto,
Ù vinto, ed in Soria torna per patto.
1 Osanna, o Re del sempiterno regno.
Che mai non abbandoni i servi tuoi,
£ perdonasti a quel che gustò il legno
Che gli vietasti già per gli error suoi ;
Aiuta me, sovvien tanto il mio ’ngegno,
Che basti al nostro dir come tu puoi,
Sicch’io ritorni alla mia storia bella.
Cogli occhi volli a te come a mia stella.
2 Rinaldo il conte Orlando rimirava ;
Orlando non sapea di tale effetto,
E Ulivieri spesso sogghignava ;
Non gli conosce, eh’ avevon 1’ elmetto.
Allor Rinaldo a parlar cominciava :
A questi di trovammo in un boschetto
Tre cavalicr cristian feroci e forti,
E tute a tre gli abbiam lasciali morti.
3 Per certo oltraggio, che ci vollon fare,
A corpo a corpo insieme ci sfidammo,
£ cominciammo le spade a menare ;
Finalmente di forza gii avanzammo;
Credo eh’ e’ lupi gli possin trovare,
Chè nel boschetto morti gli lasciammo :
Ma cavalicr parean da .spada c lancia,
Ch’eron venuti del regno di Francia.
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CANTO SETTIMO.
119
4 Orlando, quando udì qneste parole.
Rispose presto : Bene avete fatto;
Tutti son rubator, non me ne duole;
Io n’ ho già gastigati più d’un tratto;
Cosi sempre a’ nimici far sì vuole :
Ma dimmi, cavaliere, ad ogni patto
I nomi lor, per veder s’ io conosco
Di questi alcun eh’ uccidesti in quel bosco.
5 Disse Rinaldo : Egli ha nome Ulivieri
L’ un di costor, che dice era marchese ;
L’altro da Montalban quel buon guerrieri,
Ch’aveva fama per ogni paese:
Credo che ’l terzo anco era cavalieri,
Dodon chiamato figliuol del Danese.
Orlando udendoi si maravigliava,
Ma del lion con seco dubitava.
6 Segui più oltre il suo ragionamento
Rinaldo : lo intendo mostrarvi i cavagli.
Orlando disse: Ne son ben contento,
Ch’e’nomi lor non posso ritrovagli.
Vanno a veder: Orlando ebbe spavento,
Subito come comincia a guardagli.
Perchè conobbe presto Vegliantino,
E disse: Il ver pur dice il Saracino.
7 Alla sua vita mai fu più doglioso,
E poco men che in terra non cadea:
Ulivier,. che il vedea si doloroso,
Drento all’ elmetto con seco ridea :
Tornano in sala, e ’l paladìn famoso
Vendetta farne fra sè disponea,
E disse : S’ altro tu non vuoi parlarmi ,
A Manfredonio al campo vo’ tornarmi.
8 Disse Rinaldo: Alquanto v’aspettate.
E menò in una camera il barone ;
' E poi che l’arme sue s’ebbe cavate,
La sopravvesla e l’ altre gucrnigionc,
Mostrava le divise sue sbarrate;
Trassesi l’elmo, e cosi il Borgognone:
Orlando, quando Rinaldo suo vede.
Per gran letizia tramortir si crede.
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120
IL MOBGANTE MAGGIOBE.
9 Abbraccia mille volle il suo cugino;
Ulivieri abbracciava il suo cognalo;
Diceva Orlando : 0 giusto Iddio divino,
Che grazia è questa, eh’ io t’ ho qui trovato !
Poi domandò dell’ altro paladino :
Dodon dov’é, che tu m’hai nominato?
Disse Rinaldo: Sappi che Dodone
£ quel che venne |>reso al padiglione.
10 Morganle vide costoro abbracciare,
E disse al conte: Per Ina gentilezza,
Chi son costor non mi voler celare,
Chè tu gli abbracci con tal tenerezza.
E poi ch’udì Rinaldo ricordare,
E Ulivieri, avea grande allegrezza,
E ’ngìnocchiossi, e per la man poi prese
Rinaldo presto -e ’l famoso marchese.
11 E pianse allor Morganle di buon core.
Re Caradoro in Zambia era venuto;
Dicea Rinaldo: Cugin di valore.
Per mio consiglio, se a le par dovuto.
Non tornerai nel campo ; i’ ho timore.
Che Manfredon non t’abbi conosciuto,
0 come a Carador Gan gli abbi scritto :
Ma Dodon nostro ove rimati sì alllilto?
12 Disse Morganle: Lascia a me il pensiero;
Io lo condussi al padiglion di peso.
Cosi r arrecherò qui come un cero.
Orlando disse: .Morganle, io l’ho inteso,
E del tuo aiuto ci farà mesliero.
Morganle più non islelte sospeso;
Disse : A me tocca appiccar tal sonaglio,
Ma ogni cosa farò col battaglio.
13 A Manfredonio andò cautamente,
E per ventura giugneva il gigante,
Che Dodon era a Manfredon presente,
Che lo voleva impiccar far davanlc
Al padiglione ; Dodone umilmente
Si raccomanda: in questo ecco Morganle,
E disse a Manfredon : Che vuoi tu fare?
Manfredon disse: Costui fo impiccare.
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CANTO SETTIMO.
121
■14 Non lo impiccar, disse Morgante presto:
Dice Brunoro ch’io ’i meni alla lerra,
E dè’ saper quel eh’ e’ faccia per questo ;
Tu sai ch’egli è fìdato, e eh’ e’ non erra.
Rispose Manfredon : V’enga il capresto,
Io vo’ impiccarlo come s’ usa in guerra ;
Sia che si vuole, o seguane al fin doglia,
Ch’ io mi trarrò, Morgante, questa voglia.
15 Dicea Morgante: Il tuo peggio farai,
Chè si potrebbe disdegnar Brunoro;
E se tu perdi lui, tu |>erderai
Me e il tuo stato col tuo concistoro :
Io il menerò, se tu mi crederai ;
Credo eh’ accordo tratti Caradoro ;
E forse ti darà la sua figliuola,
Ch’ io n’ ho sentito anch’ io qualche parola.
16 Manfredon disse : Per Io Iddio Macone
È già due di eh’ io giurai d’ impiccarlo.
Come tu vedi, innanzi al padiglione;
Non è Macone Iddio da spergiurarlo.
Allor chiamava il suo Cristo Dodone,
Che non dovessi cosi abbandonarlo.
Morgante, udendo far questa risposta,
A Manfredon più dappresso s’ accosta.
17 II padiglione squadrava dintorno.
Vide eh’ egli era un padiglion da sogni ;
Prima pensò d’ appiccargli un susorno
AI capo, e dir eh’ a suo modo zampogni;
Poi disse: Questo sare’ poco scorno,
E credo eh’ altro unguento qui bisogni :
E Gnalmenle il padiglion ciutTava
Di sopra, e tutte le corde spezzava.
1$ Dette una scossa si fiera e villana,
Ch’arebbe fatto cader un castello ;
0 s’ egli avessi scossa Pietrapana,
Arebbe fatto come fece a quello :
Cosi in un tratto il padiglion giù spiana,
E d’ogni cosa ne fece un fardello,
E Manfredonio e Dodon vi ravvolse,
E fuggi via, c ’l suo battaglio tolse.
I. Il
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122
IL MOHGANTE MAGGIORE.
19 E in sulla spalla il fardel si gillava,
Dall’ altra man col battaglio s’ arrosta ;
Il capo a questo e quell’ altro spiccava
Di que’ Pagan che volevon far sosta :
Talvolta basso alle gambe menava,
Tanto che ignuno a costui non s’accosta,
E teste e gambe e braccia in aria balzano :
La furia è grande, e le grida rinnalzano.
30 Subito il campo è tutto in iscompiglio,
E corron tutti come gente pazza ;
Morgante fece il battaglio vermiglio'
Di sangue, e intorno con esso si spazza :
A chi spezza la spalla, e a chi il ciglio ;
E Manfredon quanto può si diguazza,
E grida, e scuote, e chiamava soccorso :
Dodon più volte l’ ha grafllato e morso.
21 Morgante il passo quanto può studiava ,
E a dispetto di tutti i Pagani
Passato ha ’l fiume, e ’l fardel ne portava ;
Tanto menato ha il battaglio e le mani.
Ma finalmente Dodone affogava;
Onde gridò: Se scacciati hai que’ cani.
Posami in terra, ch’io son mezzo morto.
Per Dio, Morgante, e donami conforto.
23 Morgante in terra posava il fardello,
Chè non aveva più d’ intorno gente,
E confortava Dodon cattivello;
Ma poi di Manfredon poneva mente,
Ch’ era ravvolto come il fegatello :
Vide che morto parea veramente,
E disse: Te non porterò alla terra ;
Poi che se’ morto, finita è la guerra.
2.1 Disse Dodon : Deh gettalo nel fiume.
Morgante vel gittò, sanza più dire ;
Ma presto ritornar gli spirti e ’l lume,
Però che 1’ acqua lo fe risentire,
Com’ egli è sua natura e suo costume ;
E Manfredon comincia a rinvenire:
E corse là di Pagani una tresca ,
Tanto che in fine costui si ripesca.
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CANTO SETTIMO.
123
2* Morganle con Dodon suo se n’andava,
E rioicnollo a Rinaldo ed Orlando,
E la novella a coslor raccontava,
Come il Pagan venne al fìume giltando ;
E che sia morto con seco pensava,
E come il padiglion venne spianando.
Non domandar che risa fuor si caccia ;
E Dodon mille volte Orlando abbraccia.
25 E intese tutto ciò eh’ era seguito,
E come Gan gli seguitava ancora.
Re Manfredon, che s’era risentito.
Con gran sospiri in sul campo dimora,
Maraviglialo del gigante ardito;
E come uscito dell’ acqua era fora,
E d’ogni cosa che gli era incontrato.
Gli pareva a lui stesso aver sognato.
26 In questo giunse un messaggier di Gano,
Che r avvisava come Caradoro ;
E com’ e’ v’ è il signor di Monlalbano,
E Ulivieri e Dodon con costoro,
E nel suo campo il Senator Romano,
E che cercavan sol del suo martoro ;
E come il tradimento doppio andava,
Per pigliar due colombi a una fava.
27 Ah, disse Manfredonio, or la cagione
So perchè Orlando è ilo alla cittade:
E quel prigion doveva esser Dodone ;
Or si conosce la lor falsitade:
Or son tradito, or son giunto al boccone,
E vassi pur a Roma per più strade:
Ma tradilor non credevo che il conte
Fussi , nè ignun del sangue di Chiarmonte.
2S Or aremo acquistata qua la dama,
E Caradoro vinto con assedio ;
Questi son paladin di tanta fama,
Ch’ io non conosco al mio stalo rimedio :
Questo gigante ha condotto la trama,
Perchè più in dubbio mi teneva e tedio.
Che fussin tutti baroni atfricanti,
Chè tra’ Cristian non suol’ esser giganti.
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124
IL HORGA^TB MAGGIORE.
29 Ebbe re Manfredon tanta paura,
Che si pensò la nollc di far alto;
Poi disse : Noi siam si sotto alle mura,
Che non si può spiccar qui netto il salto;
E’ ci bisogna provar l’ armadura.
Ed aspettar de’ nimici I’ assalto;
Non sarà giorno, che Rinaldo e ’I conte
E Ulivieri scenderanno il monte.
30 E tutto il campo mio sarà in travaglio,
E ne verrà Dodon per far vendetta,
E quel dia voi con quel suo battaglio
Alla mia gente darà grand’ istretta :
Pur ci conviene star fermi al berzaglio ,
E Macon priego che le man ci metta :
E mentre ch’e’dicea queste parole.
Tutti i baron per suo consiglio vuole.
31 ' Ed accordarsi che si stessi saldo.
Tutta la notte stetton con sospetto;
Morgante, ch’era di potenzia caldo.
La sera al conte Orlando aveva detto :
Poi ch’egli è morto Manfredon ribaldo.
Non sarà prima di, ch’io vi [)romctlo
Ch'io voglio andar col mio battaglio solo
Tra que’ Pagani in mezzo dello stuolo,
32 Ed arder le trabacche e’ padiglioni;
Colla granata gli voglio scacciare ;
Vedrete che bel fumo da’ balconi,
E tutto il campo a furia spulezzare:
lo gli farò fuggir come ghiottoni;
Le pecchie soglion pel fuoco sbucare :
Io |iorterò il battaglio c ’l fuoco meco.
Vedrete poi che mazzate di cieco.
33 Mancato è il capo, male sta la coda;
Adunque male star dee tutto il dosso ;
Per gli occhi a lutti schizzerà la broda:
Io schiaccerò la carne, i nervi e l’osso, ♦
Quand’ io darò qualche bacchiata soda ;
So ch’ai principio n’arò molli addosso,
Ma tulli poi gli vedrete fuggire.
Orlando per le risa è ’n sul morire.
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CANTO SETTIMO.
125
3A E disse : Va, eh’ io ne son ben contento ;
E poi si volse ove Carador era,
E si dicea : Questo ragionamento
So che saranno parole da sera,
Che come fumo ne le porla il vento,
O dislruggonsi al Sol qual neve o cera ;
A me par, Caradoro, da vedere
Quel che fa il campo e le pagane schiere.
35 Se per sé stessi si dipartiranno.
Lasciagli andar, che mi par più sicuro;
Però che sempre è nel combatter danno,
E solo Iddio sa il tutto del futuro :
Vedrem pur che partilo piglieranno,
E slaremci domati qui drento al muro;
Non si partendo il di, poi gli assaltiamo,
Chè in ogni modo te salvar vogliamo.
36 Poi ci darai la tua benedizione,
E cercheremo ancor meglio il levante.
E cosi disse Rinaldo e Dudone,
E Ulivier, ma non v’ era Morgante.
Vannosi al letto con questa intenzione,
Ch’ avevon tulli cenalo davante ;
E Caradoro avea massimo onore
A tutti fallo con allegro core.
37 Morgante avea mangiato quel che vuole,
Un gran castron, che gli fu dato arrosto;
Andossi prima a letto che non suole,
Chè com’c’ disse fare era disposto;
Nè prima in oriente appare il Sole
L’altra mattina, eh’ e’ si leva tosto;
Prese il battaglio e certo fuoco in mano.
Ed avviossi nel campo pagano.
58 I Saracin trovò eh’ erano armali.
Ma pure il fuoco in un lato appiccoe,
Dov’ eran i destrier sotto i frascati.
Tanto che molti di quegli abbrucioe ;
Ma furon presto scoperti gli aguati,
E in mezzo a più di mille si trovoe :
E tutto il campo a furia sollevassi;
Ognuno addosso al gigante cacciossi.
it*
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126
IL HORGANTE MAGGIORE.
39 E gli feciono intorno un rigolello,
Che lo faranno cantare in tedesco ;
Al ponte di Parisse era in effetto,
In mezzo a’ Saracini, e stava fresco:
Chi getta lance, e chi sassi nel petto,
Pure al battaglio stavano in cagnesco;
Ma tanta gente alla One v’ è corso.
Che bisognava a Morgante soccorso.
40 E tuttavia più la turba s’ affolta :
Era sì grande e si grosso il gigante,
Ch’ ognun che getta, facea sempre colta.
Pur molti morti n’ aveva davante ;
Chè chi toccava il battaglio una volta.
Lo sfracellava dal capo alle piante :
E spesso tondo il battaglio girava,
E cento capi per l’aria balzava,
4t Tanto che ’l cerchio faceva allargare;
Alcuna volta menava frugoni ,
Che si sentien le corazze sfondare,
E pesta loro i fegati e’ polmoni;
Quando si sente arnese sgretolare,
E d’ogni gamba farne due tronconi :
E grida e mugghia il gigante feroce.
Tanto eh’ assai ne stordisce la voce.
42 E pareva ogni volta che mugghiava.
Quando Cristo Quem quwrilis diceva,
Ch’ ognuno a quella voce stramazzava;
E tanti morti d’ intorno n’ aveva,
Ch’ ognun discosto alla fine lanciava,
E chi con archi, e chi dardi traeva:
Tal che Morgante di motte uova succia
Per te ferite, e com’orso si cruccia.
43 Egli era come a dare in un pagliaio,
E già tutto è forato come un vaglio,
E si volgeva com’ un arcolaio
A’ Saracin che facieno a sonaglio ;
E mai non uccideva men d’ un paio,
Quand’ e’ menava più lento il battaglio :
E più di cinque mila n’ avea morti.
Ma ricevuto da lor mille torli.
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CANTO SETTIMO.
127
44 Avea nel dosso migliaia di zampilli ,
Che gettan sangue già per le punture,
Ch’ erano stale d’altro che d’ assilli;
Chi dà percosse di mazze e di scure,
Chi ’l petto par, chi le gambe gli spilli ;
Chi dà sassate che parevon dure :
Era un diluvio la gente eh’ è intorno.
Per ammazzare il gigante quel giorno.
45 E già pel campo il romore è si forte,
Gh’ alla città ne fu tosto seniore ;
Le guardie, ch’eran lasciate alle porle,
Cominciorno a gridar con gran furore.
Come Morganle era presso alla morte.
Diceva Orlando: Vedrai bello errore.
Che Manfredonio sarà pur scampalo,
E questo matto ha il suo campo assaltato.
46 Tanto andata sarà la capra zoppa.
Che si sarà ne’ lupi riscontrala ;
Questa sua furia alcuna volta è troppa;
E’ fece pur in ver pazza pensata
D’ardere un campo come un po’ di stoppa,
E come a’ topi far colla granala :
Ma il topo sarà egli in questo caso
Al cacio nella trappola rimaso.
47 Subito fece i suo’ compagni armare,
E Caradoro le sue gente tutte.
Perchè Morganle si possi aiutare
Da’ Saracin, che gli davon le frutte ;
Cosi avvien chi pel fango vuol trottare,
E può di passo andar per le vie asciutte :
E fece a S'^eglianlin la sella porre
Orlando, che ’l deslrier suo vuol pur torre.
4 $ A Ulivier si fe dar Durlindana,
Ed a lui delle Collana c Rondello,
E la bella e gentil Meridiana
Ulivier arma, eh’ è ’l suo damigello :
Corsono al campo alla turba pagana
Si presto ognun, che pareva un uccello.
Morgante vide il soccorso venire,
E col battaglio riprese più ardire.
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128
IL HORGANTE MAGGIORE.
49 E cominciava a sfondar que’ Pagani,
E far balzar giù molti della sella,
E capi e braccia in tronco, e spalle e mani.
Tocca, e ritocca, e risuona, e martella;
I Saracini uccide come cani:
Un mezzo braccio v’ alzar le cervella ;
E sopra i corpi morti si cacciava
Addosso a’ vivi, e la rosta menava.
60 Ed ogni volta levava la mosca,
Ma ne portava con essa la gota,
O dov’e’ par che bruttura conosca.
Sempre col pezzo ne beva la nuota ;
L’aria pareva sanguinosa e fosca.
Si spesso par che il gigante percuota :
Balzano i pezzi di piastre e di maglia ,
Come le schegge d’ intorno a chi taglia.
51 E spesso avvenne, eh’ un capo spiccoe
E poi quel capo ad un altro percosse
Si forte, che la testa gli spezzoe,
E morto cadde che più non si mosse :
O quanti il giorno all’ inferno mandoe!
Quanti morti rimason per le fosse!
E Manfredonio già s’ è messo in ponto
Con molta gente, e ’n quella parte è giunto.
6:» Dall’altra parte Orlando è comparito,
E il sir di Montalban tanto gagliardo,
Ch' accetta prima eh’ uoro facci lo ’nvito :
E fece un salto pigliare a Baiardo
In mezzo dove il gigante è ferito:
Sopra gli uomin saltò sanza riguardo,
E ritrovassi al rigoletto in mezzo
De’Saracin, ch’ornai faranno lezzo.
53 Quando Morgante vedeva quel salto.
Parve che ’l cuore in aria si levasse,
Chè più di dieci braccia andò in aria alto
Baiardo, prima che in terra calasse.
Or qui comincia il terribile assalto;
Rinaldo presto Frusherta sua trasse.
Quella che fesse il mostro dall’ inferno.
Per far de’ Saracin crudo governo.
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CANTO SETTIMO.
129
54 Punte, rovesci, tondi, stramazzoni,
Mandiritli, traverse con fendenti,
Certi stramazzi, certi seri^ozzoni.
In dieci colpi n’ uccise ben venti ;
E chi partiva intìn sotto asti arcioni.
Chi ’nfino al petto, e ’i manco intìno a’ denti;
E le budella balzavan per terra :
Mai non si vide tanta crudcl guerra.
55 Orlando nostro sprona Vesliantino,
Giunse d’ un urlo tra quel popol fello.
Che più di cento caccia a capo chino;
Poi cominciava a toccare a martello ;
Non tocca il polso sopra il manichino ;
Facea de’Saracin come un macello,"
Ed avea detto: Non temer, Morgante;
Cesare è teco, ove é ’l signor d’ Angrantc.
6G Queste parole avean sì sbigottiti
I Saracin, ch’assai del popol fugge,
E buon per que’ che son prima fuggiti ,
Tanto i nostri baron già ciascun rugge :
E’ ne faccan gelatine e mortiti ;
Appoco appoco la turba si strugge :
E Ulivieri e Uodon giunti sono
Con romor grande, che pareva un tuono.
57 E Manfredonio in sul campo scontrava;
La lancia abbassa, chè lo conosceva:
Re Manfredonio il cavallo spronava,
E Ulivieri allo scudo giugneva,
E ’nsino alla corazza lo passava
Tanto che tutto d’ arcion lo moveva :
E sì gran colpo fu quel che gli diede,
Ch’ Ulivier nostro si trovava a piede.
5S Ed ogni cosa la donzella vide,
Ch’ era venula con sua gente al campo,
E fra sè stessa di tal colpo ride ;
Ulivier come un lion mena vampo,
E per dolore il cor se gli divide,
Dicendo: Appunto al bisogno qui inciampo;
Caduto son dirimpetto alla dama.
Donde ho perduto il suo amore e la fama.
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130
IL HORGAMTE MAGGIORE.
59 Guarda se a lempo la trappola scocca ;
Non si potea racconsolar per nulla :
Sempre fortuna alle gran cose imbrocca,
E ’niìn sopra la soglia ci trastulla:
Non domandar se questo il cor gli tocca.
Per gentilezza allor quella fanciulla
Se gli accostava, e diceva : Ulivieri,
Rimonta, vuoi tu aiuto? in sul destrieri.
60 Or questo fu ben del doppio lo scorno,
£ parve fuoco la faccia vermiglia ;
Are’ voluto morire in quel giorno.
Meridiana pigliava la briglia.
Dicendo : Monta, cavaliere adorno.
Or questo è quel ch’ogni cosa scompiglia,
E pel dolor dubitò sanza fallo.
Non poter risalir sopra al cavallo.
61 Morgante aveva ogni cosa veduto,
Com’ Ulivier dal gran re Manfredonio
Del colpo della lancia era caduto,
E la donzella vi fu testimonio ;
E disse: Io proverò, come è dovuto,
S’io gli potessi appiccar questo conio:
Io intendo d’ Ulivier far la vendetta.
E ’nverso Manfredon presto si getta.
62 Meridiana, che ’l vide venire.
Gridava: In drieto ritorna, Morgante;
E Manfredonio correva assalire,
Per far vendetta del suo caro amante.
Morgante pur lo veniva a ferire,
E com’ e’ giunse, gridava il gigante:
Tu sei qui, re di naibi, o di scacchi;
Col mio battaglio convien eh’ io t’ ammacchi.
63 Disse la dama : La battaglia è mia ;
E se ci fussi al presente qui Orlando,
Non mi faresti si gran villania ;
Tirati a drieto, io ti darò col brando:
Venuto è qua colla sua compagnia.
La fama e ’l regno di tormi cercando.
Morgante in drieto alla fine pur torna.
Per ubbidir questa fanciulla adorna.
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CANTO SETTIMO.
131
61 Trovò Dodone in luogo molto stretto,
Ch’ era venuto tra cattive mane ;
Pur s’aiutava questo giovinetto,
E cominciava a dar mazzate strane,
A questo e quello spezzando l’elmetto.
Tanto che gli elmi faceva campane,
Quando egli assaggian di quel suo picciuolo;
Ma dà di sopra come all’ oriuolo.
65 E rimaneva il sesno ov’ e’ percuote ;
Quanti ne tocca il battaglio feroce.
Non si ponea più le mani alle gole,
Chè ne facea com’ c’ fussi una noce ;
Alcuna volta facea certe ruote,
Ch’ a più di sette domava la voce.
Com’ un nocciol di pesca ogni elmo stiaccia,
E fa balzar giù capi c spalle e braccia.
66 E rimesse Dodon sopra il destrieri;
Dodon gridava al popol soriano :
Io ne farò vendetta, e d’oggi e d’ieri.
Quando impiccar mi volea quel villano.
In questo tempo il famoso Ulivieri
Era pel campo colla spada in mano,
E dove Manfredon combatte, arriva.
Colla donzella florida e giuliva.
67 Un’ora o più combattuto questi hanno,
E non si vede de’ colpi vantaggio:
Ulivier tutto arrossi , come fanno
Gli amanti presso alla dama, il visaggio;
E disse : Dama, non li dar più affanno.
Lascia |>ur me vendicare il mio oltraggio :
Io vorrei esser morto veramente,
Quand’io cascai, che tu v’eri presente.
6$ Alla mia vita non caddi ancor mai,
Ma ogni cosa vuol cominciamento.
Disse la dama: Tu ricascherai,
Se tu combatti, cento volte e cento,
E sempre avvenir questo troverai
A cavalier che sia di valimenlo:
Usanza è in guerra cader del destriere,
Ma chi si fugge non suol mai cadere.
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132
II. MORGANTE MAGGIORE.
69 Io vo’ con Manfredon, tu mi consenti.
Che la battaglia mia sia in ogni modo,
Per vendicar non un’ ingiuria o venti,
Ma mille c mille, e che paghi ogni frodo.
Disse Ulivier: Se cosi ti contenti.
Che poss' io dir, se non eh’ io aflermo e lodo?
Re Manfredon, che le parole intese.
In questo modo parlava al marchese.
70 Per Dio ti priego, haron d’alta fama.
Tu lasci me come amante fedele
Perdere insieme e la vita e la dama,
Chè cosi vuol la fortuna crudele:
Cercato ho quel che cercar suol chi ama,
Trovato ho losco per zucchero e mele :
E poi che la mia morte ognun la vuole.
Per le sue man morir non me ne duole.
71 So ch’io non tornerò più nel mio regno,
So che mai più non rivedrò Seria,
So eh’ ogni fato m’ avea prima a sdegno,
So che fìa morta la mia compagnia ;
So eh’ io non ero di tal donna degno.
So ch’aver non si può ciò ch’uom desia:
So che per forza di volerla ho il torlo,
So che sempre, ov’io sia, l’amerò morto.
72 Non potè far Meridiana allora.
Che del suo amante. pur non gl’ increscessi,
E disse: Cosi va chi s’innamora;
Se mille volle uccider lo potessi ,
Per le mie man non piaccia a Dio che mora.
Quantunque a morte si danni egli stessi :
E pianse, si di Manfredon gli dolse,
Ch’ essere ingrata a tanto amor non volse.
7.'> E ricordossi ben, che combattendo
L’aveva molle volle riguardata;
Dicea fra sé : Perchè d’ ira m’ accendo
Contro a costui? perchè son sì spietata?
Ciò che fallo ha, com’ io pur veggo e ’nlendo,
E per avermi lungo tempo amala :
Non fu lodata mai d’ esser crudele
Alcuna donna al suo amante fedele.
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CANTO SETTIMO.
133
74 Questo non vuol per certo il nostro Dio.
Non sa più che si far Meridiana,
E disse : Manfredon , se il tuo desio
È di morir, non voglio esser villana.
Se tu facessi pel consiglio mio.
Per salvar te con tua gente pagana.
Tu soneresti a raccolta col corno,
E in oriente faresti ritorno.
75 Poi che non piace al tuo fero destino,
Ch’ io sia pur tua, come tu brami e vogli.
Perchè pugnar pur contro al tuo Apollino ?
Io veggo il legno tuo fra mille scogli :
Tornali col tuo popol saracino,
E ’l nodo del tuo amor per forza sciogli.
A questo Manfredon rispose forte:
Non lo sciorrà per forza altro che morte.
76 Allor segui la donzella più avarile :
0 Manfredon, di le m’ incresce assai ;
E diègli un prezioso e bel diamante:
Per lo mio amor, dicea, questo terrai.
Per ricordanza del tuo amor costante,
E pel consiglio mio ti partirai ;
E se tu scampi, e salvi le tue squadre,
D’ accordo ancor mi ti darà mio padre.
77 Oijni cosa si placa con dolcezza,
E chi per forza vuol tirar pur l’arco.
Benché sia sorian, sai che si spezza :
Ogni cosa conduce il tempo al varco ;
E priego le per la tua gentilezza.
Che tu comporti ogni amoroso incarco,
E sia contento di qui far parlila,
E in ogni modo conservar la vita.
78 F..a dipartenza, perdi’ e’ non ci avanza
Tempo, eh’ io veggo morir la tua gente,
Tra noi sia fatta, c questo sia bastanza.
Poi che più oltre il ciel non ci consente ;
E quel gioiel terrai per ricordanza,
Ch’ io l’ ho donalo, sempre in oriente :
E se fortuna c ’l ciel t’ha pure a sdegno.
Aspetta tempo, e miglior fato e segno.
I 13
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13i
IL MOUGANXe MAGGIORE.
79 Qucsl’ uKima parola al cor s’ affisse
A Manfrcdonjo udendo la donzella,
Che mai più fermo in diaspro si scrisse:
Volca parlare, e manca la favella ;
Ma fìnalmente pur piangendo disse :
Aspella tempo, e miglior fato e stella,
Poi ch’ai del piace, e lórnali in Soria;
Quanto son vinto da tal cortesia!
80 Quando sarà quel di, quando fìa questo?
Or quel che non si può, voler non deggio.
Io tornerò, per non l’ esser molesto ;
Ricórdali di me, ch’altro non chieggio :
Col popol mio, coli quel che c’è di resto,
Chè molti morti pel campo ne veggio,
Ritornerò sanza speranza alcuna.
Nel regno mio, se cosi vuol fortuna.
SI E per tuo amor terrò questo gioiello,
Questo sempre sarà presso al mio core:
S’ io ho peccalo, lasso mcschinello.
Contro al tuo padre, contro al mio signore,
Incolpane colui eh’ è stalo quello
Che m’ ha condotto dove vuole. Amore;
E in ogni modo a te chieggio perdono,
E viver per tuo amor contento sono.
82 E poi si volse al marchese Ulivieri,
E chiese a lui perdon del cadimento :
Ulivier gli perdona volentieri ,
Che del suo dipartir troppo è contento.
Perché eran due gran ghiotti a un taglieri ;
Ed era stalo alle parole attento.
Che dello aveva Meridiana a quello,
E confermalo e postovi il suggello.
83 E poi ch’egli ebbe lagrimato alquanto.
Re Manfredonio al fin s’accommiatava;
E la donzella con sospiri c pianto.
Addio dicendo, la man gli toccava :
E dèi pensar se si cavorno il guanto.
Ulivier presto Orlando ritrovava,
E dicea ciò eh’ egli avea fermo c saldo ;
E molto piacque ad Orlando e Rinaldo.
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CANTO SETTIMO.
135
84 Venne per caso quivi Caradoro,
E inlese come l’accordo era fallo.
Morganle insieme vergendo cosloro,
Inverso lor col ballaglio era Irallo,
E quel che fossi saper vuol da loro ;
Ma col ballaglio non dava di piallo.
Orlando disse: Non far più, Morsanlc.
Allor più forle comballe il gigunlc.
85 Re Manfredonio, c la sua compagnia
Conlenlo è di lasciar Meridiana,
Diceva Orlando, e lornarsi in Soria.
Morganle allora il ballaglio giù spiana,
E disse: Orlando, quesla era Ira via ;
E delle a uno una picchiala slrana:
Un allro ammacca, che parve di cera:
Ed anco queslo ne’ palli non era.
86 Orlando disse: 11 ballaglio giù posa.
Assai morii n’ abbiam per queslo giorno.
Re Manfredon sua genie dolorosa
Per lullo il campo raguna col corno:
E cosi la ballaglia sanguinosa
A queslo modo quel di lerminorno;
Come nell’auro dir seguirò poi.
Cristo vi guardi, e sia sempre con voi.
NOTE.
4 . a quel che gustò il legno. A
Adamo. Legno è poslo per albero , o
per il frullo di quello. Anche Dante
chiamò legno l’albero il di cui frutto
era stato dal Creatore Divino vietato
ad Adamo;
Legno è pin sa che fu morso da Evo^
E questa pianta si levò da esso.
Purgat., Canto XXIV.
8. le divise sue sbarrale. Cioè di-
vise a sbarre; che hanno sbarre che
dalla sinistra dello scudo vanno in
basso a terminarsi verso la destra.
42. a me tocca appiccar tal so-
naglio. Appiccar sonagli ad alcuno
vale propriamente dirne male , il che
diresi anche affibbiar bottoni senza
I ucchielli. Vedi Varchi, Ercolano. Qui
pare che Morgaiitc voglia dire : a me
I tocca pigliar sopra di me questa fac-
1 ccnda, questa impresa.
! 47. un susorno. K voce antica^ e
I significa surfuiulcazione , suffumigio.
S’usa ancora, come in questo luogo,
; per un forte colpo che si dà altrui in
I sul capo.
49. col battaglio s’arrosta. Ar-
rostarsi significa volgersi in qua c in
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136
II. HORGANTE MAGGIORE.
là, 0 con le braccia, o coll’ altre mem-
bra , sebermendosi a difendendosi ;
, giace poi cent'anni
Sanzà arrostarsi quando '1 faoci> il feggìa.
DijrTE, In/., Canto XV.
20. a» diguazza. S’agita, si di-
mena.
22. eaUìvello. Misero, infelice. —
Jfa poi di Manfredon poneva mente.
Il Vocabolario non ba esempli di por
mente di una cosa o persona ; ma sem-
pre a una eosa o a una persona.
23. di Pagani una Iretca. Tre-
sca, dice il Landino, significa ballo,
il qual babbi in sé veloce movimento.
I Greci cbiamavano Opriz/.eÌK l’ado-
razione, e il culto, 0 le cerimonie con
ebe onoravano gli Dei; e il Castelve-
tro tira da questa voce la etimologia
di tresca dicendo : « Opr,ey.Eiv. è ballo
ordinato in onore di Dio. * Ma non è
ebe cotal voce stesse ad indicare sol-
tanto una specie di ballo fatto ad onoro
degli Dei ; è bensì vero che fra le ce-
rimonie del culto pagano entrava spes-
sissimo la danza ; e un simil genere di
culto intese rendere al vero Dìo il re
David , di cui Dante disse :
Li precedeva al Kfuodidlo va«o
Tre-^candu alzutu rumile Salmista ^
E più e men che re era in quel caso.
Purgai., Canto X.
II Tassoni però, nelle Considerazioni
sopra il Petrarca, opina tresca esser
voce provenzale , e di fatto nel Glos-
sario Provenzale Latino si legge : « Tre-
scar, Choream intricatam ducere. »
Il Giambullarì, nel Cello, la vuole te-
desca, e il Menagio la fa invece deri-
vare dalla latina reslis (fune, corda).
Reslim ducere cbiamavasi il danzare
insieme de’ fanciulli c fanciulle tenen-
dosi per la mano l’un l’altro; onde
Terenzio negli Adel/i : u Tu inter eas
restim ductilans saltabis; « il clic
Aristofane disse; xépia/.v. s/y.siv. Da
tresca si disse trescone, un altro ballo
contadinesco. Ora tresca s’adopra an-
che a significare compagnia, c conversa-
zionedi piacere, e di seberzo, o jvo jvia.
Qui pare die valga turba o simili.
27. or son giunto al boccone.
Giuguere alcuno al boccone vale in-
calappiarlo, prenderlo ad inganno, il
ebe clicesi anche giugncrc alla schiac-
cia 0 al canto.
2fi. far allo. Fare alto significa
fermarsi, sislere. Sebbene il Vocabo-
lario dia a questo luogo del Morgante
lo stesso significato di fermarsi ; non-
dimeno sarei, quanto a me, di parere
che qui volesse piuttosto significare il
contrario, cioè, levare il campo, e an-
darsene ; e lo deduco da ciò che dice
dipoi Manfredonio.
30. cun quel suo battaglio. E cu-
riosa la etimologia che dà di questa
voce battaglio il Gìambnilari , facen-
dola derivare dalla aramea, o siriaca
Balas, che significa percuotere.
53. Per gli occhi a tutti schiz-
zerà la broda, liroda, per ischerzo,
invece di cervello. Broda e brodo
viene dal latino brodium, usato nello
stesso significato da Gaudenzio, nel
Trattato terzo De Paschate. Si legge
in Esiebio; |?7udiov , \,ypof ,
dal che deduce il Menagio venire il
latino brodium da questa stessa voce
51. parole da sera. Chiacchiere,
cose di niun momento. Quando uno
(dice il Varchi) dice cose non verisi-
mili, se gli risponde che son parole
da donne, o da sera, cioè da vegghia,
o veramente elle son favole e novelle,
uà/o? 7 f>Kix ®5 dicevano i Greci.
39. un rigoletto. Rigoletto è lo
stesso che ridda , spezie di ballo nel
quale (dice Giovan Battista Gellì) le
f ici-sone , presesi per la mano I’ una
’alira, vanno aggirandosi e cantando;
ed è cosi detto da quel ridursi insieme
tali persone. Quanto poi alla voce ri-
goletto, opina il Menagio venire da
riga, cioè linea, « perchè cominciando
i contadini questa sorta di ballo , si
mettono con le loro donne in fila, n
In questo luogo è posto figuratamente.
— Pure al battaglio stavano in ca-
gnesco. Ma riguardavano con paura
il battaglio.
41. menata frugoni. Frugone è
pezzo di legno o bustone appuntato,
c alto a frugare, ariì.ty’Oi. Qui figu-
ratamente per pugno o percossa data
di punta.
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CA>TO SETTIMO.
137
42. molte uota «uccia Succiale
è attrarre a sè l’ umore e il sugo , e
quel tirare che si fa del Dato a sè ,
ristringendosi in sè slesso quando o
per colpo 0 per altro si sente grate
dolore.
43. rhe facicno a sonaglio. Fare
a sonaglio è lu stesso clic fare a mo-
sca cieca ; ed è nn certo giuoco pue-
rile, nel quale uno dei ragazzi, tirato
a sorte, deve bendarsi gli occhi, e gli
altri colle mani o con altra cosa si
danno a percuoterlo, ed egli cosi alla
cieca si va rivoltando, e percuotendo,
e cui giugno colla percossa deve ben-
darsi in sua vece ; il che diccsi star
sotto. E perchè colui che sta sotto
cerca di menar colpi forti, n’ò venuto
il modo di dire dare a mosea cieca,
dare a sonaglio, e simili, per menar
colpi spietati. Questo giuoco della mo-
sca cieca era usato eziandio dagli an-
tichi , i quali cbianiavanlo Musco
(enea.
44. assilli. Insetti della specie
delle mosche, ma alquanto più grossi.
I Latini gli chiamarono Asili, e i
Greci oi'irpoi, ondo Virgilio disse nel
terzo delle Georgiche ;
cui Homcn asilo
Romanum est, <estron Graii venere vocantes.
E perchè gli animali punti da tali in-
setti montano in grandissima smania,
si è detto assillare per infuriare c
smaniare, nel modo stesso che i Greci
da oìarpov fecero oItt^siv, che egual-
ineote significa montar nelle smanie ,
nelle furie. Chiamarono questo stesso
animale anche , ondo Escliilo
ne’ Supplichevoli :
HOTilotTrlV pólona., XtV»)T»JSl9V
Otarpov xaXSjiv auTOV or NsiIo'J
(TtsXa?.
Dai quali versi apparisce essere la voce
oriTjSOV d’origine egiziana. Noi chia-
miamo lo stesso insetto anche tafano,
dal latino iabanus, c mosca culaia,
perchè punge gli armenti, per lo più,
sotto la coda.
47. Cosi acricn. Cioè, cosi in-
contra a chi vuol porsi nel pericolo
senza bisogno.
49. e la rosta menava. Rosta
chiamasi qualunque arnese alto a far
vento, che i Latini chiamavan flabel-
tum , e che era fatto in principio di
foglie di alberi, speeialmenle di mir-
to, di acacia e di platano j da che per
similitudine si dissero roste anche i
ramueelli frondosi, onde Dante cantò ;
ruzerodo sì furie,
Clic della selva rouipieoo ugni rusta.
In questo luogo figuratamente è dato il
nome di rosta al battaglio rhe Mor-
ganle andava agitando.
52. ch’ornai faranno lezzo. Coi
lor cadaveri ammorberanno I’ aria ;
chè lezzo è mal’ odore prodotto da
checchessia , e viene dal Ialino olere
in questo modo; olere , olelum, ole-
tium, letiam, letio, lezo, lezzo. Cosi
il .Menagio.
51. certi sergnzzoni. Gli archi-
tetti chiamano sergozzoni quei soste-
gni , che comunemente diconsi men-
sole ; e da questi si è esteso tal nome
a colpi dati colla man chiusa allo ’nsù j
quasi rhe , osserva la Crusca , dando
si faccia mensola alle mascelle. V’iene
da sotto e da gozzo, perchè e colpo
dato sotto il gozzo. Comunemente di-
ccsi ora sorgozzone.
55. a toccare a martello. A per-
cuotere, a ferire. Martello deriva dal
latino marciis che ha lo stesso signi-
ficato , sebbene il Giombullari voglia
farlo voce d’origine etnisca. — non
temer, Morgante, ec. Tolto da ciò
che narrasi di Giulio Cesare, il quale
essendo in nave, c levatasi gran tem-
pesta , c il nocchiero facendo segno
d’aver gran panr.i , rivoltoglisi escla-
mò: Quid times? Coesarem vehis.
56. mortiti. È il mortilo una spe-
cie di manicaretto a modo di gelatina,
detto così, secondo la Crusca, dall’es-
sere infuse dentro coceole di mortine,
cioè mortella. Vedi in questo a Can-
to XXIII , St. 38 , e a Canto XXVII,
St. 56.
59. imbrocca. Cioè, si oppone.
Imbroccare vai propriamente córre nel
segno, SZ0T5Ù sTtiruyxàvsiv. Forse
dal latino brocchus che significa un
dente clic non sta in fila o in linea
I-*
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138
II. MOUGANTE MAGGIORE.
cogli altri , ma viene un poclicUo in
fuori, si derivò la voce brocco per in-
dicare uno stecco o fuscello appuntato
in mollo da pungere j c di (|iii im-
broccare e dar nel brocco , per córre
nel mezzo del bersaglio, cioè in quello
stecco col quale è confitto il segno.
CI . quello conio. Cioè il battaglio.
C2. re di naibi, o di icacchi.
Naibi è un certo giuoco che fanno i
fanciulli. Manfrcdonio ò chiamato cosi
per iseherzo.
Ci. picciuolo. Picciuolo chiamas'.
il gambo delle frutte c di siiuil cosa,
e viene dal latino peliolut che signi-
fica lo stesso. I Greci lo chiamava-
no Qui chiama picciuolo per
iseherzo il battaglio di Morgantc.
CA]«TO OTTAVO.
Meridiana si battezza , e gode
Col marchese L'Iivicr d’ amore il frutto.
Ordisce Gano una novella frode.
Per cui non è in Parigi un occhio asciutto.
Dal campo d’ Erminionc il fragor ode
Carlo d’ armate genti , e a tal ridutto
De’ paladini e ciaschedun campione.
Che aanza birri van tutti in prigione.
1 Vergine sanla, madre di Gesuc,
Madre di (uUi i miseri mortali,
Per cui .«al vaia nostra prole fue,
Perchè Iti ci ami lanlo, c (anlo vali ;
Donami grazia e tanto di virtue,
Ch’i’mi ritorni a’baron nostri, i quali
Nella città tornar volevan drenlo,
E Manfredo!! ne va [toco contento.
2 Anzi chiamava morte a ogni passo,
Dicendo: Omè, quanto pensai felice
Esser per le. Meridiana, ahi lasso,
Ch’io t’ ho lassata, or mi.sero e ’nfelicc.
Arehbe fatto lacrimare un sasso
Per le parole che talvolta dice,
E tuttavia la gente rassettava,
E ’nversu il suo cainmin tristo n’andava.
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CANTO OTTAVO.
139
3 Or chi avessi il gran pianto veduto,
Che nel suo dipartir fa la sua gente,
Certo eh’ assai gliene saria incresciuto:
Chi morto il padre lascia, e chi ’l parente,
E cosi morto I’ ha riconosciuto.
Onde piangea di lui miseramente ;
Chi ’l suo fratello, e chi I’ amico abbraccia.
Chi si percuote il petto, e chi la faccia.
4 Bravi alcun che cavava l’ elmetto
AI suo figliuolo, al suo cognato, o padre.
Poi lo baciava con pietoso affetto,
E dicea : Lasso, fra le nostre squadre
Non tornerai in Soria più, poveretto;
Che direm noi alla tua afllilta madre,
O chi sarà più quel che la conforti?
Tu ti riman cogli altri al campo morti.
fi Altri dicean pel cammin cavalcando:
Non si dovea tanta gente pagana
Menar però cosi qua tapinando:
Certo non era la dama sovrana
Di tanto prezzo, quanl’or vien costando:
Or hai tu, Manfredon, Meridiana?
Or se ne va la tua gente sbandita ;
E mancò poco a lasciar qui la vita.
6 Teco menasti tutta Pagania,
Come tu andassi per Elena a Troia;
Ora hai tu fatta la tua voglia ria,
E se’ cagion che tanta gente muoia.
E cosi Manfredon ne va in Soria
Afflitto, sconsolato, in pianto, e in noia ;
Cosi chi segue ogni sfrenata voglia.
Lasciando la ragion, sente al fin doglia.
7 Orlando con Rinaldo e Ulivieri
Si ritornorno, e Dodone e Morgante,
Con Caradoro e lutti i cavalieri,
Colle bandiere al vento trionfante ;
Gran festa è fatta a’ cristian batlaglieri
Da tutto quanto il popolo affricantc,
Suonansi corni c Irombelle e tamburi,
Fannosi fuochi e bulli sopra i muri.
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140
IL MORGANTE MAGGIORE.
8 Essendo molti giorni riposati,
La damigella un di chiama il marchese.
In una cameretta sono andati ;
E poi che tutta nel viso s’ accese,
£’ suoi sospìr tulli ha manifeslati,
Priega eh’ a lei sia ’l cavalier cortese,
E che ’l suo amor negar non debbi a quella,
Che nel suo cor senlia mille quadretta.
9 Ulivier dice: Non farò j)er cerio,
Perchè se’ Saracina, io son Cristiano ;
Dal nostro Iddio so eh’ io sarei diserto :
Prima m’ uccidi qui colla tua mano.
Ella rispose : Slu mi mostri aperto
Che ’l nostro Macometto iddio sia vano.
Io mi battezzerò per lo tuo amore.
Perchè tu sia poi sempre il mio signore.
10 Ulivier disse della Trinilate,
Com’ era una sostanzia e tre persone.
Di lor potenzia e' di lor deitate;
E poi le fece una comparazione:
Se d’ esser uno e tre pur dubitale.
Si mostra per esemplo e per ragione,
Ch’una candela accesa mille accende,
E ’l lume suo pure all’ usalo rende.
11 De’ miracoli fatti disse al mondo,
E come Cazzar già risuscitassi ;
Com’ e’ fu crocifisso, e nel profondo
Del Limbo a trar moli’ anime n’andassi.
Disse la dama : Più non li rispondo ;
E fu contenta che la battezzassi :
E dopo a questo vennono alla cresima ,
Tanto che in fine e’ ruppon la quaresima.
12 Più e più volte questa danza mena
Ulivier nostro pur celatamenle ;
Non si ricorda più di Forisena,
Che la soleva aver sempre alla mente;
E la fanciulla leggiadra c serena
Ingravidata è di lui finalmente :
E nacquene un figliuol, dice la storia.
Che dette a Carlo Man poi gran vittoria.
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CANTO OTTAVO.
1.3 Uscendo un di d’ una zambra la dama,
Rinaldo s’accorgea di questo fatto,
E Ulivier segretamente chiama :
Che fai tu? disse, tu mi pari un matto.
Ulivier gli contò tutta la trama,
Com’ella è battezzata, e con che patto.
Rinaldo disse: Se Cristiana è certa.
Fa che la cosa almen vadi coperta.
14 Or lasciamo Ulivier fornir la danza,
E riposarsi alquanto, c gli altri ancora,
E ritorniamo al signor di Maganza,
Gan da Pontier, che non si posa un’ora.
Avuta avea del suo messo certanza.
Come impiccato fu sanza dimora
Da Carador, onde n’ ha gran tormento,
E pensa pur quaich’ altro tradimento.
13 E perch’ egli era maestro perfetto.
Si ricordò d’ un gran re saracino.
Lo quale Erminion per nome è detto,
Nimico di Rinaldo paladino ;
Perchè Rinaldo gli fe già dispetto,
Quando dette la morte al re Mambrino :
Perch’ egli avea per moglie la sorella.
Detta dama Clemenzia savia e bella.
16 Avea più tempo questa donna eletta.
Come fanno le moglie col marito,
Pregato che far debba la vendetta :
Erminion non I’ avea consentito.
Come colui che luogo e tempo aspetta,
Siccome savio, a pigliar tal partito:
Gan da Pontieri avea per alfabeto
Ogni trattato palese e segreto.
17 E dov’ e’ possa seminar discordia,
Noi ritcnea pietà nè conscienzia,
Chè lo facea sanza misericordia ;
Sapea il pensier della dama Clemenzia:
E scrisse un brieve, e dopo lunga esordia
_ (ili ricordò 1’ oltraggio e violenzia
Del buon Rinaldo, e che non debba starsi
Però eh’ egli era il tempo a vendicarsi.
142
IL UOBGiNTE MAGGIORE.
18 A te, Erminion di gran potere,
II conte Gan mille salute manda,
Sempre parato ad ogni tuo piacere,
E umilmente a te si raccomanda :
Credo tu debbi ogni cosa sapere ;
Dove Uìnaldo si Iruovi e ’n qual banda,
E com’egli è sbandeggiato di corte,
E dette al re Mambrin pur già la morte.
19 Pel mondo va com’ un ladron di strada ;
Orlando è seco e Dodon per ventura.
Ed Ulivier con lui credo ancor vada ;
Non li bisogna aver di lor paura :
Lascia il tuo regno ed ogni tua contrada,
A Montalban te ne vieni alle mura;
Alardo e Ricciardetto v’ è a guardarlo,
E non potre’ più in odio avergli Carlo.
20 Se tu vien presto col tuo assembramento.
In poco tempo so che ’l piglierai :
Gente non v’ è, nè vettovaglia drento,
E in questo modo ti vendicherai ;
Però che fu pur troppo tradimento.
Ucciderlo nel modo che tu sai :
10 le lo scrivo per antico amore,
E so che vuole il nostro imperadore.
21 E’ si vorrebbe dinanzi levare
Tutti que’ della casa di Chiarmonte,
Hia con suo onor non 1’ ha potuto fare :
Ora ha sbandito Rinaldo col conte.
Per fargli sol, se può, mal capitare;
E se tu vien colle lue genti a fronte,
Carlo sarà giustificato in tutto.
Che per tua man Montalban fie distrutto.
22 La lettera suggella, e manda il messo.
Che non debba posar notte nè giorno ;
E se farà suo debito, ha promesso
Cento talenti Gan nel suo ritorno.
11 messaggier vuol far quel eh’ è interesso.
Subito tolse la taschetta e ’l corno,
E dopo lungo e spiacevol cammino
Si rappresenta al gran re saracino.
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canto ottavo.
143
2 > Erminione a questo pose orecchio,
E tulle le ragion gli son capace,
Benché conosca Gan tradilor vecchio ;
Dama Cleraenzia questo assai gli piace.
E finalmente feciono apparecchio
Di gente franca saracina, audace:
Ben centomila sotto un gonfalone
In poco tempo accozza Erminione.
24 E poi che tutti furono assembrati.
Con trentamila giunse un ammirante,
E d’archi soriani erano armati,
E per nome si chiama Lionfante ;
Avea per arme due lion dorati
Nel cam|io azzurro, e ciascun par rampante:
Era venuto sanza aver richiesta,
E mollo Erminion ne fece festa.
Ed arrecassi in buono augurio e segno
La sua venuta, e quella gente franca :
L’arme di Erminion famoso e degno
Nel campo rosso era un’aquila bianca.
Salvo eh’ aveva un altro contrassegno.
Una rosetta sopra l’ alia manca ;
E Fieramonte suo fratello adorno
Appella Erminione, e Salincorno.
26 E disse a Salincorno : Tu verrai
In Francia bella; c tu, mio Fieramonte,
La mia corona in testa serberai ,
Tanto mi fido alle virtù Ine pronte ,
Nè mai del regno ti dipartirai.
Fin che passare in qua mi vedrai ’l monte;
A te confido tutto il mio reame,
E la giustizia fa eh’ osservi ed ame.
27 Dama Clemenzia d’ allegrezza ha pieno
Il core, e fece al messaggier di Gano
Nel suo partir donare un palafreno;
Cento bisanti poi gli pose in mano ,
E d’ un bel drappo splendido e sereno
Gli dette un ricco e gentil caffettano;
E disse: Questo per mio amor ne porla;
Saluta Gan mille volte e conforta.
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144
U. MORGANTE MAGGIORE.
2S Erminion gli fe donare ancora
Molle cose leggiadre alla moresca :
Il roessaggier parli sanza dimora
Colla risposta, e non par che gl’ incresca:
La qual risposta Ganellon rincora,
, Come il nocciolo ara tosto la pesca,
E come cento trentamila avea
Di cavalieri, e come e’ si movea.
29 In pochi di ritornò il messaggieri.
Ed al suo Ganellon si rappresenta :
Gan la risposta lesse volentieri.
Quando senti di centomila e trenta.
Disse il messaggio: 0 signor da Pontieri,
Di quel che m’ hai promesso or mi contenta ;
Erminion non vuol di lui mi lagni,
E mostrò i don c’ ha ricevuti magni.
50 Gan gli donò quel che promesso avea ,
E tutto pien d’allegrezza era quello;
A Montalbano, a (ìuicciardo scrivea.
Che ne veniva Orlando e ’l suo fratello,
E presto sarà in Francia: e ciò facea
Per certa astuzia il maladcllo c fello,
Perchè tenessi n la terra e le mura
Più sprovvedute, e slien sanza paura.
31 Intanto Erminion si mette in punto,
Apparecchiò navili in quanlitate;
E com’e’ vide il vento per lui giunto.
Subito furon le vele gonfìale;
E giorno e notte non si posa punto :
Le navi a salvamento son giostrale,
E in pochi di questa brigala magna
Si ritrovava nc’ porti di Spagna.
52 Fu la novella subito a Marsilio,
Come in Ispagna è venula gran gente;
Maravigliossi di questo navilio,
E cominciava a temer fortemente :
Ebbe consiglio, e tutto il suo concilio,
E manda imbasceria subitamente,
Che lo debba avvisare Erminiono,
Della venuta sua che sia cagione.
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CANTO OTTAVO.
33 Erminion rispose come saggio,
Che inverso Francia con sua gente andava,
Per vendicarsi d’ un antico oltraggio;
£ come il passo sol gli domandava,
Ch’a’suoi paesi non faria dannaggio.
Marsilio dell’impresa il confortava:
E presto fu avvisato Carlo Mano,
Com’ e’ passava gran popol pagano.
34 Carlo sentendo si fatta novella.
Non ebbe alla sua vita un tal dolore ;
Turpino, e Namo, e Salamene appella,
E raccontava del fatto il tenore ;
Dicendo; Orlando non sarà qui in sella,
Non c’è Rinaldo, ond’e’mi triema il core,
Nè Ulivieri il nostro paladino ;
Che farem noi, o Namo, o mio Tarpino?
35 Or si conosce il mio nipote caro,
Or si conosce Rinaldo e ’l marchese.
Turpino e gli altri insieme s’ accordare,
Che si dovesse stare alle difese ;
In questo modo Carlo confortaro :
Namo per tutti le parole prese.
Dicendo: E in città difenderemo,
E intanto aiuto al papa chiederemo.
56 Per tutta Francia fecion provvedere
Le città, le fortezze, e le cestelle,
E ordinorno mandar messaggiere
Al papa, a dir le cattive novelle:
Intanto Erminion con sue bandiere
Presso a Parigi son sopra le selle ,
E fan tremare il monte e la pianura,
E tutto il regno sta con gran paura.
37 E pel paese trascorrendo vanno ,
Rubando, ardendo, e pigliando prigioni,
E mettono ogni cosa a saccomanno :
Dove e’s’abbatton questi mascalzoni.
In ogni parte facevon gran danno:
Erminion fra tutti i suo’ baroni
Elesse Lionfante, che ponessi
Il campo a Monlalbano, e intorno stessi.
«
I.
146
IL HORGANTE MAGGIORE.
38 E lai si stelle con sua gente al piano
Appresso a poche leghe di Parigi,
E manda imbasciadore a Carlo Mano ,
A dir che gli raovea questi litigi,
Per vendicar Mambrin degno pagano,
E Monlalban disfare e San Dionigi ;
E Maltafolle fu suo imbasciadore,
Un re pagan che non gli Iriema il core.
59 Giugnendo a Carlo Man quel Maliafolle,
Fe come matto e folle veramente,
Chè quando e’ gli ebbe detto quel che volle,
A minacciar cominciollo aspramente.
Carlo pur rispondea timido e molle :
Astolfo a questo non fu paziente;
Trasse la S|>ada fuor con gran tempesta.
Per dare a Mallafolle in sulla lesta.
40 Ma non potè, perchè lo prese Namo,
E disse: L’ onestà questo non vuole,
Ch’ a ’mbasciador oltraggio noi facciamo.
Lascialo far, chè fa come far suole,
Si che al suo re non ne faccia richiamo.
Mattafolle tagliava le parole,
£ disse: Astolfo, in sul campo li voglio,
E forse abbasserò questo tuo orgoglio.
41 E dipartissi da Carlo adiralo.
Benché il Dusnamo si scusassi assai ;
Al grande Erminion si fu tornato,
E disse: La ’mbasciala tua contai,
E mollo fui da Astolfo ingiurialo ;
Ond’io ti priego, s’ a te piacqui mai.
Che domattina sia contento io m’armi,
E vo’ con lutti i paladin provarmi.
42 Rispose Erminion : Tu non sai bene
Ancor chi sieno i paladin di Francia,
E per questa cagion si spesso avviene.
Che molti n’ hanno forala la pancia;
Sappi che Carlo Man questi non tiene.
Se non fussin ognun provata lancia :
Tu fi potrai provar, se n’ hai pur voglia.
Ma guarda ben che mal non le n’ incoglia.
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CANTO OTTAVO.
147
43 E se non v’è Rinaldo e Ulivieri,
E se non v’ è Orlando tanto forte,
E’v’é quel valoroso e franco Ug^ieri,
Ch’a tanti Saracin già dato ha morte,
li quel famoso e degno Berlinghieri ,
Ottone, e tanti altri baroni in corte :
Per mio consiglio al campo li starai,
Pur, se li piace, a tuo modo farai.
44 Astolfo in quella notte cavalcoe
Inverso Monlalban tutto soletto.
Perchè e’ non v’ è Rinaldo dubitoe
D’ Alardo, di Guicciardo e Ricciardetto:
Ma giunto ov’ era il campo riscontroc
Certi Pagani, e fu preso in effetto;
E fu menato preso all’ ammirante,
Ch’ era chiamato il fiero Lionfante.
45 Lionfante comincia a dimandare
Di Carlo, di sua gente e sua possanza,
E la casion che vengon per guastare
Montalban, come tosto avea speranza;
Dice che voglion Mambrin vendicare,
Peichè Rinaldo fe troppa fallanza,
A tradimento uccider quel signore,
E mancò troppo, al suo parer, d’ onore.
46 E che per questo faria tanta guerra.
Per vendicar questo peccato antico.
A lui rispose il signor d’ Inghilterra :
Ascolta, Lionfante, quel ch’io dico:
Pel mio Gesù, che chi dice ciò erra,
Perch’ e’ 1’ uccise come suo nimico,
A corpo a corpo, e sanza tradimento,
E non vi fu difetto o mancamento.
47 E raccontò la cosa in tal maniera.
Che Lionfante restò paziente,
E disse : Poi eh’ io so la storia vera.
Per mia fé’ ora eh’ io ne son dolente
Aver condotta qua la mia bandiera:
Esser vorre’ in Seria con questa gente ;
t^hè poi eh’ a tradimento e’ non fu morto,
Erminion per Macometto ha il torto.
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148
IL UORGAMTE MAGGIORE.
48 Io conobbi Rinaldo già in Ispagna,
E per mia fe’ mi parve un uom gentile.
Da non dovere aver questa magagna,
Di far con tradimento opera vile :
Anzi pareva una persona magna,
E franco, e forte, e giusto, e signorile,
E ’ncrescemi di lui che non ci sia.
Ma per me tanto oltraggiato non Ga.
49 E s’io potessi Montalban pigliarlo,
10 noi farò pel giusto Iddio Apollino ;
E in qualche modo si vorria avvisarlo.
Che ritornassi in qua col suo cugino :
Ma dimmi, prigionier col qual io parlo,
Se tu se’ cavaliere o paladino.
Astolfo il nome suo gli disse allora,
11 perchè Lionfante assai l’ onora ;
bo E fece accompagnarlo alla cittade:
Era quei Lionfante un uom discreto;
Mandò con lui molte sue gente armate
Fino alle mura, e poi tornano in drieto.
Astolfo truova le porte serrate.
Furono aperte, e molto ognun fu lieto;
E Ricciardetto, quando ha questo inteso.
Parve dal cor si levassi ogni peso.
fil E domandò se sapeva niente
Del suo fratello, e disse come Gano
Gli aveva scritto molto chiaramente,
Rinaldo saria tosto a Montalbano.
Astolfo indovinoe subitamente
La sua malizia, e scrisse a Carlo Mano,
Che certo il traditor di Gano è quello
Ch’ avea condotto là quel popol fello.
83 Gano in quel di parea maninconoso
Più eh’ alcun altro di si fatto assedio,
E spesso il viso facea lacrimoso.
Dicendo: Carlo, io non veggo rimedio
A Montalbano, ond’ io ne sto doglioso;
Credo che poco vi staranno a tedio :
E poi la notte nel campo avvisava
Erminion ciò che Carlo ordinava.
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CANTO OTTAVO.
149
63 Carlo Dn di per ventara vide indosso
A quel corner, eh’ egli aveva mandato
Al re pagano, un certo vestir rosso
Di cammuccà, che gli aveva donato;
E fra sè stesso diceva : io non posso
Pensar donde costui l’ abbi arrecato ;
£ domandonne alcuna volta Gano,
Ond’ egli avessi quel vestire strano.
54 Gan gli avea detto : A questi di il mandai
Nel tal paese per saper d’ Orlando
Novelle, e perchè poco ne spiai'.
Non le lo dissi ; e ’l messaggier tornando.
Per quel eh’ io intesi, che nel domandai.
Un di in un bosco un Pagano scontrando,
Credo che disse, lo fece morire,
£ trassegli di dosso quel vestire.
66 Vera cosa è eh’ io scrissi a questi giorni
A Ricciardetto per dargli conforto :
Rinaldo e gli altri paladini adorni
Sappi che in Francia saranno di corto;
Questo è perchè non credon mai che torni,
£ hanno dubitato che sia morto.
Carlo ogni cosa nella mente avea,
£ ’l messaggier d’ Astolfo allor giugnea.
66 £ non credette a quel eh’ Astolfo scrisse.
Perchè il parlar di Gan si riscontrava ;
E risposegli in drieto, e cosi disse.
Quand’egli scrisse questo, se sognava,
A dir eh’ Erminion per Gan venisse.
Cosi fortuna Carlo traportava,
0 forse ch’era permesso dal cielo.
Ciò che Gan dice gli paia il Vangelo.
67 Or ritorniamo a Mattafolle un poco :
Egli era contro Astolfo inanimato
Per quel che fe, che non gli parve gioco :
La mattina seguente si fu armato.
Però che l’ ira riscaldava il foco ;
Cosi soletto si fu inviato,
£ venne presso al muro di Parigi,
Dov’ è la chiesa delta San Dionigi.
13 »
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180
IL MOSGANTE MAGGIORE.
68 Ed an suo corno cominciò a sonare,
Chiamando Astolfo che debba venire,
Se vuol con esso in sul campo giostrare.
Carlo comincia col Dusnamo a dire,
E Salamon, quel che par lor di fare.
Se Mattafolle si debba ubbidire ;
E finalmente per partito prese
Ch’ a lui si mandi il possente Danese.
69 11 Danese s’ armò con gran furore;
Il suo cavai d’ acciaio era guernito :
Chiese licenzia, e dallo imperadore
Subitamente e dagli altri è partito:
Vide dov’ è Mattafolle il signore,
Che rifaceva col corno lo ’nvito ;
Maravigliossi che ’l vide soletto,
E non pareva eh’ avessi sospetto.
60 Giugnendo a Maltafolle il franco Uggieri,
Lo salutò con un gentil saluto.
Poi gli diceva : 0 nobii cavalieri.
Per combatter con noi se’ qua venuto ;
Io sono stato per tutti i sentieri
De’ Saracini, e mai non fu’ abbattuto :
Che pensi tu con ispada o con lancia
Esser venuto acquistar fama in Francia?
61 Io son de’ paladini il più codardo,
E non li stimo, Pagano, un bisante;
Se tu se’ pur, come credi, gagliardo.
Prendi del campo, barone Atfricanle.
Rispose il Saracin: Per certo io guardo,
Se tu se’ quel cavaliere arrogante.
Che mi volesti far villania in corte.
Per darti in ogni modo oggi la morte.
62 Disse il Danese : Troppa pazienza
Ebbe con teco il nostro imperadore.
Che li dovea punir di tua fallenza.
Se stato tu non fussi imbasciadore :
Colui che fare ti volea violenza,
Astolfo è , d’ Inghilterra alto signore ;
10 son chiamalo per nome Danese :
11 Saracino allor del campo prese.
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cìnto ottavo.
03 Poi che fu dilungalo il Saracino
Più d’ un’ arcata, volse il suo cavallo;
Dall’ altra parte il franco paladino
Tosto tornava in drieto a conirastallo :
Fumo scontrati a mezzo del cammino,
E nessun pose la sua lancia in fallo;
Ma del Danese la lancia spezzassi
Sopra lo scudo, e quel Pagan piegassi.
64 II Saracin feri con maggior forza
Sopra lo scudo il possente barone,
Passollo tutto, e trovava la scorza
Della corazza, e passala, e ’l giubbone;
Ugsier piegassi ora a poggia, ora a orza,
E finalmente cadde dell’arcione.
Re Mattafolle, quando in terra il vide,
Maravigliassi, e di ciò forte ride.
65 E disse: Or non vo’ più che tu ti vanti,
Che mai più non cadesti del destriere ;
E di’ che ci hai provati lutti quanti ;
Provato non m’avevi, cavaliere:
Vedi che Cristo e tutti i vostri santi
Non t’ han potuto aiutar di cadere ;
Renditi a me, come tu dèi, prigione.
Disse il Danese : Questo è ben ragione.
66 La spada per la punta il paladino
Dette al Pagan che 1’ aveva abbattuto ;
Menollo in San Dionigi il Saracino,
E disse: Qui m’ aspetta, eh’ è dovuto.
Poi cominciava: 0 figliuol di Pipino,
Sappi che Uggier della sella è caduto,
E per prigion l’ ho messo in San Dionigi ;
Mandami un altro bacon di Parigi.
67 Quando udì Carlo risonare il corno.
Non fu mai più dolente alla sua vita;
E riguardava per la sala intorno,
Dov’ era la sua gente sbigottita :
Dusnamo e tutti gli altri consigliorno.
Che poi che ’l Saracin cosi gl’ invita,
Un altro cavalier mandar bisogna.
Se non che gli saria troppa vergogna.
103
IL MOBUANTE MAGGIORE.
6S Ed accordarsi che v’ andasse Namo :
Namo v’andò, siccome gli fu imposto.
Giugnendo a Mallafolle cosi gramo,
Lo salutò, e dissegli discosto:
Prendi del campo, alla giostra vegnamo,
Chè dir parole assai non son disposto.
Il Saracin, che la sua voglia intende,
Subitamente allor del campo prende.
69 Namo si volse tutto furioso,
E si credette inghiottir Mattafolle ;
Giunse allo scudo un colpo poderoso,
L’ aste si ruppe, chè passar non volle.
Il Saracin, eh’ è forte e animoso,
Nulla non par che dell’ arcion si crolle ;
E prese il savio duca a mezzo il petto,
E della sella lo cavò di netto.
70 Namo si vide superato e vinto,
E cosi disse : lo ti comincio a credere.
Poiché tu m’ hai fuor dell’ arcion sospinto,
Ch’ ogni altro Saracin tu debba eccedere ;
Il brando presto dal lato ebbe scinto,
E disse : A te prigion mi vo’ concedere.
Disse il Pagano: Or se non t’ è fatica.
Il nome tuo, barou, vo’ che mi dica.
71 Namo rispose: Questo poco importa,
Sappi eh’ io sono il duca di Baviera.
Disse il Pagan : Per Macon ti conforta,
Gh’ onorato sarai fra la mia schiera.
Di San Dionigi il condusse alla porta ,
Dove il Danese nostro prigion era ;
E ritornossi al campo, e ’l corno suona,
Carlo sprezzando e sua santa corona.
72 Era Carlo a vederlo cosa oscura,
E tutti i suoi baron similemente,
Ognuno avea già in Parigi paura.
Bcrlinghier nostro, quando il corno sente.
Tosto apportar si facea l’ armadura,
E montò sopra il suo destrier possente :
Nella sedia fatai rimase Carlo,
E’ suoi baron dintorno ^ popfortftrlo.
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CANTO OTTAVO.
73 La lancia di ciresse aveva in mano,
La spada alialo, e cintosi un trafìere ;
Brocca il cavallo, e giugneva al Pagano
A lanci e salti, che pare un levriere,
E disse : Se’ tu quel baron villano
Che cosi sprezzi il famoso imperierò?
Se tu sapessi chi sotto è in quest’ armi.
Tosto perdon verresti a domandarmi.
74 Se tu scampi da me, tu sarai ’l primo.
Tanti n’ ho morti già con questa spada :
Non domandar s’ ogni peluzzo cimo
Con essa in aria, in modo par che rada.
Disse il Pagan : Per Macon poco stimo
Chi troppo sta la notte alla rugiada :
Manda pel prete, e fa trovare i moccoli,
Chè tu mi pari una bertuccia in zoccoli.
7& Berlinghier si crucciò come un diavolo,
£ disse al Saracin: Mallo, uom bestiale.
Che se’ tu uso a mangiar crusca e cavolo
Co’ pazzi sopra il carro trionfale ;
Non polre’ farlo Macone o ’l suo avolo,
O Apollin, ch’io non ti facci male.
Disse il Pagan, poi che molto ebbe riso:
Deh dimmi un poco, hai tu sotto altro viso?
76 Rispose Berlinghier: Non più parole,
E ti parrà eh’ io sia com’ un gigante :
Il molto rider segno esser non suole
Però di cavalier saggio o prestante :
Non so quel che tu di’ rugiada o sole ,
£ zoccoli non ho sotto le piante ;
Ma nella punta del mio brando forte
So ch’io vi porlo, baron, la tua morte.
77 Sareste mai Rinaldo, o quel marchese
C’ ha tanta fama al mondo, o ’l conte Orlando,
Disse il Pagano, o puoi più che ’l Danese,
Che nella punta la morte hai del brando ?
Deh fammi il nome tuo, se vuoi, palese.
Berlinghier gli rispose minacciando:
Non son Rinaldo, Orlando o Ulivieri,
Ma il franco e forte e gentil Berlinghieri.
184
IL HORGANTE MAGGIORE.
78 II Saracin, sentendo nominarlo,
Rispose: Sia nel nome di Macone;
Dunque tu se’ de’ paladin di Carlo:
So che non lìen si fallo compagnone
In corte, se non usa di provarlo:
10 t’ ho squadrato dal capo al tallone.
Per veder quanto discosto gitlarti ; ‘ '
Voglio in sul campo o in sull’ erba posarli.
79 Prendi del campo, eh’ io scoppio di ridere,
Pensando, cavalier, quel che tu hai dello.
Che tu mi creda cosi al primo uccidere ;
Non polle’ farlo lu, nè Macomello:
Se lu non soldi gente da dividere,
0 ver se lu non voli, io li prometlo.
In San Dionigi, cavalier di Francia,
Porlarli in sulla punta della lancia.
80 Rispose Berlinghier: Degli altri malli
Ho gasligali a’ miei di mille volle,
E le gasligherò; vegnamo a’ falli,
Chè le parole tue paiono stolte.
Disse il Pagano: Io vo’ far questi palli.
Che tu mi lasci sol due dila sciolte,
E mettami ’n un sacco il resto lutto,
E mostrerolli eh’ io li slimo un putto.
8! Prendi del campo, disse Rerlinghieri,
Forse che lu ti troverai ’n un sacco ;
E subilo rivolse il suo destrieri.
Dicendo: Maliafolle, tu m’hai stracco;
Tu se’ come lu hai nome, e volentieri.
Non gilliam qui le perle in bocca al ciacco.
11 Saracin del campo prese o tolse.
Poi colla lancia a Berlinghier si volse.
82 Berlinghier ne venia com’ un colombo,
E ’l Saracin ne vien com’ un falcone;
Da ogni parie si sentiva il rombo
Ue’ lor deslrier, eh’ ognun par un rondone:
Poi lasciaron cader le lance a piombo.
Ognuno in resta la sua tosto pone;
Ma quella del Cristian, eh’ è di ciresse.
Tosto si ruppe, e pel colpo non resse.
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CANTO OTTAVO.
155
S3 II Saracin feri sopra lo scodo
Bcrlinghier nostro, e come fossi cera
> Sobito il passa, c ’l ferro acoto e ignodo
Passò la corazzina e la panziera.
Fino alla carne andò qoel colpo erodo,
E perchè soda e verde la lancia era.
Per la percossa, che fo molto acerba,
Berlinghier franco si trovò in sull’ erba.
84 E ’n sulla punta più di dieci braccia
Lo portò in aria, e poi lasciollo andare,
E disse: Sempre avvien che chi minaccia
Ne suol la pace a casa poi portare.
Berlinghier mano alla sua spada caccia,
E volle la battaglia rappiccare ;
Subito del terreo ritto si getta.
Per far di Mattal'olle aspra vendetta.
85 Ah, disse il Saracin, tu falli troppo;
Usanza è sempre de’ gentil baroni.
Che que’ che son caduti al primo intoppo
Purghino il brando, e diensi per prigioni;
Or eh’ io l’ho vinto, fracassato e zoppo,
A quel che vuol la giustizia l’opponi.
Ed hai cavato fuor lo spadaccino :
Questa usanza non è di paladino.
86 Io l’ avevo sentito ricordare
Fra tulli gli altri un cavalier virile.
Che non sapessi in nessun modo errare.
Onesto, saggio, pulito e gentile:
Or fallo m’ hai di te maravigliare;
Questo mi pare un allo stato vile.
Rispose a Mallafollc Berlinghiere :
Io ti darò col brando e col trafìere.
$7 Maltafolle non ebbe pazienza,
E disse: Poi che tu se’ in tanto errore.
Io ti gastigherò di tua falicnza ;
E punse sopra a’ fianchi il corridore :
Dettegli un colpo di tanta potenza
Sopra r elmetto, dice l’autore.
Che Berlinghieri in terra inginocchiossi,
E non sapeva in qual mondo si fossi.
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186
IL BIOBGÀNTE MAQGIOBE.
SS Renditi la prigion, diceva allora
Il Saracino : Ohi, (osto rispose
Il paladin; sanza far più dimora,
11 brando per la punta in man gli pose.
Ed ecci un autor che dice ancora,
E cosi trovo nell’ antiche chiose.
Che ginocchion lo fe star quel che volle
Colle ginocchia ignude Mattafolle.
89 E disse: Questo sia pel tuo peccato,
Che tu volevi far le fusa torte :
E poi eh' egli ebbe il suo brando piglialo,
Non per la punta, chè v’era la morte.
Anzi dal pome, com’e’ gli fu dato.
Lo mise drente a quelle sante porte
Di San Dionigi: e Namo, che vedea
11 suo lìgliuol prigion, seco piangea.
90 Era d’ ogni eccellenzia e di costume
Berlinghier sopra tutti un uom dabbene.
Di gentilezza una fonte, anzi un flume,
A luogo e tempo, come si conviene.
Tanto che scritto n’ è in più d’ un volume:
Or se lo slil della ragion non (iene,
È che conobbe eh’ ogni gentilezza
Perduta è sempre a chi quella non prezza.
91 E reputava Maltafolle un matto.
Come il nome sonava veramente.
Da non servargli nè ragion nè patto ;
Cosi lo scusa ognun eh’ è sapiente.
Poi, se gli fossi riuscito il tratto.
Era salvalo Carlo e la sua gente ;
E lecito ogni cosa è per la fede :
Adunque chi lo ’ncolpa, il ver non vede.
92 Carlo senti ritoccare il cornetto,
E disse : Questo mi par tristo segno ;
Caduto è Berlinghier tanto perfetto.
Non so chi abbi a’ suoi colpi ritegno:
Venuto è questo Pagan maladetto.
Per distrugger mia gente e tutto il regno.
Avin s’armò, sentendo che ’l fratello
Era abbattuto, per vendicar quello.
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CANTO OTTAVO.
187
93 Avin si rilrovó sopra la lerra :
Venne in sul campo il valoroso Gitone,
11 famoso signor là d’ Inghilterra ,
E finalmente si trovò prigione ;
Tutti gli abbatte il Saracin da guerra :
Venne Turpino, Gualtier da Mulione,
Salamon di Brettagna, e ’l buono Avolio;
Tutti prigion n’ andàr cheti com’ olio.
94 Di Normandia il possente Riccardo
Venne in sol campo, e con gran sua vergogna
Al primo colpo rimase codardo.
Tosto s’ armava Angiolin di Guascogna :
Volte provar come fossi gagliardo,
£ rilrovossi come gli altri in gogna.
Carlo rimase sconsolato tutto,
Veggendo il popol suo cosi distrutto.
93 Restava appunto il traditor di Gano;
Carlo non volle eh’ egli uscissi fore :
Tornossi Mallafolle a Monlalbano ,
Presso alla terra ov’ era il suo signore,
E presentò i prigioni al re pagano :
Erminion fe lor massimo onore,
£ nel suo padiglion gli ha ricevuti.
Cristo del ciel vi conservi ed aiuti.
NO
7. trionfante. Per trionfanti.
9. diserto. Abbandonato, dal la-
tino deaero.
40. Vlioier disse della Trinita-
te ee. Nella Regina Àneroja harvi
vn luogo analogo a questo, e nel quale
Orlando fa ogni sforzo per convertire
al Cristianesimo la Regina Ancroja, e
con varie comparazioni cerca spiegarle
il mistero della Triniti ; ma più sfor-
tunato del nostro Ulivieri , non riesce
a persuaderla ; finalmente dopo lunga
contesa, di fine, uccidendola, a tal que-
stione. Nella Cronaca attribuita a Tur-
pino i similmente introdotto Orlando,
TE.
che , sul punto d’ uccidere Ferraù ,
vuole indurlo a rendersi cristiano^ e
adopera pure alcune comparazioni a
fargli capir nell’ animo il mistero della
Triniti.
42. Carlo Man. Carlomagno.
43. Perché Rinaldo. Per far ven-
detta di questo Mambrino re di Biti-
nia e d’ una parte di Samotracia , uc-
ciso da Rinaldo, fu che Mambriano
suo nipote mosse le armi contro Fran-
cia, dopo aver fatto sacramento alla
propria madre, sorella di Mambrino,
di non tornare nel regno se prima non
avesse ucciso Rinaldo e distratto Mon-
ti
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IL MOBGÀNTE MAGGIORE.
talbano. Qaesto fatto forma il soggetto
del Slambriano del Cicco da Ferrara.
20. attembramento. Moltitudine
di soldati, esercito.
23. gonfalone. Bandiera, insegna ;
come ngiiun sa. Viene dal tedesco fané,
vessillo.
24. i4mmfran(e. Ammiraglio, ;)r<F-
fectu* clas$i$, * Chia-
masi Ammiraglio (dice il liuti sopra
Dante) lo capitano delle galee in mare,
e dicesi Ammiraglio perchè dee rag-
guardarc e provvedere sopra tutto lo
stuolo. > Fa poi venir cotal voce da
mirare, schhene il Alenagio ami trarne
la origine piuttosto dalla voce araba
emir ovvero amìr, che vale signore.
27. caffettano. Sorta di veste tur-
ehcsca.
28. Come il nocciolo arò tolto
la pelea. Cioè come la cosa riuscirà
a perfezione. Dice Giovan Maria Ccc-
chi nella dichiarazione dei l'roverbj ;
•> Quando si vuol dire che una cosa
è fatta , o che ella riuscirà a perfe-
zione , si dice : la pelea avrà il noc-
ciolo. »
51 . son gioilrate. Son condotte
su per lo mare. Ed è qui posto a
modo di scherzo; avendo il verbo gio-
strare anche il significata di far gite
lunghe e frequenti, auague deque ire,
e quello pure di andar girando o pas-
seggiando senza saper dove , e senza
un line determinato.
55. dannaggio. E voce antiquata;
ma moltissimo usata dai primi scrit-
tori in prosa e in rima. Viene dalla
voce provenzale dampnage, per il che
alcuni anche nell’ italiano scrissero
danipnaggio, come si rileva dal se-
guente verso d’una Canzone di Guit-
ton d’ Arezzo :
Non credo già, se non toI roca dampoaggio;
e da quell’ altro dello stesso:
Che piace lei per mia morte dampnaggio.
Anche nell’ antiche Glosse Latine tro-
vasi scritto dampnum per damnum;
ma c il latino damnum, e il proven-
zale dampnage, e l’italiano dannag-
gio o danno, derivano tutti egualmen-
te, a parer del Menogio, dal greco
danàvv) ; sebbene a me sembra assai
lontano dal significato della voce danno
quello del verbo dcf.TZcr.vau , che si-
gnifica consumare, esaurire, e spende-
re, dissipare, menar gran vita.
54. Tarpino. E questo il famoso
arcivescovo di Rheinis, e insieme guer-
riero e paladino. Ad esso viene attri-
buita quella Cronaca di Carlo Magno,
dalla quale tolsero , o finsero di to-
gliere le lor favolose avventure, quasi
tutti coloro che nei Romanzi e nei
Poemi scrissero le gesta di quell’ im-
peratore c de’ suoi paladini.
56. Intanto Erminion ee. Qui
bandiere sta per i soldati accolti sotto
le sue bandiere, e perciò è adoperato
il verbo nel numero del piò.
57. saccomanno. Mettere a sacro,
o a saccomanno, vale saccheggiare.
Viene la voce saccomanno dall’ ita-
liano lacco, e dal tedesco man (uomo),
quasi uomo di sacco, o che fa sacco ;
chè far sacco vale quasi lo stesso che
mettere a sacco.
38. imbateiadore. Ambasciatore.
Il Menagio fa derivare questa voce da
ambascia, che significa cura, solleci-
tudine, ansietà e simili, « convenen-
dosi, dice egli, a uno ambasciatore di
star continuo ansioso, affannato, pieno
di cure e sollecito. » Tale etimologia
è però alquanto stiracchiata , ed è da
starsene piuttosto al Salmasio che la
fa venire dal latino ambaclui, formato
dalla preposizione am che vale lo stesso
che circum, e dal verbo ago (duco) ;
e che significava servo mercenario
(òo'jJo; uio&wtÓ?). Do ciò si formò
il latino barbaro ambascia per servi-
zio 0 simili, secondo rilevasi dalle Leggi
Burgund. Quicumque atinum alie-
num extra domini voluntalem prce-
lumpieril, aut per unum diem, aut
duos, in ambaicia tua ee. Il Giam-
bullari , che vuol tutto derivato dal-
l’arameo e dall’ etrusco, fa venire am-
basciata e ambasciatore da baieer, che
in lingua aramea significa annunziare.
48. magagna. Vizio, difetto. Da
mancare, dice il Menagio. Il Canino c
il Mannaino fanno invece derivar que-
sta voce dal dorico /j.ay_ava ; c il
Guictoda Slagut, cosi: Mogul, maga-
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CANTO OTTAVO.
n«u( , maganea , magania , maga-
gna.
53. cammuccà. Sorta di panno
da far abiti che usavasi anticamente.
58. Dusnamo. Duca Namo.
CI. gagliardo. Dal verbo inusi-
tato yau , che vale lo stesso che gau-
dio , dice il Mcnagio. Il Fontano nel
suo Glossario Frisco-Gallico fa però
venir questa voce da Oallut, e dice:
À Gallica audacia galliardui ap-
pellatur it qui forliter adii peri-
cula.
C3. un’arcata. Lo spazio che per-
corre la freccia scagliata dall’arco.
6d. la scorza Della corazza. Il
metallo di che la corazza era formata,
e che facea quasi come nna scorza al
corpo della persona che l’aveva in
dosso. Scorza, che propriamente è la
buccia degli alberi e delle frutto,
viene da corlex; e di fatto è come
una corteccia cbe involge il corpo sot-
tostante. — ora a poggia, ora a
orza. Poggia è una fune cbe tiene
l’uno capo dell’antenna, che tiene la
vela pendente ec. Orza è una fune cbe
tiene legato l’altro capo dell’antenna.
(Buli, Commento al Purgai., Can-
to XXXII.) Talché piegare ora a pog-
gia, ora a orza, vale ora da un lato,
or dall’altro. — arcione. La sella, e
propriamente la parte arcata di essa.
II Salmasio sopra l’Istoria Augusta
dice: Àrcionei vocamui ab areu,
quod tn modum arcui iinl incurvi.
I Greci chiamavan l’arcione xoùsStx
da xojpSox (cosa piegata o torta). Da
questa voce xoiipèov , il nostro curvo.
68. gramo. Tristo, melanconico,
e viene dalla latina voce Gramia , e
questa dalla greca y'kà.ari , la quale
significa quelle lacrime eoe si conden-
sano sugli occhi , e che noi comune-
mente chiamiamo cispa.
73. Irafiere. Pugnale acutissimo ,
del quale i cavalieri andavano arma-
ti , per valersene contro I’ avversario
venendo alle strette con esso. Greco,
<j/iptdiav. E dicesi trafiere da traferre,
verbo antico, cbe vale ferire con gran-
dissima forza. — Brocca il cavallo.
Sprona il cavallo. — tmperiere. Im-
peratore. È voce antica, e trovasi an-
1»9
che nelle rime di Francesco Sacchetti :
La roccia iiubroccia, e ’ncDntro a BaccbUooe
Scontra le ruic Clarion Imperiere.
74. i’ogni peluzzo cimo. Dicesi
cimare lo scemare il pelo al panno
lano, tagliandoglielo colle forbici. Chia-
masi anch’oggi io Firenze Via dei Ci-
matori la strada ove anticamente sta-
vano quei che esercitavano cotal me-
stiere. Qui è posto figuratamente.
79. gente da dividere. Gente cbe
venga a dividerci, a separarci.
8U. putto. Fanciullo; c viene, se-
condo il Ruscelli , da puer. Il Mcna-
gio però lo fa derivare dal latina pu-
lui, che significa piccolo.
81 . Non gilliam qui le perle tn
bocca al ciacco. Ciacco è lo stesso che
porco , e sembra derivare dal greco
che significa uno che vive da
porco, qui porcinii moribui est. Fu
dagli antichi Fiorentini adoperato tal
nome a dinotare quei che si davano
tutti al vizio della gola, come dice a
Dante quel tale che incontrò nell’ In-
ferno :
Vili ctUatlioì mi dilaniaste Ciacco,
Per la dannosa culpa della gola.
Gettar le perle a’ ciacchi o a’ porci ,
vale dar cose di pregio a persone vili
e da poco. Anche i Latini dicevano
Margarilai pomi projicere.
82. rombo. Rombo è propriamente
quel suono o strepito cbe fanno le
pecchie,! calabroni, e simili animali.
Già era in loco ove s’ adia ’l rimbombo
Doli’ acqua che cadea nell’altro giro,
Sunilu a qael olie l’ arnie fanno rombo,
disse Danto nel sedicesimo dcll’/n-
ferno. Qui dà il Pulci a questa voce
il significato di strepito e di rumore.
Quanto poi alla sua derivazione , con-
tuttoché il Menagio opini venir dal
latino rumui, che valeva lo stesso
che rumor; pure mi va più a sangue
la npioione del Mazzoni , che fa de-
rivar cotal voce dal latino bombui,
che significa appunto il romore che
fanno le api , come cavasi da Plinio ,
libro XX : Noelu quies apibui in
malulinum donec una excilel omnei
gemino aul triplici bombo, ut bue-
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160
IL MOBGANTB MAGGIORE.
et no quodam. E più sotto : Cum adt>«-
tperaseit, tn alveo strepimi minut
ae «ninuA, donee una eireumvolet,
eodem, quo exeilavil, bombo, ceu
quielem capere imperans. Si rìloTa
di Svetonio nelli Vita di Nerone, che
i Latini si valevano di questa stessa
voce a indicare il plauso solito a farsi
alla commedie co’ piedi.
83. eorozztna. Lo stesso che co-
razza. — paniiera. Armatura di me-
tallo degli antichi cavalieri, la quale
cuopriva loro non solo il petto , ma
anche tutta la pancia.
85. al primo intoppo. Al primo
scontro.
89. le fusa torte. Far le fusa
torte propriamente si dice delle mogli
che rompon fede a’ior mariti. Qui è
posto figuratamente.
CAnrro wosro.
dUB(B<oaìainKD»
Lasciano Caradoro i ventnrieri
Francesi paladin , per gire altrove :
Vede Rinaldo , che tra più guerrieri
Verso Ini Fieramonte il passo muove;
Di lancia a un colpo senza altri corrieri
Lo spedisce a Caronte a dar le nuove :
Entra in città, e d’ Erminion la moglie
E i figli uccide in sulle regie soglie.
4 0 felice alma d’ofjni grazia piena,
Fida colonna, e speme graziosa.
Vergine sacra, umile, e Nazarena,
Perché tu se’ di Dio nel cielo sposa ,
Colla tua mano insino al Gn mi mena ,
Che di mia fantasia truovi ogni chiosa.
Sol per la tua benignità eh' è molta.
Acciò che ’l mio cantar piaccia a chi ascolta.
5 Febo area già nell’oceano il volto,
E bagnava fra Tonde i suoi crin d’auro,
E dal nostro emispero aveva tolto
Ogni splendor, lasciando il suo bel lauro,
Dal qual fu già miseramente sciolto :
Era nei tempo che più scalda il Tauro,
Quando il Danese e gii altri al padiglione
Si ritrovàr del grande Erminione.
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CANTO NONO.
161
3 Erminion fe far pel campo festa,
ParvegH questo buon comincìamenlo ;
E Mattafolle avea drielo gran gesta
Di gente armata a suo contentamento,
E ’ndosso avea una sua sopravvesta,
Dov’ era un Macometto in puro argento :
Pel campo a spasso con gran festa andava;
Di sua prodezza ognun motto parlava.
4 E’ si doleva Mattafolle solo, '
Gh’ Astolfo un tratto non venga a cadere,
E minacciava in mezzo del suo stuolo,
E porta una fenice per cimiere:
Astolfo ne sare’ venuto a volo.
Per cadere una volta a suo piacere ;
Ma Ricciardetto, che sapea l’omore,
Non vuol per nulla eh’ egli sbuchi fore.
6 Carlo mugghiando per la mastra sala,
Gom’ un lion famelico arrabbiato
Ne va con Ganellon, che batte ogni ala
Per gran letizia, e spesso ha simulato.
Dicendo: Ah lasso, la tua fama calai
Or fussi qui Rinaldo almen tornato ;
Ghè se ci fussi il conte e Ulivieri ,
Io sarei fuor di mille stran pensieri.
6 E dicea forse il traditore il vero,
Ghè se vi fossi stato pur Rinaldo,
Al qual non può mostrar bianco per nero.
Morto I’ arebbe come vii ribaldo.
Carlo diceva: Io veggio il nostro impero,
Gh’ ornai perduto ha il suo naturai caldo,
Poi che non c’ è colui eh’ era il suo core.
Cioè Orlando, ond’ io n’ ho gran dolore.
7 Lasciam costar chi in festa e chi in affanno ;
E ritorniamo a’ nostri battezzati.
Che col re Garador dimora fanno,
E de’ paesi eh’ egli hanno lasciati ,
E delle guerre mosse lor non sanno ;
Eron più tempo lietamente stati
Gol re pagano, e pur volean partire,
E cominciorno un giorno così a dire :
IV
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162
IL HORGANTE MAGGIORE.
8 Assai con (eco abbiam fatto dimoro,
Ed onorati da tua corte assai ;
La tua benedizion, re Caradoro,
Dunque ci dona, e ’n pace rimarrai:
Del tempo, che perduto abbiam, ristoro
Sarà buon fare, e me’ tardi che mai ;
Qualche paese ancor cercar vogliamo.
Prima che in Francia a Carlo ritorniamo.
9 Carador consenti la lor partita,
£ ringraziolli con giusti sermoni.
Dicendo : 11 regno mio sempre e la vita
In lutto è vostro, degni alti baroni.
Poi fe venir la donzella pulita,
E fece lor leggiadri e ricchi doni :
Ma la fanciulla chiamò poi da canto
Ulivier nostro, facendo gran pianto.
10 Dicendo : Lassa , io non ho meritato
Che m’ abbandoni, mio gentile amante ;
Dove lasci il cor mio sì sconsolalo?
Tu mi dicevi sempre esser costante.
Or tu ti parti, ed io non so in qual lato
Da te mi fugga, in ponente o in levante;
E quel che sopra tutto m’è gran duolo,
È del tuo sventurato e mio Ggliuolo.
11 Vedi che sola e gravida rimango,
Sanza sperar più le riveder mai ;
Però del mìo dolor con teco piango;
Ma questa grazia mi concederai.
Che poi che pur di duol la mente affrango.
Con teco insieme me ne menerai :
£ in ogni parte ove tu andrai cercando.
Ne vo’ con teco venir tapinando.
12 Ulivier confortava la donzella,
E dice: Dama, e’ non passerà molto,
Com’ io son ricondotto in Francia bella,
Ch’ a te ritornerò con lieto volto :
Però non ti chiamar si tapinella ,
Ch’io son legato, e mai non sarò sciolto;
E ’l (ìgliuol nostro, quando sarà nato.
Per lo mio amor ti sia raccomandato.
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CANTO NONO.
163
13 Con gran sospir lasciò Meridiana
Ulivier cerio in questa dipartenza,
Con isperanza, al mio parer, pur vana.
Re Carador con gran magnificenza.
Con molla gente d’intorno pagana.
Poi che più far non potè resistenza,
(ili accompasnò con tutta sua famiglia
Fuor della terra più di dieci miglia.
14 Pur finalmente toccò lor la mano,
E quanto può di nuovo a lor s’ è offerto ;
Via se ne vanno per paese strano,
E come e’ fumo entrati in un deserto,
Subitamente quel lion silvano
Da lor fu disparito, e questo è certo:
E volse a tutti in un punto le spalle,
E fuggì via per una scura valle.
15 Disse Rinaldo: Caro cugin mio,
Vedi il lion com’è da noi sparito!
Questo miraeoi ci dimostra Iddio,
Non è sanza cagion cosi fuggito ;
Ma quel Signor, eh’ è in ciel verace e pio,
A qualche fine buon 1’ ha consentito.
Rispose Orlando: Se ’l tuo dir ben noto.
Mollo se’ fatto, al mio parer, divoto.
16 Lascialo andar colla buona ventura,
Chè ’l suo partir più che ’l venir m’ è caro,
Chè molte volte m’ ha fatto paura.
Così molte giornate cavalcaro.
Tanto eh’ al fin d’ una lunga pianura
Un giorno in Danismarca capitaro;
Questo paese Erminion tenia,
Ch’a Montalbano è con sua compagnia.
17 Poi ch’egli ebbon salito sopra un monte,
Si risconlrorno in Saracini armati ;
E poi che fumo più presso da fronte ,
Furon da questi baroni avvisati.
Che il lor signor si chiama Fieramonlc,
E quattro mila avea seco menali.
Uomini lutti maestri da guerra,
Ch’ a visitare andava una sua terra.
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164
IL HOBGANTE MAGGIORE.
18 Quest’ è colai che Erminion lascioe.
Quando e’ parli, per guardia del suo regno.
Fieramonle Baiardo riguardoe,
Subito su vi faceva disegno ;
Verso Rinaldo in tal modo parloe:
Deh dimmi, cavalier famoso e degno.
Onde aveslu questo cavai gagliardo?
£ finalmente gli chìedea Baiardo.
19 Dicea Rinaldo: Assai me l’hanno chiesto,
Ma a nessun mai non lo volli donare.
Disse il Pagan : Se tu non vuoi far questo.
Deh lasciamelo un poco cavalcare.
Rinaldo intese la malizia presto,
E disse: Un bell’esempio ti vo’ dare,
Saracin, prima eh’ io ti dia il cavallo ;
E raccontò della volpe e del gallo.
so Andandosi la volpe un giorno a spasso
Tutta aflamata, sanza trovar nulla.
Un gallo vide, in su ’n un alber, grasso,
E cominciò a parer buona fanciulla,
E pregar quel che si faccia più basso,
Chè mollo del suo canto si trastulla;
11 gallo sempliciotto in basso scende ;
Allor la volpe altra malizia prende.
21 E dice : E’ par che tu sia cosi fioco,
r vo’ insegnarti cantar meglio assai ;
Quest’ è, che tu chiudessi gli occhi un poco.
Vedrai che buona voce tu farai.
Al gallo parve che fussi un bel giuoco :
Gran mercè, disse, che insegnato m’hai;
E chiuse gli occhi, e cominciò a cantare.
Perchè la volpe lo stessi ascoltare.
22 Cantando questo semplice animale
Cogli occhi chiusi, come i matti fanno.
La volpe, come falsa e micidiale.
Tosto lo prese sotto quell’ inganno,
E dovè poi mangiarsel sanza sale.
Cosi interviene a que’ che poco sanno.
Cosi faresti tu, chi ti credessi ;
Ben saria sciocco, se ’l cavai ti dessi.
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CANTO NONO.
165
23 Se vuoi giostrarlo, i’ sono al tuo comando:
Se tu m’ abbatti per la tua virtù
Su questo prato con lancia o con brando,
Sia tuo il cavai, non se ne parli più.
Fieramente rispose rimbrottando,
E disse: Poltronier,' che parli tu?
Com’ hai tu tanto ardir, matto villano ?
Quel che tu di’ noi direbbe il Soldano.
24 Se tu sapessi ben con chi tu parli.
Non parleresti cosi pazzamente:
Quantunque io soglio i pazzi gastigarli,
E ’l mio Tratello Erminion possente
Farebbe a tutta Francia e sette Carli
Guerra, com’ or vi fa colla sua gente;
Ch’a Montalbano ha posto già l’assedio.
Tanto che Carlo non ha alcun rimedio.
25 E tante schiere e giganti ha menati.
Per la vendetta far di quel Mambrino,
Ch’ uccise il Gor de’ traditor nomati,
Rinaldo, che pel mondo or va meschino;
E sbattezzar vuol tutti ì battezzali.
Disse Rinaldo: Bestiai Saracino,
Sia chi tu vuoi, che per la gola menti;
Chè mai Rinaldo non fe tradimenti.
26 Per forza o per amor del campo piglia,
lo vo’ pigliar per Rinaldo la zuffa ;
Ch’ io so eh’ egli è di si nobil famiglia ,
Che mai non fece tradimento o truffa :
E detto questo, girava la briglia.
Veggendo il Saracin com’egli sbuffa.
Disse : Sarebbe il diavolo costui ?
Mai più smentito in tal modo non fui.
27 Volse il cavallo, e lotto acceso d’ ira
Prese del campo, e poi si fu voltato.
Rinaldo all’ elmo gli pose la mira,
E ’l ferro della lancia v’ ha appiccato ;
Tanto che Fieramonle ne sospira.
Perchè dalla collottola è passato.
Si che per gli occhi gli passò la fronte,
E morto cadde in terra Fieramente.
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166
IL HOBGANTB MAGGIORE.
28 I Saracin, che questo hanno veduto,
Cominciorno pel colpo a sbigottire ;
E come avvien chi ’i signore ha perduto,
Pel prato cominciar tutti a fuggire.
Aveva un certo baron molto astuto
Fieramonte, e veggendo quel morire.
Venne a Rinaldo, e ginocchion si getta,
E disse: Fatta hai, baron, mia vendetta.
29 Se vuoi ch’io parli arditamente il vero,
10 ti dirò di questo traditore
11 qual tu hai morto, gentil cavaliere:
Sappi che ’l suo fratei, eh’ è qua signore,
Lo lasciò qui a governo del suo impero,
E mosso ha guerra a Carlo imperadore ;
E come e’ disse, a Montalban si truova
Per pigliar quello, e faranno ogni pruova.
30 Poi che costui si vide qua il messere.
Ha fatto cose contra ogni giustizia.
Rubato ha il terrazzano e ’l forestiere.
Mostrato in molti modi sua nequizia,
A nessun fatto ragione o dovere ;
E per più chiar mostrar la sua tristizia,
S’ alcun pur ne volessi dubitare.
Le nostre donne cominciò a sforzare.
3t E perchè alcun non aveva pazienza,
E’ lo faceva morir di segreto.
Tanto ch’assai per questa violenza
Per la paura si stavan di cheto ;
Trovato ha il suo peccato penitenza,
E tutto il popol nostro ne fia lieto :
Volle sforzar anco una mia sorella,
E non polendo, imprigionata ha quella.
32 Se tu se’ cavalier ch’abbi potestà,
Come mi parve veder poco avanti.
Togli il cavallo e la sua sopravvesta;
Noi ti farem compagnia tutti quanti,
E tutta la città ti farà festa:
Noi siam tutti baron de’ più prestanti:
Sanza colpo di spada o altra guerra,
A salvamento li darem la terra.
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CANTO NONO.
33 Noi v’ abbiam degli amici e de’ parenti ,
Tu ti potrai fermare in sulla piazza ;
E moslrerem far giostre e lorniamcnti,
E ’ntanlo farem metter la corazza
A’ più Odati, che ne lien contenti :
Tu terrai a bada quella gente pazza,
E tutti saran presi cosi in zurro :
E ora il nome mio saprai, Faburro.
34 Allor Rinaldo rispondeva a quello :
Prima ch’io t’abbi, Faburro, risposto,
0 mentre i miei compagni a questo appello.
Farmi tu fermi questa gente tosto;
Vedi che vanno via com’ un uccello.
Un mezzo miglio già ci son discosto,
E sanza lor non si può far niente.
Disse Faburro : Tu di’ saviamente.
55 E cominciò a spronare un suo giannette:
Rinaldo Orlando chiamava e Dodone
E Ulivieri, e contava ogni effetto:
Orlando orecchio alle |)arole pone,
E ’ntese ciò che quel Pagano ha detto ;
E disse : Forse Dio sanza cagione
Non ci ha mandati in questa parte strana ,
Ma per ben sol della Fede cristiana.
56 Ma si dolca che non v* era con loro
Morgante, il quale ha lasciato Ulivieri
Colla figliuola del re Caradoro ;
Ch’era rimaso con lei volentieri.
Per aspettar che tornassin costoro ;
Ed anco parve al marchese mestieri,
Perchè il fìgliuol di lui, quando nascessi.
Re Caradoro uccider noi facessi.
57 Meridiana avea chiesto il gigante
A Ulivier per un segno d’amore.
Per ricordarsi del suo caro amante.
Poi che montato fu in sul corridore.
E Ulivieri avea detto a Morgante:
Ben puoi restar dove resta il mio core;
Ritornerotti a veder con Orlando,
E ’l mio flgliuolo e lei ti raccomando.
168
IL HOBGANTE HAGfilORE.
38 Di questo Orlando si doleva a morte,
Dicendo: Se Morgante mio ci fosse,
Egli è tanto feroce e tanto forte,
Che fare’ rovinar con poche scosse
Il mondo, non che le mura o le porte ;
A molti so faria le gole rosse :
So che saremo in sì fatto travaglio,
Che molto sarebbe util quel battaglio.
39 Faburro in questo mezzo è ritornato.
Ed ordinato ciò che bisognava :
Rinaldo a Fieramonte avea cavato
La sopravvesta e l’arme che portava,
E sopra il suo cavallo era montato,
Tanto che tutto il Pagan rassembrava;
E ’n verso la città sono inviati.
Come Faburro gli avea ammaestrati.
40 Grande onor fanno tutti i terrazzani
A quel che credon Fieramonte sia ;
Rinaldo in sulla piazza a’ suoi Pagani
• Facea far giostra e festa tuttavia:
Faburro intanto menava le mani;
Truova gli amici e parenti, e dicia
Com’egli è morto il lor crudo tiranno,
E come ben le cose passeranno :
41 Che liberi sanz’ altro impedimento
Tosto saranno: e fe subito armare
Gran quantità, eh’ ognuno era contento
Di voler la sua patria liberare :
Mentre che in piazza si fa torniamento,
E ’l popol lutto stava a baloccare.
Giunse in un tratto con gran gente armata
Faburro, e tosto la piazza ba pigliata.
42 1 Saracin, che con Rinaldo sono,
Comincian tutti a insanguinar le spade ;
Chi morto resta, e chi chiede perdono;
E cominciorno a correr la ciltade
Con gran tumulto, e gran furore, e tuono:
Già son di gente calcale le strade,
E non sappiendo ignun questo trattato,
Dicevan : Fieramonte fìa impazzato.
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CANTO NONO.
169
43 Rinaldo corse al palazzo reale,
Dov’ era la Reina e’ suoi fìsliuoli ;
E come giunse in capo delle scale,
Disse la donna: Perchè i nostri stuoli
Sun st turbati, e perchè tanto male?
Così far, Fieramonte mio, non suoli:
Che caso è questo, e chi muove tal guerra.
Che sottosopra va cosi la terra ?
44 Rinaldo di Frusberta gli menoe
Un colpo tal, che gli spiccò la testa.
Prese i tìgliuoli, e tutti gli ammazzoe.
I Saracin dicien: Che cosa è questa?
£ finalmente la terra piglioe.
Con quella gente che drento vi resta ;
Poi trasse di Faburro la sorella
Della prigione, atlliUa e meschinella.
46 E poi che fumo alcun di dimorati,
E con Faburro ognun si fu scoperto.
Ed hanno i nomi lor manifestati,
E ’l popol vide ogni segreto aperto ;
Furon tutti d’accordo battezzati.
Rendendo a (lesù Cristo grazia e merto.
Che liberati gli ha da quel crudele,
E fatto a sè questo popol fedele.
46 Poi con Faburro, che sapeva il fatto.
Si ragionò dell’ oste eh’ è a Parigi,
E come Gano avea aspettato il tratto,
£ mosso guerra e discordia e litigi ,
Per dare a Carlo Mano scaccomatto ;
E che soccorrer si vuol Saa Dionigi :
Faburro s’ accordò che vi si vadi
Subitamente, e che più non si badi.
47 Orlando disse : E’ mi dispiace solo.
Che noi lasciamo il possente gigante
A t'aradoro ; ond’ io n’ ho molto duolo.
Disse Dodon : Se tu vuoi, sir d’ Angrantc,
Andrò per lui com’nn falcone a volo;
In pochi giorni sarà qui Morgante:
A tutti piacque che per lui s’andassi,
E per far presto Raiardo menassi.
I. ’ 15
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170
IL HORGiNTE MAGGIORE.
48 Cosi fu fatto, e messesi in cammino,
£ tanto va questo bacon gagliardo,
Che a Carador famoso saracino
Giunse un di in sulla piazza con Baiardo.
Riconosciuto è presto il paladino ;
Diceva Carador : Se ben riguardo,
Quest’ è Dodon, che ci torna a vedere,
E quel par di Rinaldo il buon destriere.
49 Meridiana, che ’I conobbe presto.
Giù per la scala correva abbracciano.
Dicendo: Dodon mio, che gaudio è questo!
Io ti conobbi subito al cavallo :
Ch’è d’ Ulivier? deh fammel manifesto,
Chè di saperlo ho voglia sanza fallo.
Disse Dodonc: Ulivier tuo ti manda
Mille salute, e ti si raccomanda.
50 Or chi vedessi la dama amorosa.
Subito come di Dodon s’accòrse.
Farsi nel volto come fresca rosa,
E come presto abbracciarlo poi corse,
E domandò dove Ulivier si posa ;
Non islarebbe del suo core in forse:
Ch’è di Rinaldo, dicea, baron franco?
Tu debbi, Dodon nostro, essere stanco.
51 Ch’é di quel paladin, ch’ogni altro avanza,
Orlando nostro famoso e possente?
Chè di saper di tutti ho disianza.
Intanto Caradoro era presente,
E salutò Dodone, com’è usanza;
Poi domandava di tutta la gente.
Dodon rispose : In paesi lontani
Gli lasciai in Danismarche salvi e sani.
53 E la cagion eh’ a te son qui venuto,
£ che mi manda Rinaldo d’ Amone,
E ’l conte Orlando, e che bisogna aiuto
Al nostro t'.arlo Man, ch’Erminione
A Monlalban più giorni ha combattuto,
E assediato col suo gonhilone;
Convien eh’ i’ meni tue aenti e Morganle.
In questo tempo compari il gigante.
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CANTO NONO.
171
63 E corse presto Dodone abbracciare,
E mille voile domandò d’ Orlando ;
Dodon gli dice, come e’ vuole andare
In Francia, e come e’ io manda pregando
Che in Danìsmarche lo vadi a trovare :
E tutti insieme vennonsi accordando
Che si raguni il lor popol pagano.
Per dar soccorso presto a Montalbano.
64 In pochi di fur fatte molte squadre.
Per dover tutti inverso Francia gire.
Meridiana dice: O caro padre.
Non mi volere una grazia disdire;
Io vo’ provar le mie virtù leggiadre
In Francia, ben s'i’ dovessi morire:
S’ io debbo aver da te mai alcun piacere.
Fa eh’ io sia capitan di nostre schiere.
65 Re Caradoro avea tanto desio
Di ristorar del benefìcio antico
Rinaldo e gli altri, che rispose: Anch’io
M’ accordo al tuo parer, però ti dico
Che tu vi vadi col nome di Dio ;
Perchè Rinaldo è stato buono amico:
Quando fu tempo, ci dette il suo aiuto;
Di ristorarlo al bisogno è dovuto.
66 Orlando e Ulivier siccome amici
Ci hanno trattali, sa tutto il mio regno.
Ne’ casi avversi, miseri e ’nfelici ;
Adunque il priego di Dodone è degno,
E ricordar si vuol de’ benefìci.
Ch’essere ingrato Iddio I’ ha troppo a sdegno.
Meridiana fu troppo contenta.
Che in dubbio stava alla risposta attenta.
57 E poi si volse a Morgante, e dicia :
E tu con meco, gigante, verrai.
Dicea Morgante : Da tua compagnia
Non dubitar ch’io mi diparta mai;
Cosi ti giuro, e do la fede mia.
Disse la dama: Io ne son lieta assai;
Parmi mill’anni rivedere il conte,
E l’ardilo Rinaldo di Chiarmonle.
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172
IL MORGANTE MAGGIORE.
CS Qaesto dicea colla lingna la dama,
Ma Ulivier diceva col suo core ;
Morganle, che sapea luUa la trama,
Rispose : Dove lasci il tuo amadore,
Che so che giorno e notte ancor ti chiama?
Hai tu si tosto lasciato il suo amore ?
Disse la dama : Ulivieri è qui meco,
Perù noi dissi, ed io son sempre seco.
69 In poco tempo furono ordinali
Quarantamila, e falle dicci schiere,
E da re Caradoro licenziali,
E date (ulte al vento le bandiere ;
Ed eran bene in punto, e bene armali,
Come conviensi a ciascun cavaliere,
Cavalli e scimitarre alla turchesca,
E scudi e larghe e archi alla moresca.
60 Meridiana aveva un palafreno
Quartato, che pareva una montagna,
E ciò che questo mangiava, orzo e Geno,
Con acqua fresca prima gli si bagna ;
E non era cavai, ina nondimeno
E’ non se gli poteva appor magagna.
Se non che il capo aveva di serpente,
E molto destro e forte era e corrente.
6t Questo in un bosco già facea dimoro ,
E nacque d’ un serpente e d’ un’ alfana;
Mugghiava forte che pareva un toro.
Mai non si vide bestia cosi strana;
Un che lo prese, il dette a Caradoro,
E Caradoro il diè a Meridiana :
Nelle battaglie sempre lo menava,
E molla fama con esso acquistava.
62 Tanto cavalca questa franca gente.
Che in Danismarche alla Qne arrivorno.
Quando Rinaldo la novella sente,
Una mattina in sull’alba del giorno.
Chiamava Orlando e ’l marchese possente ;
E presto quel che fossi s’ avvisorno :
Perchè di lunge si vede il gigante,
Che col battaglio veniva davanle.
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CASTO «OSO.
173
63 Diceva Orlando : Ecco Morganle nostro,
Ed ha con seco gran gente pagana ;
E Caradoro grande amor ci ha mostro,
Che la nostra amistà non sia lontana.
Disse Uiivier : S’ egli è Morgaute vostro,
Dov’ è la bella mia Meridiana ?
Io ’l bramo tanto , eh’ io la veggo e sento,
E par eh’ io sia di questo errar contento.
61 E poi che furon più presso, vedea
Uiivier questa, che il passo studiava.
La qual conobbe al cavai ch’ella avea,
0 ver eh’ Amor cosi l’ ammaestrava.
Meridiana, quando lui scorgea.
Come stella nei viso fiammeggiava,
E del cavai saltò subitamente ;
Ed Uiivier facea similemente.
66 Ed abbracciolla con gran gentilezza,
Prima baciolla al suo modo franzese ;
La gentil dama per gran tenerezza
Noi potè salutar , tanto s’ accese :
E Uiivier sentia tanta dolcezza,
Che le parole sue non sono intese ;
Eppur voleva dir : Ben venga quella,
Che sola agli occhi miei fia sempre stella.
66 Gran festa fu tra’ Pagani e’ Cristiani,
E mollo Carador fu commendato.
Che si ricorda in paesi lontani
De’ benefici del tempo passato.
Dicea Faburro : O cavalier sovrani,
Sempre ho sentito un proverbio provalo,
E tengo nella mente vivo e verde :
Che del servire al fin mai non si perde.
67 Nella città più giorni si posaro,
E ’nlanto i nuovi Cristian sono in punto;
Quattromila in un’ oste s’ assembrare ;
Dicea Faburro : Or che Morgante è giunto,
È da partirsi ; e mollo mi fia caro.
Orlando, se lo mi ami o stimi punto.
Ch’io sia di questa gente conduttore,
E mostrerotti in Francia il mio valore.
15 *
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174
IL MOBGANTE MAGGIORE.
68 Orlando disse : E’ non è cosa gnuna
Ch’io ti negassi, Faburro possente.
Allor Faburro sua gente raguna;
E poi ch’egli ebbe assettata la gente,
Volle portar per insegna una luna
Sur una sopravvesta riccamente
Di seta bianca lavorata e d’oro.
Si che due corna pareva d’ un toro.
69 Or lasceremo il popol saracino.
Il qual di Danismarche già s’è mosso,
E ritorniamo al figliuol di Pipino,
Che piange, e dice fra sé: più non posso;
Non c’è Rinaldo, non c’è il suo cugino,
E tulio il mondo qua mi viene addosso ;
Non gli conobbi mentre erano in corte.
Or me n’ avveggo , e dolgomene a morte.
70 Gan tradilor lo riguardava fiso,
E con parole fitte il confortava,
E simulava uno sforzalo riso :
0 Carlo, troppo di questo mi grava.
Perchè pur bagni di lacrime il viso ?
E trentamila de’ suoi ragunava,
E disse: lo voglio andare, il traditore,
A Montalban con questi, impcradore.
71 E tutti a Carlo gli menava avante;
E fece suo capitano il Magagna,
Dicendo : Io voglio assalir lo ammirante
Con questa compagnia, eh’ è tanto magna
E so che noi piglierem Lionfante;
Io lo farò dar, Carlo, nella ragna:
E seppe tanto acconciar ben 1’ orpello.
Che Carlo si logliea per oro quello.
72 A Montalban n’ andò con questo inganno,
E si pensò pigliarlo a salvamento :
E tutti all’ ammirante se ne vanno;
E disse : lo ti darò per tradimento
La terra e’ tuoi nemici che vi stanno,
E metterotli questa notte drente ;
Ma Lionfante era uom troppo da bene,
E fece quel eh’ a’ suoi par si conviene.
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CANTO NONO.
17K
73 E disse : Io ti vo' dare una novella.
La volpe un tratto molto era assetata ;
Entrò per bere in una secchia quella,
Tanto che giù nel pozzo se n’è andata;
Il lupo passa, e questa meschinella
Domanda, come sia cosi cascata:
Disse la volpe: Di ciò non t’ incresca :
Chi vuol dei grossi nel fondo giù |>csca.
74 Io piglio lasche di libbra, compare;
Se lo ci fussi, tu ci goderesti;
Io me ne vo' per un tratto saziare.
Rispose il lupo : Tu non chiameresti
A queste cose il compagno, comare,
E forse che mai più non lo facesti.
Disse la volpe maliziosa e vecchia:
Or oltre vienne, e entrerai nella secchia.
75 II lupo non islelte a pensar pine,
E tutto nella secchia si rassetta,
E vassene con essa tosto giue ;
Truova la volpe, che ne vien su in fretta;
E dice il sempliciotto : Ove vai tue?
Non vogliam noi pescar ? Comare, aspetta.
Disse la volpe: Il mondo è fatto a scale.
Vedi, compar, chi scende e chi su sale.
76 II lupo drenlo al pozzo rimanea :
La volpe poi nel can dette di cozzo,
E disse, il suo nimico morto avea ;
Onde e’ rispose, bench’e’sia nel pozzo.
Che '1 tradilor però non gli piacea :
E presela, e ciuflblla appunto al gozzo.
Uccisela , e punì la sua malizia ;
£ cosi ebbe luogo la giustizia.
77 Se tradimenti hai fatti alla tua vita
Già mille volle , a questa datti pace ;
Tu non farai di qui giammai partita
Per nessun modo, tradilor verace.
Ch’ogni tua colpa vecchia Ga punita,
Ghè’l tradilor per nulla non mi piace,
E piglierolli al gozzo col capreslo.
E preselo, e lega r lo fece presto.
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176
IL M0B6ANTE UAGaiOBE.
78 E poi mandò di sabito un messaggio,
A dire a Astolfo, eh’ era in Montalbano;
Che perch’egli era di nobil legnaggio,
Bench’ e’ sia Saracino e lai Cristiano,
A tradimento non vuoi fargli oltraggio,
O in altro modo, e eh’ avea preso Gano,
*£ impiccherallo, par che lo consenti:
E disse tatto de’ suoi tradimenti.
78 II messaggiero a Astolfo se n’ andoe,
E disse come ha detto il sao signore,
E tatto il tradimento gli contoe :
Astolfo fece a qael messaggio onore,
E poi Gaicciardo e gli altri a sé chiamoe,
E riferì di questo traditore ;
E chiese a tatti consiglio e parere.
Quel che si faccia di Gan da Pontiere.
80 E che per sè medesmo gli parrebbe.
Che si risponda che lo impicchi presto;
Poi s’ accordorno, eh’ util non sarebbe,
Che’l tempo avverso non pativa questo;
Che la sua gente si ribellerebbe.
Quantunque Gan meritassi il capresto :
E ringraziorno il famoso Pagano ,
£ chiesongli di grazia vivo Gano.
81 Astolfo dette al messo un palafreno,
E disse : Questo tien per amor mio.
Il messaggier ritorna in un baleno,
E raccontò d’ Astolfo il suo desio.
Lionfante, nom di gentilezza pieno.
Rispose: Come Astolfo vuol, vogl’io;
£ contro al suo voler Gan liberava:
Gano a Parigi subito arrancava.
82 E disse a Carlo il traditor fellone.
Ch’aveva fatta certa sua pensata.
Come ingannar potessi Erminione ;
Ma poi era la trappola scoccata,
E come preso fu nel padiglione:
Cosi la sua tristizia ha coverlata.
Dicendo: Un tradimento facea doppio.
Che insin di qua ne sentivi lo scoppio.
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CANTO NONO.
177
83 Carlo il credette ben, chè ’l ver dicea,
Che ’l tradimento doppio era ordinato-
Astolfo in questo tempo gli scrivea,
Come questo fellon l’ avea ingannato,
Carlo all’ usato a Ganellon credea,
Chè cosi era nel ciel destinato ;
E conferiva con lui come prima '
Ogni segreto, e cosi facea stima.
SA Erminion colla sua gente bella
Sempre più inverso Montalbano è ilo :
Era per Pasqua, giunse la novella
U’ un messaggier eh’ è lutto sbigottito ;
Tanto che giunto a gran pena favella,
Poi disse tutto per duolo smarrito :
Erminion, male novelle hai certo.
Sappi tu se’ col popol tuo diserto.
85 E ’l tuo fratello è morto Fieramonte,
Che combattendo un di con un Cristiano
(Ili passò l’elmo, e ruppegli la fronte;
E dice eh’ è il signor di Montalbano,
Ed ha con seco quel famoso conte
Orlando, che tremar fa il monte e’I piano;
La città presa e abbruciala è tutta,
E la tua gente scacciata e distrutta.
86 Faburro è quel che il tradimento fc.
Tutti i suoi amici ha fatti far Cristiani,
E lutto il regno in preda a coslor diè;
Gran quantità son morti de’ Pagani,
Sanza trovare o rimedio o merzè :
Io gli ho veduti tagliar come cani,
E la tua donna in molli affanni e duoli ,
Uccider crudelmente e’ tuo’ figliuoli.
87 E li so a dir, che li vengono addosso
Con ben quarantamila cavalieri.
Ed era il campo, quando io parti’, mosso :
Faburro è ’l capitan di que’ guerrieri,
('.he di sua gente ha fatto campo grosso ,
E vien con lor, per mostrare i sentieri.
Quando il Pagan senti quel ch’egli ha detto.
Bestemmiò forte lo Iddio Macomelto.
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178
IL HORGANTE MAGGIORE.
8S E disse: Traditor crudele e rio,
Mai più l’ adorerò, cosi li giuro :
10 vo’ che Satanasso sia il mìo Dio,
O se v’ è altro diavolo più oscuro:
Che l’ ho io fallo? dove è il fralel mio,
Ch’ io lasciai pur nel suo regno sicuro ?
Dove è la donna mia eh’ io ti lasciai,
E’ miei fìgliuol eh’ io li raccomandai ?
89 Che farò io, se in qua ritorna Orlando,
E se torna Rinaldo il mio nimico ?
Or verrò le mie ingiurie vendicando
Contro a costui dal mio Mambrino antico.
Quivi era Salincorno, e lacrimando
Dicea : Fratello, ascolta quel eh’ io dico ;
Dov’è la fama e tua virtù fuggita?
Hai tu perduto il tuo campo o la vita?
90 E’ si conosce nell’ avversitade
11 savio sempre, e nel tempo felice
Non si può ben veder chi ha in sé boutade ;
Questo sai tu , eh’ ognun che intende dice :
Se Fiemmonte è morto, e la cillade
Distrutta cosi misera e infelice.
Tu hai qui tanta gente di tua setta.
Che d’ ogni cosa si farà vendetta.
91 Erminion per ira fe venire
Tutti i baron legali, e poi scrivea
A Carlo Magno, e manda cosi a dire,
Che gli farà morir di morte rea
Con gran vergogna, e con islran martire.
Se non gli dà Parigi, conchiudea,
E ’l suo tesoro e tutto il suo paese ;
E che il primo impiccar farà il Danese :
92 Anzi squartar, perchè e’ fu già pagano,
£ rinnegato avea lo Iddio Maconc.
Il messo giunse presto a Carlo Mano,
£ l’ambasciata fe d’ Erminione.
Carlo, com’ uom già disperato e insano.
Nulla rispose alla sua orazione ;
£ ’l messaggiero indricto tornò ratto.
Dicendo, Carlo gli pareva un malto.
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CANTO NONO.
179
93 Carlo, poi che’i messaggio fu parlilo,
A un balcon si slava addolorato,
Nè sa più che si far tulio smarrito ;
Wa ’l suo Gesù non 1’ ara abbandonato,
Ch’Orlando in questo tempo è comparito,
Com’ io dirò nell’ altro mio trattato,
Col suo fratello e col pagano stuolo.
Cristo sia sempre il nostro aiuto solo.
NOTE.
2. latciando il suo bel lauro.
Dal qual fu già cc. K noto come il
lauro fu sacro ad Apollo, perchè Dnfne
da lui amala fu in quello convertita.
E dice il Poeta che ne fu miseramente
sciolto, accennando appunto a quella
Ninfa dalla quale fu sciolto e diviso
allorché ella, fu(jgendo da lui che la
insegfuiva^ divenne per opera di Giove,
o come altri vogliono di suo padre
Peneo, un alloro. Da indi in poi
Apollo ornò la sua chioma e la Lira
delle fronde di cotale albero , e volle
che mai potesse e>ser tocco da folgori ;
per la qual cosa alcuni Imperatori pa>
gani, a tal credenza afiidati , usarono
farsi un serto d’alloro, e quello porsi
sul capo al primo mugghiare della
tempesta. In appresso il lauro fu sem*
pre il distintivo dei trionfanti e dei
Poeti ; e i Romani ne adornavano le
insegne militari, e sotto l’impero tene*
votilo appeso alla porta del palazzo
imperiale, — Era nel tempo che più
scalda il Tauro. Cioè dal 21 aprile
al 21 maggio, nel qual tempo il sole
è nella costellazione del Toro. La fa*
vola pose fra Ì segni dello zodiaco
questo animale , sotto la cui Ggura
Giovo rapi Europa. Ma forse il Toro
che la rapi fu un bastimento chiamato
Toro , e il rapitore uno di quei re di
Creta, che solean, per orgoglio, darsi
nome di Giove.
o. gesta. Significa qui turba, mol*
iitudine di gente, o Pusò poi nello
stesso significato anche P Ariosto, Can-
to XLYI, St. d04:
Mostra ('.arto «prezzar colla «ut gesta.
4. ornare. Voce antica: lo stesso
che umore Dante l’usò nel trentesimo
dell’ in/erno;
La grave idropisia, die sì dispaia
Le inembra cuQ Puiuor che mal converte.
5. mastra sala. La sala princi*
pale. Dìcesi anche mastra porta , ma*
stra torre, mastra piazza c simili.
G. Al qual non può mostrar
bianco per nero. Non può dare ad
intendere una cosa per un’altra. È
questo uu modo di dire usato pare
nello stesso significato dai Latini , ed
ebbe orìgine dall’antica costumanza
di contrassegnare colla creta o con
una linea bianca le coso prospere, e
col carbone le avverse e cattivo ; onde
Persio disse :
Ida prius creta, mox fiere e^ròone aotattì,
S4t. V, V. 8.
Trovasi questo stesso proverbio in Ovi*
dìo, dove parla d’Autulìco figliuolo di
Mercurio e dì Chionc:
ui faeere auuerat, patrier non dtgener arili,
andtda de nigrii, et de eaiuienUbui atra,
Mctamorf., lib. 11.
E in Giovenale:
Cedamus patria: viv^int Arturius ittic
Et CaUtlut { maneant qui nigra in candida
{verfunt.
Sat. III.
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180
IL HORGANTB MAGGIORE.
— ribaldo. « Ribaldo (dice il Boti) tanto
è a dire quanto rio baldo, cioè ardito,
rio uomo. » Anticamente però il nome
di ribaldo era preso in sl(jnUicato di
uomo prode ; cioè in buona parte ,
come lo erano g è TÙpavvo{ appresso
a’ Greci , latro appresso a’ Latini , e
anche barone appresso a noi Italiani.
— il $uo naturai caldo- Il suo solito
vigore e potenza j tolta la metafora
dal corpo dell’ animale , nel quale
quando cessa l’ azione del cuore , e
per conseguenza il movimento circola-
torio, vien tosto meno la calorifica-
zionc.
9. la donzella pulita. Leggiadra.
•12. tapinella. Infelice, disgrazia-
ta. Diminutivo di tapino, che viene
dal greco Ta.Trstvó?, umile, sommesso.
-19. Un bell’ etemplo ti vo’ dare.
Erano molto in voga a quel tempo gli
apologhi. Nel Mambriano, questo re
volgendo in animo di chiedere aiuti
al gran Cane dei Tartari, a Tamerla-
no, e al re di Danimarca , aduna in-
nanzi di far ciò il suo consiglio, nel
quale un vecchio guerriero si fa a
narrare un apologo, che è in sostanza
quello d’ Esopo dell’ allodola, de’ suoi
figliuoli, e del padrone del campo ; e
con questa favola persuade a Mam-
briano che non è da por fidanza ne’
vicini , ma da adoperare ed aiutarsi
da sè. Ci avverremo in questo stesso
Poema ad altri di siffatti apologhi : la
volpe caduta io un pozzo a St. 73 di
questo stesso Canto , e i buoi e la loro
ombra nell’ acqua al Cauto XLII ,
St. 51 .
23. E ditte: Poltronier. Poltro-
niere, lo stesso che poltrone. Il Sal-
masin nel suo trattato de Trapezitico
fanore narra come gl’ imperatori Va-
lentioiano e Valente aveano ordinato
che chiunque atto alle armi si fosse,
per sottrarsene, recise le dita, venisse
condannato ad esser arso. Da ciò si
rileva che cotal uso di recidersi le dita
doveva essere assai comune in quel
tempo, e quelli che ciò facevano erano
chiamati con tronca voce pottrones
da pollex (pollice) e truncui. Ora ,
siccome chi aveva le dita cosi tronche
dava a divedere com’egli era uomo
vile e codardo, si estese in appresso
un siffatto nome di poltronet a tutti
coloro che pigri e ignavi nel vivere si
addimostravano. Da questa voce pol-
tro, onta, nacque l’ italiano poltro,
adoperato da Dante nel XXIV del
Purgai.:
ConM fan bestie Bpaventaio e poltre \
e dall’ Ariosto nella IV Satira;
E più mi piace di posar le poltre
Membra
Onde poltrone non è che l’accrescitivo
di poltro. Non so come il Landino so-
pra quel verso di Dante;
Ornai convien che tu cesi ti spoltre;
e il Vellutello sopra quei del Pe-
trarca :
La gola, il sonno, e P oziose piame
Hanno dui mondo ogni virtù sbandita;
abbiano detto che poltro significa let-
to ; conciossiachè non mi sia mai ab-
battuto a tal voce in cotale significato,
nè i Vocabolari! 1’ accennino. Virgilio
non altro volle dire a Dante in quei
versi che questo : • Ornai conviene che
tu scuota la tua pigrizia ; perchè fa-
cendo il poltrone, e standosene a letto
non si acquista rinomanza nel mondoj >
e tolse cotal sentenza da quella di
Platone Koipùunoi oùdsi; oùdsvo;
a^ioi (un dormiente non è degno di
pregio alcuno).
26. truffa. Inganno e furberia.
Trovasi il verbo truffare in alcuni
scrittori latini del peggior secolo, e
vien dal greco rpupaca, che significa
far buona vita, godere, scherzare, lus-
sureggiare e simili.
30. il mettere. Messere è titolo
di maggioranza , oggi uscito quasi af-
fatto d’ uso , e formato delle due pa-
role mio, e tire o tere (signore), l’ ul-
tima delle quali è rimasta al presente
a siguifieare titolo di maestè. Questa
voee mettere posta assolutamente e
coll’ articolo avanti , come in questo
lungo , significa assoluto e dispotico
padrone.
32. poletla. Potere, potenza.
I Quando verrà lor uimica intesta.
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CANTO NONO.
181
diise Danto. — A salvamento. Posto
COSI avverbialmente vale senza danno,
sano e salvo, tncolumis.
35. in zurro. Zurro è lo stesso
che rnzio ; c vale allegria , desiderio
smodato di checclicssia. Il Vorabola-
rio pone ad esempio questo stesso
luogo del Morganto.
33. giannelto. Giannetto è cavallo
di Spagna, detto così dallo spagnuolo
ginete. Vedi sopra tal voce il Covar-
tuvia e il Menagio nelle Origini fran-
cesi, alla voce genet.
do. menava le mani. Menare le
mani, oltre il signiGcato di combattere,
ha anche quello di aflaccendarsi, stu-
diarsi in far checchessia.
41. a baloccare. A baloccarsi, e
vale spassarsi, trastullarsi: inutiliter
tempns Irahere; e dicesi propriamente
dei ragazzi, chiamandosi balocchi quel-
le cose che si danno loro io mano per-
chè si trastullino. Viene da badaluc-
care , che significa tenere a bada ,
trattenere , e anche leggermente sca-
ramucciare. Latino, velilari; greco,
46. Gatto avea aspettalo il tratto.
Cioè la congiuntura, il tempo oppor-
tuno.
49. Mille salute. Salute per saluti
l’adoperò anche il Petrarca nel Capi-
tolo secondo;
Cli' a pena gli potei render salate.
Greco àvnaoof.
33. Di ristorar. Ricompensare,
rimunerare.
59. scimitarre alla turchesca.
Scimitarra è una specie di spada che
si va a poco a poco curvando verso la
pnnta, e simile quasi a quel coltello
di cui Senofonte racconta che si ser-
vivano i Persiani. I Turchi la chiamano
cedarè, e gli Arabi seife. Vedi Laz-
zaro Soranzo nell’ OUomanno ; arti-
colo 40. — targhe. La targa è una
specie di scodo di legno e di cuoio.
Greco, ÒLonif. K così detta da tergum,
perchè facevasi col tergo de’ buoi ,
come sì cava da quel di Virgilio :
Nrc duo tauna terga
ffec duplici cquuma lorica fUielU et auro
Susdnuit
Eaeideg lib. IX.
E anche i Latini indicarono col nome
di tergum tale scudo; onde Virgilio
nello stesso lib. IX :
Et Vénti adverti in tergum Sutmonte, iSiguo
Frangitur, ac fiero traneit preeeordia tigno;
e nel X ;
et tergo deeutU haetae,
61 . ed’ un’ alfana. Alfana , lo
stesso che cavalla. È voce spagnuola,
composta dell’articolo arabo al, e
della voce latina equa, corrotta a que-
sto modo secando il Meoagìo; equa,
eka, aka, haka, foca, facana, e final-
mente per contrazione fana. I Casti-
glianesi, come vedesi nel Franciosini,
dicevano, e forse dicono tuttora, haea-
nea e /incunea per cavalla, e foca gli
Aragonesi, secondo il Nicozio.
71. Io lo farò dar... nella ra-
gna. Dar nella ragna vale incorrere
nell’agguato, incidere in casses . —
orpello. È rame ridotto in sottilissime
lamine, colla superficie di colore si-
mile all’oro. Viene da auripdUit ,
quasi oropelle, cioè con pelle d’oro;
onde talora (dice la Crusca) ce ne ser-
viamo per finzione e abbellimento. II
Varchi scrìve nell’freoluno: a S’ usa
orpellare, quando alcuno mediante la
ciarla, e per pompa delle parole, vnol
mostrare che quello che è orpello sia
oro ; cioè fare credere ad alcuno le
cose o pìccìole, o false, o brutte, es-
sere grandi, vere c belle. •
81 . a Parigi subito arrancava.
Arrancare vale propriamente il cam-
minare che fanno in fretta gli zoppi e
sciancati, e viene da anca. Qui è in n-
gnificato di properare, aniudeiv.
82. covertala. Coperta, nascosta.
— scoppio. È il remore e fracasso
che nasce dallo scoppiar delle cose.
Viene dal latino sclopput , usato an-
che da Persio:
Nec teioppo tumidae intendie rompere huecae.
Sst. T.
16
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182
IL HOBGÀNTE UAGGIORE.
CAlilTTO DEC^O.
4isi<B(Diuatav(0o
È soccorso Parigi, e Gano accenda
Romor, che Carlo è io lega co’ Pagani.
Stuol maganzese la città difende;
Rinaldo ed Erminion menan le mani :
A’ paladìn la libertà si rende.
Rinaldo e Orlando han de’ pensieri strani ,
E Malagigi n’è la cagion forte:
Vegnrto da Morgante è posto a morte.
1 Te Deum laudamus, sommo Padre;
Te confessiam, signor giusto e verace;
Laudata sia la tua benigna madre :
Donami grazia, Signor, se ti piace,
Ch’io conduca a Parigi le mie squadre,
E tragga Carlo fuor di contumace ;
E ch’io ritorni ov’io lasciai il mio canto
Colla virtù dello Spirilo Santo.
S Era già presso a Parigi tre miglia
Faburro, ch’era innanzi all’ altra gente ;
Mentre che Carlo voltava le ciglia,
Tide le schiere, e gli stormenti sente:
Non sa che fussin della sua famiglia,
E più che prima fu fatto dolente ;
Pur cosi afllitto alla sua gente è corso,
E chiama Gan, che debba dar soccorso.
3 Gano appellò il suo capitan Magagna,
E disse: Presto alla porta n’andate,
Chè nuova gente vien per la campagna ;
Quivi la vostra prodezza mostrate,
Ché starsi drente poco si guadagna.
Fumo in Parigi molte gente armale;
Ognun del caso nuovo si sconforta,
E tutti si ridussono alla porta.
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canto decimo.
4 Faborro è giunto valoroso, ardilo,
Che cavalcava un possente cavallo ;
La lancia abbassa, un Cristiano ha ferito,
E morto in terra faceva cascallo ;
Gan di Maganza incontro gli fu ilo,
£ disse: Aspetta, Iraditor vassallo;
La lancia abbassa, e lo scudo percosse.
Ma dell’ arcion Faburro non si mosse.
6 Al conte Gano un colpo della spada
Delle, che presto trovò la pianura;
Molti cader ne fece in sulla strada,
Tanto eh’ assai ne fuggon per paura.
Gan si rilieva, e non istetle a bada,
E riprovar volea la sua ventura ;
E fece quel che potea il fraudolente.
Ma in questo tempo giunse l’ altra gente.
6 Per Parigi era levato il romore,
E Carlo era montalo in sul destriere.
Giunto alla porta, con molto dolore
Subito riconobbe le bandiere
Del suo nipote Orlando e ’l corridore,
Ch’ avea scoperto il segno del quartiere ;
E già Faburro incontro gli è venuto,
£ dismontalo, e fatto il suo dovuto.
7 È questo Carlo, c’ ho bramato tanto
Di vederli una volta? or son contento ;
Non dubitar, pon fine al lungo pianto;
Qua è Orlando, che già presso il sento.
Carlo si trasse per dolcezza il guanto,
E disse: Lieva, baron d’ardimento.
Ed a Faburro toccava la mano ;
In questo, giunse il sir di Montalbano.
8 E saltò di Baiardo, e ’nginocchiossi ;
Ecco Ulivier che facea similmente.
Non sapea Carlo in qual mondo si fossi ,
Tanta allegrezza nel suo petto sente.
Non si son questi pria di terra mossi
Che ’l suo nipote giugneva presente,
E saltò armato fuor di Yegliantino,
£ ’nginocchiossi al fìgliuol di Pipino.
184
IL HOBGANTB MAGGIORE.
9 Carlo gli abbraccia con amor perfetto,
E benedisse mille volte o pine :
Meridiana giugneva in efletto;
£ dismontata, poi che in terra fue,
S’ inginocchiò dinanzi al suo cospetto.
Disse Uliyier: Questa crede in Gesue,
E sua prodezza non ha pari al mondo;
Viene a veder te, imperador giocondo.
10 Ed è figliuola d’ un gran re pagano,
£ molla gente ha qui di suo paese,
E vengono aiutar te, Carlo Mano.
Subito Carlo le braccia distese,
E prese la donzella per la mano,
E ringraziolla di si fatte imprese ;
£ grand’ onore alla gente pagana
Facea far Carlo di Meridiana.
<1 Disse Ulivieri alla gentil donzella:
Che li par, dama, dello imperadore?
Disse la donna graziosa e bella :
Degno di gloria e di pregio e d’ onore ;
E certo chi di sue laude favella.
Al mio parer, non può pigliare errore:
Non minuisce già la sua presenzia
La fama, il grido, e la magnificenzia.
12 Carlo la fece cavalcar davante,
£ poi appresso il duca Borgognone ;
Ecco apparir col battaglio Morgante.
Carlo guardava questo compagnone,
E disse : Mai non vidi un tal gigante!
Ebbe di sua grandezza ammirazione.
Morgante ginocchion lo superava,
E cosi Carlo la man gli toccava.
13 Verso il palazzo Carlo s’ invioe.
Più che mai fussi in sua vita contento :
Gan, come Orlando vide, si pensoe.
Che questo fussi il suo disfacimento ;
£, come disperato, a sé chiamoe
Magagna, e fece un altro tradimento.
Dicendo : Poi che questa gente pazza
Entrata è drento , soccorriam la piazza.
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CANTO DECIMO.
183
14 Gridiam che Carlo Iradimenlo ha fallo,
E ch’egli ha dalo Parigi a’ Pagani,
E come alcun di lor v’è conlraffallo.
Che pare Orlando e gli allri capilani.
E lullo il popol sollevò in un Irallo;
Corse alla piazza con armale mani :
Il popol parigin dava favore
A Gan, chiamando Carlo Iradilore.
15 Non si conosce ancor per molli Orlando
0 gli allri, perchè l’elmo avieno in lesta:
1 Maganzesi la piazza pigliando,
Fu la novella a Carlo manifesta,
Che tutto il popol si veniva armando :
Parvegli segno di cattiva festa.
Rinaldo presto correva alle sbarre
Co’Saracin, ch’avean le scimitarre.
16 Fumo in un tratto le sbarre tagliale,
E in ogni parte, ove Gan fe serraglio;
Meridiana è tra sue gente armale,
E fe gran cose in si fallo travaglio ;
Orlando corse coll’ altre brigale ;
Giunse Morganle, e diguazza il battaglio;
E Ulivieri innanzi alla sua dama
Dava gran colpi, per acquistar fama.
17 Rinaldo, in mezzo di que’ Maganzesi,
Quanto poteva Frusberla menava.
Tagliando a chi bracciali, a chi arnesi,
E molli morti in terra ne cacciava ;
Molti ne fur feriti e molti presi :
Ecco il Magagna, che quivi arrivava;
Rinaldo al capo un gran colpo gli mena,
E fessel come tinca per ischiena.
18 Ma poi che fu conosciuto Rinaldo
E gli allri, ognun per paura fuggia,
Che lo vedieno infurialo e caldo ;
Tosto la piazza sgomberar facia ,
Dicendo : Ov’ è quel Iradilor ribaldo
Gan da Ponlier? Ma fuggia tuttavia ;
Non si fidò di star drente alle mura ,
Perch’egli avea di Rinaldo paura.
16 *
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186
IL HORGANTE MAGGIORE.
^9 Così fu presto cessato il furore ;
E conosciuti i nostri buon guerrieri ,
Ognun gli abbraccia con molto fervore ;
Tutto il popol gli vide volentieri ;
Ognun si scusa collo ’mperadore,
Nessun si vede di que’ da Pontieri :
E con gran festa e piacere e sollazzo,
Tutti n’ andorno a smontare al palazzo.
90 Era venuta intanto Alda la bella,
Per rivedere Orlando il suo marito ;
Rinaldo una corona ricca e bella
Donava a questa, ov’ era stabilito
Un bel rubin che valea due castella:
Alda la bella col viso pulito ,
Gran festa fe del marito, e di quello,
E d’ Ulivieri il suo caro fratello.
31 Poi che furono alquanto riposati,
Queste parole Rinaldo dicia:
O Carlo, io non ci veggo, bench’io guati,
Uggieri, 0 Namo, o 1’ altra baronia ;
Che n’hai tu fatto? bagli tu sotterrati,
O son prigioni andati in Pagania?
Carlo a Rinaldo subito ha risposto :
Tutti son vivi, e qui gli vedrai tosto.
22 E raccontò com’andata è la guerra,
E ciò eh’ è stato dopo il suo partire ;
Come il re Erminion Montalban serra ,
E i suoi haron minaccia far morire;
E come Astolfo è drento nella terra,
E Ricciardetto suo c’ ha tanto ardire.
Parve a Rinaldo e gli altri il caso strano
De’ paladini, e si di Monlalbano.
23 Diceva Orlando : Presto i paladini
Si bisogna, Rinaldo, riscattare;
Io vo’ che ’l campo là de’ Saracini
Domani a spasso andiamo a vicitare,
(2he trenta miglia son presso a’ conGni.
Meridiana cominciò a parlare :
lo vo’ venir, se la domanda è degna,
E ’l mio Morgante vo’ che meco vegna.
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CANTO DECIMO.
187
24 Cosi Faburro, e cosi ii buon marchese:
Vedremo un poco come il campo sta,
Diceva Orlando ; e ’l partito si prese ;
Ognon presto portar l’ arme si fa.
Cosi coperti di piastra e d’arnese,
Usciron tutti fuor della città
Quella mattina al cominciare il giorno,
E ’nverso Montalban la via pigliorno.
25 Eran qualche otto leghe cavalcali.
Quando a lor si scoperse il |>adiglione
D’Erminion, dove stavan legati
Berlinghier nostro, e Namo, e Salomone,
E ’l buon Danese, e gli altri sventurati;
E se non fossi che il re Erminione
Sentito avea come Orlando venia,
Tutti impiccare e squartar gli facia.
26 Ma dubitò di quei che gli bisogna,
Dicendo : Se morir faccia m costoro,
E’ ne potre’ seguir danno e vergogna ,
Ch’Orlando vendicar vorrà poi loro,
E metter ci potrebbe in qualche gogna.
Che ci darebbe qualche stran martore:
Se vivi son, qualche buon tratto fare
Si può con essi, e’ prigioni scambiare.
27 Vide tante trabacche e padiglioni,
Destrier coperti d’arme rilucenti,
E sentia trombe sonare e busoni,
E far pel campo variati strumenti.
Per Montalban gatti, grilli e falconi,
Da combattervi su poi quelle genti ;
E disse: Erminion, per Dio, sollecita
Pigliar la terra, e parmi cosa lecita.
2S Meridiana disse al conte Orlando:
Se ti fussi in piacer, caro signore.
Una grazia mi fa eh’ io ti domando ;
Io vo’ pel mezzo entrar col corridore
Del campo tutto, e venirlo assaltando,
E trapassarlo via con gran furore,
E fare un colpo degno alla mia vita :
Cosi pregò questa dama gradita.
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188
IL MOBGAKTE MAGGIORE.
29 Ma vo’ che presso Morgan(e a me vegna,
Se bisognassi por qualche soccorso,
E forse arrecherotti qualche insegna ;
Anzi per cerio, bench’io le lo ’nforso.
Rispose Orlando : La preghiera è degna
D’ aver il campo in tal modo trascorso ;
Non dubitar, sicuramente andrai:
E tu, Morganle, l’accompagnerai.
SO Meridiana allor prese una lancia.
Brocca il cavai c’ ha serpentina testa,
E grida : Viva Carlo, e viva Francia !
Quando fu tempo mise Faste in resta,
Troova un Pagano, e per mezzo la pancia
Gii mise il ferro con molla tempesta;
Poi trasse fuori una fulgente spada,
E fe pel mezzo del campo la strada.
31 E come morto fu questo Pagano,
Fu la novella a Salincorno delta.
Ch’egli è venuto un cavalier villano,
E molli in terra col suo brando getta ;
Salincorno s’ armava a mano a mano.
Però che far ne voleva vendetta :
Verso Meridiana il cammin prese
Questo giovin gentil, saggio e cortese.
32 E molta gente che fuggiva, scaccia :
Tornate a drielo, per un sol fuggite?
Arebbe costui d’ Ercol mai le braccia?
Fugli risposto in parole spedile :
Egli è il diavol che tua gente spaccia :
Se noi credete, a vederlo venite;
Egli ha cacciato in terra ognun che trova,
E parci cosa inusitata e nuova.
33 Rispose Salincorno : Io vo’ vedere
Chi è costui, c’ha in sé tanta arroganza,
Che sia passato tra le nostre schiere ;
Orlando non aria tanta possanza.
Meridiana rivolse il destriere.
Come di Salincorno ebbe cerlanza.
Salincorno la lancia abbassa in quella,
B feri nello scodo la donzella.
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CANTO DECIMO.
189
34 La lancia in aria n’andò in mille pezzi;
Disse la dama: Ah cavalier codardo,
A questo modo la tua fama sprezzi?
Questa non è usanza d’ uom gagliardo,
Ch’ a ferir colla lancia alcun t’ avvezzi
Che sia col brando ; e tu non v’ hai riguardo :
Volgiti a me, poi che tu m’ hai percossa.
Vedrai che deli’ arcion non mi son mossa.
35 Ebbe vergogna Salincorno allora,
E ritornava in drieto a fare scusa.
Dicendo: lo non ave’ veduto ancora,
Se tu t’ avevi lancia o soda o busa.
Meridiana a quel sanza dimora
Rispose: In Danismarche cosi s’ usa?
Cosi fanno i baron d’Erminione?
Tu debbi esser per certo un gran poltrone.
36 Ma non si fa cosi di Carlo in corte,
Dove fiorisce ogni gentil costume ;
Vedrem se tu sarai cavalier forte,
E s’ altra volta poi vedrai me’ lume:
Prendi la spada, io ti disfido a morte,
E farotti assaggiar d’ un altro agrume.
Salincorno la spada trasse fore.
Per acquistar, se poteva, il suo onore.
37 Poi che più colpi insieme si donorno.
Nè r un nè I’ altro guadagna niente ;
Un tratto volle ferir Salincorno
La gentil donna, e dette al suo corrente;
E molto biasimalo fu dintorno,
Chè gli spiccava il capo del serpente,
E ritrovossi in sull’ erba la dama :
Or questo è quel che gli tolse ogni fama.
3S Morgante volle il battaglio menare.
Per ischiacciar la testa a quel Pagano ;
Meridiana gridava : Non fare;
Vendetta ne farò colla mia mano.
Salincorno s’ aveva a disperare,
E duolsi mollo di quel caso strano ;
I Saracin ferno a Morgante cerchio.
Tanto eh’ al fin saranno di soperchio.
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190
IL MORGANTE MAGGIORE.
59 E misson lui con la donzella in mezzo,
E cominciorno una fera batlaslia :
Ma a molti dava il battaglio riprezzo,
A molti trita la falda e la maglia.
Dicea Rinaldo: Or non istiam più al rezzo,
Chè non è tempo; se Gesù mi vaglia,
lo veggo a piede là Meridiana
In mezzo a tutta la turba pagana.
40 Orlando sprona subito il destrieri,
E ’nverso il campo girava la briglia,
E ’l simigliante faceva Ulivieri ;
Così lutto queir oste si scompiglia :
Erminion senti che que’ guerrieri
Eran venuti, e fanno maraviglia;
E disse: Traditor di Macometto,
E’ Ha Rinaldo per più mio dispetto ,
41 E ’l conte Orlando, che tornati sono;
Altri non so eh’ avessin tanto ardire.
Di metter qua la vita in abbandono :
Subito incontro gran gente fece ire,
E disse : Io credo ancor che sarà buono
Ch’ io m’ armi tosto ; e l’ arme fe venire,
E ’l suo cavai di fine acciaio coperto,
Chè vivere o morir dispose certo.
42 Orlando in mezzo alla sua gente entrava,
E una lancia, ch’egli aveva, abbassa;
E ’l primo che allo scudo riscontrava.
Lo scudo e l’arme e ’l petto gli trapassa :
Poi trasse Durlindana, e martellava;
Quanl’arme truova, tante ne fracassa;
Fece un macel di gente in poca dotta:
Rinaldo n’ avea già morti una frotta.
43 Ed Ulivier facea quel che far suole ;
Ma tuttavia tenea gli occhi a colei,
Ch’ era sua scorta , come agli orbi il sole.
Colpi menando dispietati e rei.
Perchè soccorrer la sua dama vuole ;
Ovunque e’ guata, facea 1’ agnusdei.
Rivolto sempre alla sua dama bella,
E quanto può sempre s’ appressa a quella.
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CANTO DECIMO.
191
44 E non poteva ancor romper la calca,
Che tuttavolla si Tacca più stretta;
Pur sempre innanzi a suo poter cavalca,
E ’n qua e ’n là com’ un lion si getta :
E molti colla spada ne difalca
Della turba bestiale e maladetta,
E tristo a quel eh’ aspettava Àltachiara ,
Chè gli facea costar la vita cara.
4.5 Morgantc in mezzo stava dello stuolo,
E col battaglio facea gran fracasso ;
Meridiana sentiva gran duolo,
Chè ’l corpo feniminil già era lasso :
Nè fuggir può, se non si lieva a volo.
Perchè non v’ era onde fuggirsi il passo ;
Ma pur Morgante spesso la conforta,
E molta gente avea dintorno morta.
46 Ed era tutto da’ dardi forato ,
E lance, e spiedi, c saette, e spuntoni;
E tutto quanto il corpo insanguinato;
Chè le ferite parevan cannoni.
Che gettan sempre fuor da ogni Iato:
Avea nel capo cento verrettoni ;
Ma tanti intorno avea fatti morire.
Che già del cerchio non poteva uscire.
47 L’un sopra l’altro morto era caduto,
E gli uomini e’ cavalli attraversati ,
Tal che miraeoi sarebbe tenuto.
Quanti furon poi morti annumerali:
Ave' cinque ore o più già combattuto;
Or pensi ognun quanti e’ n’abbi schiacciati,
Che non polca più aggiugner colle mani.
Tanto discosto gli erano i Pagani.
48 Meridiana assai s’ era difesa,
E or da’ dardi attendeva a schermirsi ;
Avea la faccia come un fuoco accesa,
Nè polca più collo scudo coprirsi,
Tanto era stanca, perchè troppo pesa,
E non poteva del cerchio fuggirsi,
E cosi afflitta, e sventurata a piede
Morir vuol prima, che chiamar merzede.
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192
IL HORGANTB MAGGIORE.
49 E pare ancora in Morgante si fida, /
E dicea spesso: li mio fallar li costa,
Ch’ io temo questa gente non t’ uccida.
Ecco Rinaldo ch’ai cerchio s’accosta,
E com’ e’ giunse, metteva alte grida.
Tanto che mollo la gente discosta:
Oltre, gente bestiai sanza vergogna,
Poi eh’ a due piè tanto popol bisogna,
60 Fatevi a drieto; e Frusberta menava:
Tulli sarete, Saracin, qui morti.
Meridiana, quando l’ ascollava,
Subito par che tutta si conforti:
Allor Rinaldo i colpi raddoppiava,
E vendicava di lei mille torti ;
E poi in un tratto, com’ un leopardo.
In mezzo il cerchio fe saltar Baiardo.
61 E fe saltar Meridiana in groppa,
Che si gittò di terrà com’ un gatto,
Nè mica parve affaticala o zoppa ;
E fuor del cerchio risaltò in un tratto :
Cosi con essa pel campo galoppa.
Ognun eh’ il vide ne fu stupefatto:
Quest’ è Rinaldo, o ’l gran Signor d’ Angrante,
Dicevan lutti : e lasciorno il gigante.
62 E molti al padiglion si ritornorno,
Veggendo cose far sopra natura;
In questo tempo giunse Salincorno;
Meridiana il vide per ventura :
Rinaldo nostro cavaliere adorno,
Che non tenea Frusberta alla cintura.
Gli trasse d’un fendente in sull’elmetto,
Che gli cacciò Frusberta insino al petto.
63 E Salincorno cadde in sul terreno,
E vendicata fu la damigella;
Rinaldo prese il suo cavai pel freno,
E fe montar Meridiana in sella,
Che vi saltò su in manco d’un baleno:
E Ulivier, che vide la donzella,
Disse: Io venivo ben per darli aiuto.
Ma le schiere passar non ho potuto.
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CANTO DECIMO.
193
54 Avea Faburro, Ulivìeri ed Orlando
Morii quel di migliaia di Pagani,
E lutlavia ne venien consumando :
I Saracini ancor menan le mani ;
Ma tanto e tanto i paladini il brando
Insanguinato avcvan di que’ cani.
Che |>er paura assai n’ eran fuggiti
A’ padiglioni, e gran parte feriti.
56 Ermiuion dicea pur: Chi vi caccia?
Chè gli vedeva fuggir da ogni parte.
E’ rispondieno a quel che gli minaccia:
Fuggiam dinanzi alla furia di Marte ;
E’ non c’è uom con si sicura faccia.
Che si confidi di sua forza o arte :
Qua son venuti nuovi Etlorri al campo.
Nè contro a’ colpi lor si Iruova scampo.
56 Noi vedemmo Rinaldo, o fu il cugino.
In mezzo al cerchio saltar col cavallo ;
Quivi era lutto il popol saracino,
E non potemmo tanto contrastano.
Che pose in groppa un altro paladino,
Ch’ era assediato, e saltò fuor del ballo;
E a dispetto nostro il portò via;
Mai vedemmo uom di tanta gagliardia.
67 E Salincorno ha morto, il tuo fratello.
Erminione allor si dolse forte,
E cosi disse : Poi eh’ è morto quello.
Ch’era il più lìcr Pagan di nostra corte,
A tradimento quel Rinaldo fello
0 ’l suo cugin gli ara data la morte.
Fogli risposto: E’ non fu a tradimento,
Chè chi l’uccise, n’ uccidrebbe cento.
58 Allora Erminion : Sia maladelta
Tua deità, Macon; più volle disse;
E giurò far del suo fralel vendetta.
Se mille volle come lui morisse:
Dov’è Rinaldo a gran furia si getta.
Ed una lancia, eh’ avea, in resta missc ;
E com’ egli ha Rinaldo conosciuto,
Lo salutò con uno stran saluto.
t7
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194
IL MORGAKTE MAGGIORE.
69 Dio U sconfonda, disse Enninione,
Se la se’ il prenze sir di Montalbano,
Colui che porla sbarrato il lione,
Ch’ ancor lui sbarrerò colla mia mano.
Rinaldo, adendo si fatto sermone,
A lui rispose: Cavalier villano.
Che di’ tu, re di farfalle o di pecchie?
10 t’ ho a punir di mille ingiurie vecchie.
60 Rispose Erminion : Del tempo antico
A vendicar m’ ho io de’ miei parenti ;
Tu uccidesti come rio nimico
11 re Mambrin con mille tradimenti.
Disse Rinaldo : Ascolta quel eh’ io dico ;
Per la tua gola, Erminion, ne menti;
Ch’a tradimento vien tu qua. Pagano,
Perch’ io non c’ero, assediar Montalbano.
61 Ma tanto attraversato ho il piano e ’I monte,
Ch’io t’ho trovato, e non ti puoi fuggire;
E ’l tuo fratello uccisi Fieramonte,
E detti al popol tuo giusto martire :
A Salincorno ho spezzata la fronte.
Or farò te col mio brando morire.
Quando il Pagan senti rimproverarsi
Tante alte ingiurie, cominciò a picchiarsi,
62 E in sull’arcion percuotersi l’elmetto,
E bestemmiar Macon divotamente,
E battersi col guanto tutto il petto :
Are’ voluto morir veramente ;
E poi rispose : D’ogni tuo dispetto.
Che fatto m’ hai, ne sarai ancor dolente ;
E misse come disperato un grido :
Prendi del campo tosto, eh’ io ti sfido.
63 E poi soggiunse; Facciam questo patto;
Da che tu m’ hai cotanto offeso a torto.
Che Montalban mi doni, s’io l’abbatto;
E se tu vinci me, datti conforto,
Ch’ e’ tuoi prigìon li renderò di fatto,
Chè nessun n’ ho danneggialo nè morto :
E che s’ intenda per un mese triegua,
E poi ciascun quel che gli piace segua.
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CANTO DECIMO.
61 Rinaldo disse : A ciò contento sono,
E poi voltava in un tratto Baiando ,
E dice: Se mai fusti ardito e buono,
A questa volta fa che sia gagliardo.
Poi si rivolse che pareva un tuono ;
Nè anche Erminion parve codardo :
E quando insieme s’ebbono a colpire,
Parve la terra si volessi aprire.
65 Erminion colla lancia percosse
Sopra lo scudo il franco paladino;
L’ aste si ruppe, e d’arcion non lo mosse ;
Ma ’l prò’ Rinaldo giunse al Saracino
D’un colpo tal, che, benché forte fosse.
Si ritrovò in sull’erba a capo chino,
E disse: 0 Dio, che reggi sole e luna.
Può far eh’ io sia caduto la fortuna?
66 Egli è pur ver quel che si dice al mondo,
Che questo è il fior de’ cavalier nomati !
Rizzassi, e disse: Paladin giocondo,
Or son puniti tutti i miei peccati,
E come dianzi più non ti rispondo,
D’ avere i miei congiunti vendicati ;
Io ho perduto ogni cosa in un punto,
O’ogni mia gloria e fama il fine è giunto.
67 Or sarà vendicalo il mio parente.
Or sarà vendicato Fieramente,
E Salincorno, e tutta I’ altra gente:
Però chi fa vendetta con sue onte.
Al mio parere, è matto veramente,
E spesso avvien che si batte la fronte :
Or pel consiglio di dama Clemenzia
Del suo peccato ho fatto penitenzia.
6 S Ghè chi governa per consiglio il regno
Di femmina, non può durar per certo,
Ch’e’ lor pensìer non van diritti al segno;
Qual maraviglia s’ io ne son diserto ?
Or si conosce il mio bestiai disegno ;
Ogni cosa ci mostra il fine aperto :
Cosi convien che spesso poi si rida.
Di quel che troppo a fortuna si fida.
196
IL MORGANTC MAGGIORE.
69 Quel eh’ io promisi, baron, vo’ servarli,
Come pur giusto re eh’ io sono aneora,
E lutti i tuo’ prigion vo’ eonsegnarti ;
Andianne al padiglion sanza dimora,
E la promessa tua vo’ ricordarli.
Disse Rinaldo: Per lo Iddio ch’adora
Re Carlo Mano e tutto il Cristianesimo,
Ciò che tu vuoi chiederai tu medesimo.
70 Inverso il padiglion preson la volta :
Erminion, ch’era uom molto da bene.
Fece pel campo sonare a raccolta,
Poi che fortuna nel fondo lo tiene;
La gente sua parea smarrita e stolta.
Come ne’ casi subito interviene;
Rende i prision eh’ avea legali e presi.
Co’ lor cavalli e lutti i loro arnesi.
71 Chi vedessi la festa e l’allegrezza
Che fanno i nostri possenti baroni ,
Sare’ costretto per sua gentilezza '
Di lagrimar con pietosi sermoni :
Diceva Uggier: Rinaldo, tua prodezza
Ci ha tratto fuor di molli strani unghioni ;
A questa volta aremmo tutti quanti
La vita data per quattro bisanti.
72 Noi abbiam sentito si fatto remore
Oggi pel campo, eh’ io pensai che ’l mondo
Fussi caduto, o giunto all’ ultim’ ore,
E lo stato di Carlo lussi al fondo ;
Ognuno avea della morte timore,
Chè ’l Saracin crudele e rubicondo
D’impiccar lutti ci avea minacciati,
E della vita slavam disperali.
73 Namo diceva: Il nostro buon Gesuc
Vi mandò qua per nostro aiuto solo,
E siam salvati per la tua virtue,
E liberati da gran pena e duolo.
Diceva Orlando: Non ne parliam pine,
Lasciam pur tosto de’ Pagan lo stuolo ;
Carlo non sa quel che seguito abbiamo.
Però verso Parigi ce n’ andiamo.
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CANTO DECIMO.
197
74 Erminion rimase assai scontento,
E i paladini a Carlo ritornerò :
Carlo gli abbraccia cento volle e cento,
E fu cessato ogni suo duolo amaro ;
Fecesi festa per la città drento ;
Ma questo a (ìanellon fu solo amaro.
Che per paura fuor s’era fuggito,
E dubitava non esser punito.
75 Poi eh’ alcun giorno insieme riposàrsi,
Dicea Rinaldo un giorno a Carlo Mano,
Ch’avea pur voglia da lui accomiatarsi,
E ritornare ìnsino a Montalbano,
E qualche dì colla sua sposa starsi.
Carlo contento gli toccò la mano,
E menò solo un servo molto adatto
Del conte Orlando, detto Ruinatto,
76 Ch’ era scudier compagno di Terigi ;
E mentre che cavalca, s’ è abbattuto.
Forse sei leghe discosto a Parigi,
Dove giaceva un bel vecchio canuto.
Quest’era, trasformato, Malagigi,
Tal che Rinaldo non l’ha conosciuto.
Sur una riva appoggiato alla grotta,
E d’ acqua piena aveva una barlolta.
77 Rinaldo il salutò cortesemente.
E’ gli rispose : Ren venuto siete ;
Se voi volessi ber, baron possente,
D’ una certa cervogia assaggerete.
Che doverrà piacervi veramente.
Rinaldo disse : Io affogo di sete,
E di ber acqua di fossato o fiume.
Quando cavalco, non è mio costume.
7S Quando Rinaldo ha bevuto a suo modo,
A Ruinatto il barlellò porgeva,
Dicendo : Peregrin , di te mi lodo ;
E Ruinatto come lui beeva,
£ non san ben di Malagigi il frodo.
Malagigi il barletlo ritoglieva.
Rinaldo poco e Ruinatto andava,
Ch’ ognuno scese, e di sonno cascava.
17 *
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198
IL HOBGANTB MAGGIORE.
79 Addormentali posonsi a giacere;
Malagigi gli segue come saggio,
E non poteva le risa tenere ,
Yeggendo quel c’ ha fatto il beveraggio:
Tolse la spada a Rinaldo e ’l destriere,
£ prese inverso Parigi il viaggio;
Messe Frusberta la spada sovrana
Nella guaina ov’ era Durlindana;
50 Cosi fiaiardo ov’ era Yegliantino;
E ritornò a Rinaldo che dormia,
£ dettegli la spada del cugino.
Cosi il cavallo, e poi dispari via ;
E messe sotto al capo al paladino
Una ceri’ erba che si risentia,
E risentito poco seco bada,
Chè del cavai s’ accòrse e della spada.
51 E volsesi a quel servo Ruinatto,
E disse: Tu debbi essere un ghiottone;
Dov’ è Boiardo mio? che n’ hai tu fatto ?
Questo è il cavai del figliuol di Milone.
Rispose lo scudiere stupefatto :
r ho dormito qua com’ un poltrone,
Chè il sonno come te mi vinse dianzi,
E non son ito più indrieto o più innanzi.
82 Disse Rinaldo ravveduto un poco :
Questo ara fatto far per certo Orlando;
£’ vuol pigliar di me sempre mai giuoco,
E fatto m’ ha scambiar Baiardo e ’l brando ;
Tutto s’accese di rabbia e di fuoco,
E fra sé disse : e’ li verrà costando.
A Monlalban pien di sdegno n’andava,
E Ruinatto in drieto rimandava.
S3 E scrisse al conte Orlando : Tu m’ hai tolto
A tradimento pel cammin dormendo
La spada e ’l mio cavallo, e come stolto
Sempre mi tratti, e poi ne vien ridendo ;
E perchè più d’ una volta m’ hai còlto.
Di soflcrirlo a questa non intendo :
Mandami in drieto e la spada e ’l cavallo ,
Se non , che caro ti farò costallo.
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CANTO DECIMO.
199
84 Orlando per ventura avea trovalo
Il destriere e la spada di Rinaldo,
Ed era forte con seco adirato,
E lutto quanto inanimito e caldo.
Dicendo: Come un putto son gabbato,
E parmi un atto stato di ribaldo,
E più che ’l fatto il modo mi dispiace.
E non potea fra sé darsene pace.
85 Intanto Buinatto gli portoe
La lettera, che ’l suo cugino scrisse;
Orlando mollo si maraviglioe,
E ’nverso Ruinalto cosi disse,
Se sapea nulla come il fatto andoe,
E quel che per cammino intervenisse ;
E Ruinatto rispondeva presto :
lo ti dirò quel eh’ io ne so di questo.
86 E raccontò, come trovò quel vecchio,
E come poi si posono a dormire ;
Orlando pone al suo parlar l’orecchio.
Di maraviglia credette stupire ;
Ma poi diceva : Un pulcin fra ’l capecchio
Par che mi stimi Rinaldo al suo dire:
E cosi indrieto a Rinaldo scrivea.
Che del suo minacciar beffe facea.
87 E che quando e’ parti dal re Cartone,
Esser dovea per certo un poco in vino ;
Però scambiò la sua spada e ’l ronzone ;
E che sia ver, che dormi pel cammino.
Poi gli diceva per conclusione :
Perché tu se’, Rinaldo, mio cugino,
Voler con teco quistion non m’aggrada,
Però ti mando il cavallo e la spada.
8$ Ma se ’l mio indrieto non rimanderai ,
10 ti dimostrerò che me ne duole ;
E se quistion di nuovo cercherai.
Tu sai ch’io so far fatti, e tu parole:
E poco meco al fin guadagnerai,
Chè sai che gnun non temo sotto il sole:
Or tu se’ savio, e so che tu m’ intendi ;
11 mio cavallo e la spada mi rendi.
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200
IL HOBGAMTE HAGGIOBE-
89 Tornato Ruinatto a Montalbano
Colla risposta del suo car signore.
Subito il brando suo gli pose in mano,
E consegnò Baiardo il corridore;
Rinaldo sbutTa come un leo silvano,
Per quel che scrisse il roman senatore,
E rimandava indrieto un suo valletto,
A dir cosi, chiamato Tesoretto:
90 Che non volea la spada rimandare.
Nè Vegliantin, se non gli promettea
Con lui doversi in sol campo provare.
Che di minacce sa che non temea;
E che nel piano lo volea affrontare
Di Montalban coll’ armi, conchiudea.
Tesoretto n’andò presto ad Orlando,
E la 'mbasciata venne raccontando.
91 Orlando, eh’ era discreto e gentile.
Ma molto fìer quand’ egli era adirato.
Tanto che tutto il mondo avia poi vile,
A Carlo tutto il fatto ha raccontato,
E come fece la risposta umile.
Credendo aver Rinaldo umiliato :
Ma poi ch’egli è per questo insuperbito,
D’ andarlo a ritrovar preso ha partito.
92 E che non ricusò battaglia mai.
Che non intende aver questa vergogna.
Carlo diceva : A tuo modo farai ;
Se cosi sta, combatter ti bisogna.
Orlando disse a Tesoretto : Andrai
Al prenze, e di eh’ io non so se si sogna ;
Ma se da ver m’ invita alla battaglia ,
Doman lo trovcrrò, se Dio mi vaglia.
93 E che m’ aspetti, com’ e’ dice, al piano.
Dal campo un poco de’ Pagan discosto.
Tesoretto tornò a Montalbano,
E disse quel che Orlando avea risposto.
Armossi col nipote Carlo Mano,
Poiché lo vide al combatter disposto ;
Però che Carlo mollo Orlando amava.
Cosi nel suo segreto il prenze odiava.
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CANTO DECIMO.
201
9t Are’ volalo Carlo onestamenle
Un di Rinaldo dinanzi levarsi,
E conosceva Orlando si possente ,
Che dice in questo modo potre’ farsi.
Rinaldo era inquieto e ’rapaziente,
Nè Carlo volse di lui mai fidarsi,
Rispetto avendo alle sue pazze furie;
Poi gli avea fatte a’ suo’ di mille ingiurie ,
95 E tratto la corona già di testa.
E’ si perdona per certo ogni offesa,
Ma sempre pur nella memoria resta,
E cosi l’uno all’altro contrappesa.
Carlo pensossi di farne la festa,
Veggendo Orlando e la sua furia accesa ;
Orlando tolse Rondelle e Cortana,
Chè non ha Vegliantin nè Durlindana.
9r> Meridiana e Morgante n’ andorno
Con Carlo e con Orlando , per vedere ;
I paladini assai lo confortorno.
Che non si lasci il signor del quartiere
Combatter col cugin suo tanto adorno.
Ma contrappor non puossi allo ’mperiere;
E molto Carlo Man fu biasimalo.
Quantunque s’ è con lor giustificato.
97 Tutta la corte s’avviava drieto.
Per veder questi due baron provare;
Morgante avea, come savio e discreto,
Isconfortalo mollo il loro andare :
Gano il sapea, e molto n’era lieto.
Dicendo : Orlando so che I’ ha ammazzare
Quel traditor di Rinaldo d’ Amone,
II qual d’ ogni mal mio sempre è cagione.
98 Altri dicien pur de’ baron di corte :
Carlo mi par che perda il sentimento;
Se muor llinaldo, e ’l Conte sìa più forte,
Non una volta il piangerà, ma cento;
Se ’l prenze dessi ad Orlando la morte,
Carlo a suo’ di non sarà più contento ;
Vennon pur ier di paesi lontani,
Per salvar noi dall’ oste de’ Pagani :
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202
IL HORGANTE MAGGIORE.
99 E tutto il popol rallegrato s' era ;
Ora é in un punto perturbalo e mesto:
Erminion colla sua gente fera
Non s’ è parlilo , e car gli sarà questo.
Cosi si parla in diversa maniera,
Tanto è che ’l caso a ciascuno è molesto,
E sopra tutto la gente pagana
Si condoleva con Meridiana.
100 E dicien tutti a lei : Magna regina.
Deh non lasciate seguir tanto errore.
Adoperate la vostra dottrina
(^ol conte Orlando o collo ’mperadore;
Benché noi siam di legge saracina,
E’ ce n’ incresce, anzi ci scoppia il core.
Meridiana con parole accorte
Carlo ed Orlando sconfortava forte.
101 Orlando non ascolta ìgnun che parli,
E dice: Io intendo una volta vedere
S’ io son Orlando , e vo’ il suo error mostrarli
Di ritenermi la spada e ’l destriere ;
Non eh’ io volessi però morte darli.
Ma farlo discredente rimanere :
E tanto finalmente cavalcorno,
Ch’ a Montalban fumo il secondo giorno.
102 Rinaldo stava più che in orazione
D’ appiccar con Orlando la battaglia ;
Vedi, che razza d’ uomo o condizione!
Vedi se sbergo era di fine maglia 1
E dice: s’ io lo truovo in sull’arcione.
Noi proverrem come ogni spada taglia.
Ma poi che vide Orlando già in sul piano,
Subito armato usci di Montalbano.
1U3 E tolse Durlindana e Vegliantino,
Seco dicendo : Se m’ abbatte Orlando,
Arà il cavallo e ’l brando a suo domino.
Erminion, che veniva spiando
Ch’ egli è venuto il figlino! di Pipino,
E la cagione, un messo vien mandando;
E dice a Carlo Man, se gli è in piacere.
Che vuol venir la battaglia a vedere.
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CANTO DECIMO.
203
104 Carlo rispose a lui cortesemente,
Ch’ a sno piacer venisse Erminione ;
Venne, e con seco menò poca gente
Per gentilezza e per sna discrezione :
Carlo lo vide molto lietamente,
E sempre a man sinistra se gli pone ;
Quantunque il re pagan ciò non volia.
Ma Carlo gliel domanda in cortesia.
105 Rinaldo venne, e seco ha Ricciardetto
In compagnia, e ’l signor d’ Inghilterra,
Che molto gli ha quest’ impresa disdetto,
Che con Orlando non debbi far guerra ;
Abbraccia Orlando quanto può più stretto,
Ed Ulivieri e Morgantc poi afferra :
Meridiana quanto punte onora,
Perchè veduti non gli aveva ancora.
106 E poi diceva : O nostro Carlo Magno,
Com’ hai tu consentito a tanto errore?
Tu non ci acquisti, al mio parer, guadagno,
E non sai quanto tu perdi d’ onore :
Se tu perdessi un sì fatto compagno,
Quant’è Rinaldo, saria il tuo peggiore;
Se tu perdessi il tuo caro nipote.
Per dolor poi graflìeresti le gote.
107 Che cosa è questa? un si piccolo sdegno
Per due parole ancor non si perdona ?
O Carlo imperador famoso e degno.
Questa non è giusta impresa nè buona :
Per Dio, della ragion trapassi il segno.
Carlo diceva fra sè: La corona
Non mi torrà di lesta più Rinaldo;
E slava nel proposito suo saldo.
108 Orlando intanto a Rinaldo s’ accosta,
E dice: Se’tu, cugino, ostinato
Combatter meco? se vuogli, a tua posla
Piglia del campo, e ciascun sia sfidalo.
Rinaldo non gli fece altra risposta.
Se non che presto il cavallo ha voltalo.
Carlo diceva : Io ne son malcontento ;
Dicea di fuor, ma noi diceva drento.
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204
IL HOBGANTE HAGGIOBE.
409 Mai non si vide falcon peregrino
Voltarsi cosi destro, o altro uccello,
Come Rinaldo fece Veglianlino,
0 come il conte Orlando fe Rondello :
Maravigliossi il gran re saracino
Dell’ atto fiero e valoroso e bello :
Rinaldo volse a Vegliantino il freno,
E cosi il conte, in manco d’ un baleno.
410 Un mezzo miglio s’eran dilungati,
E ritornavan con tanta fierezza,
Ch’e’Saracin dicien tutti ammirati :
Folgore certo va con men prestezza ;
Se questi son pel mondo ricordati,
É ben ragione, e se Carlo gli apprezza.
Erminion tenea ferme le ciglia ,
» Chè gli parea veder gran maraviglia.
4H Ma quello Iddio che regge il mondo e’ cieli.
Mostrò ch’egli è di giustizia la fonte,
E quanto egli ama i suoi servi fedeli :
Mentre che Vcgliantin va inverso il conte,
Par che in un tratto se gli arricci i peli,
E volse indrielo a Rinaldo la fronte.
Come se ’l suo signor riconoscessi,
E d’ andar contro a lui si ritenessi.
412 Gridò Rinaldo: Che diavolo è questo?
Voltati in drieto; che fai tu, cozzone?
Orlando gittò via la lancia presto :
In questo apparve alla riva un lionc ,
Il qual poi eh’ ognun vide manifesto,
Ebbe di questo fatto ammirazione.
Il fier bone ad Orlando n’ andoe , r
Ed una zampa in allo su levoe ;
413 Nella qual’ era una lettera scrìtta.
Che Malagigi ad Orlando mandava ;
Orlando la pigliò colla man dritta,
E come Tchhe letta, sogghignava.
Rinaldo colla mente irata e atllilta
Di Vcgliantin di subito smontava ;
Vide il lion, che gli pareva strano,
E come Orlando il brieve aveva iu mano.
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CANTO DECIMO.
208
114 Maravigliato inverso lui venia.
Orlando a dir gli cominciò discosto,
Come Malgigi ingannati gli avia,
E tutto il latto gli contava tosto ;
E poco men che per la lor follia
Non avea 1’ un di lor pagato il costo.
Quando Rinaldo la lettera intende,
Tosto il cavallo e ’l brando al conte rende.
115 E ringraziò 1’ eterno e giusto Dio,
Ch’ avea questo miraeoi lor mostrato ;
E disse: Or mi perdona, cugin mio,
E Carlo e gli altri, eh’ io ho troppo erralo ;
Ma Gesù Cristo nostro umile e pio
Veggo ch’ai fin m’ha pur ralluminato:
E riguardando ove il lione era ilo,
Non lo riveggon , eh’ egli era sparito. *
H6 Carlo e’ baroni avien lutto veduto,
E come Malagigi scrive loro.
Che fu quel vecchio che trovò canuto,
Ch’ avea scambiati i cavalli a costoro ;
E ringraziava Iddio c’ ha provveduto.
Che duo baron non si dessi n marloro.
Erminion, che vedea tutto aperto,
Parvegli questo un gran miraeoi certo.
117 E cominciò a dolersi di Macone,
Dicendo: Tu se’ falso veramente,
E quel che ci ha mandalo quel lione,
È il vero Dio e padre onnipotente ;
S’ io li fe’ sacrificio o orazione
Alla mia vita mai, ne son dolente,
E in ogni modo Cristo vo’ adorare:
E cominciò con Carlo a lagrimare.
118 O Carlo avventuralo, o Carlo nostro.
Ogni grazia per certo a noi procede.
Per quel ch’io veggo ornai, da Gesù vostro;
Veggo ch’egli ha de’ buon servi mercede,
E ’l gran miraeoi ch’egli ha qui dimostro,
E che Macone è falso e chi gli crede:
Da ora innanzi, degno Carlo Mano,
Io mi vo’ battezzar colla tua mano.
«• 18
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206
II, MORGANTE MAGGIORE.
119 Carlo abbracciò con moKa affezione
I! re, che lutto pareva cambiato
Nel volto, e pien di molta contrizione ;
E disse: Cristo sia sempre laudato;
Se vuoi eh’ io ti battezzi, Erminione,
Andianne al fiume che ci è qui da lato ;
E cosi finalmente andorno al fiume,
E batlezzòl secondo il lor costume.
150 Cosi fu battezzato il re pagano,
E baltezzossi il famoso ammirante,
(Ch’era stalo all’ assedio a Montalbano,
Com’ io già dissi, dello Lionfante;
E s’ alcun pur non si vuol far Cristiano
De’ Saracini, ritornò in levante.
Carlo a Parigi con gran festa torna,
Dove co’ suoi baron lieto soggiorna.
121 Ma il Iraditor di Gan, ch’era fuggito
Fuor di Parigi, e stava di nascoso.
Poi ch’egli intese come il fatto era ito,
Drento al suo cor fu molto doloroso ;
E pensa come Carlo abbi tradito,
R giorno e notte non truova riposo;
Sente che in corte si faccia gran festa.
La qual cosa più eh’ altro gli è molesta.
122 Pensa e ripensa, e va sottilizzando
Dove e’ potessi più metter la coda,
O dove e’ venga la rete cacciando :
D’ ira e di rabbia par seco si roda ;
Pur finalmente si viene accordando
Con seco stesso, e in su questo s’ assoda.
Di tentar Caradoro, se potessi.
Tanto che qualche scandol si facessi.
12:> E scrisse il traditor queste parole :
0 Carador, di te m’ incresce assai.
Che la tua figlia bella più che ’l sole
In Francia meretrice mandala hai,
E gravida è già* falla ; onde e’ mi duole.
Che tua stirpe reai disprezzi ornai :
Com’ hai tu consigliato mandar quella
Tra gente strana, si giovane e bella?
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CANTO DCCiMO.
207
12 A Per luUa Francia cT altro non si dice,
Che remmina tua figlia è diventata
D’ Ulivieri, anzi più che meretrice:
Dov’è tua fama già tanto vulgata?
Dov’é il tuo pregio e ’l tuo nome felice,
Chè la tua schiatta hai si vituperata?
Ciò ch’io ti dico, é il ver, della tua Gglia;
Se tu se’ savio, or te stesso consiglia.
i2ò La lettera poi dette a un messaggio ,
Che a Carador ne va sanza dimoro,
E ’n poco tempo spacciava il viaggio,
E rappresenta il brieve a Caradoro ;
11 qual senti di sua figlia l’ oltraggio,
E mai non ebbe si grave martoro :
E la sua donna ne fu molto grama,
Però eh’ al tutto ingannala si chiama.
m E la figliuola sventurata piagne.
Dicendo: Lassa, perchè li mandai.
Poi che scoperte son queste magagne ?
Mentre tu eri qui ne dubitai ;
Perchè già lese mi parvon le ragne
E’ tradimenti, ma pur non pensai,
Che tanto ingrata fussi quella gente:
Ma chi tosto erra, a bell’agio si pente.
127 O Caradoro mio, quanta fatica,
Quanti disagi, e quanti lunghi affanni
Sofferti abbiam, tu ’l sai, sanza eh’ io ’l dica.
Per allevar costei da’ suoi prim’anni;
Poi la dai in preda alla gente nimica.
Piena di frode , e di doli , e d’ inganni :
Non rivedrai mai più tua figlia bella,
E se por torna , svergognala è quella.
^28 Queste parole assai passano il core
Al tristo padre, e non sapea che farsi.
Di racquistar la sua figlia e l’ onore
Perchè lutti i rimedj erano scarsi :
Pur dopo molli sospiri e dolore.
Colla sua donna in tal modo accordàrsi ,
Che si mandassi Vegurfo il gigante
A condolersi delle ingiurie tante.
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IL HORGANTE MAGGIORE.
129 E che dovessi rimandar la figlia ;
E s’egli è imperador giusto e da bene,
Del tristo caso assai si maraviglia,
Poich’ Ulivier per femmina la tiene,
Di che per tutta Francia si bisbiglia:
E che il gigante per sua parte viene,
Che subito gli dia Meridiana,
E rimandassi sua gente pagana.
ISO E che se mai potrà farne vendetta.
Che la farà per ogni modo ancora;
Ma , come savio, luogo e tempo aspetta.
D fier gigante non fece dimora :
Subitamente una sua alfana assetta,
E presto uscì de’ pagan regni fora ;
Tolse la fromba, ed altri suoi vestigi,
E ’n poco tempo a Carlo fu a Parigi.
131 Tutto il popol correva per vedere
Questo gigante, ch’era smisurato;
Morgante non pareva un suo scudiere ;
A Carlo nella sala ne fu andato,
E con parole assai arrogante e fiere
In modo molto stran I’ ha salutato :
Macon t’abbatta come traditore,
E disleale c ’ngiusto imperadore.
132 II mio signor mi manda a te. Cartone,
Che subito mi dia la sua figliuola ^
E tutto quanto il popol di Macone
Che ti mandò, sanza farne parola ;
E Ulivier, quel ribaldo ghiottone.
Colle mie mani impicchi per la gola :
Cosi farò, come e’ m’ ha comandato,
E punirono d’ ogni suo peccato.
133 A Caradoro è stato scritto, o Carlo,
0 Carlo, o Carlo (e crollava la testa).
Della tua corte, che non puoi negarlo.
Della sua figlia cosa disonesta ;
Non doveresti in tal modo trattarlo:
Quel ch’io li dico è cosa manifesta:
Ulivier tuo la lien per concubina
Cosi famosa e nobil Saracina.
CANTO DBCIHO.
200
Questo non è quel ch’egli are’ credulo,
Questa non è gentilezza di Franza,
Questo non c l’onor c’ha ricevuto,
Questa non è d’ imperadore usanza ;
Questa non è giustizia nè dovuto.
Questo non è buon segno d’amistanza:
Questa non é più la figliuola nostra.
Poi eh’ ella è fatta concubina vostra.
t35 Questo non è quel che promisse il conte,
Quand’ e’ parli cogli altri del suo regno.
Così dicendo scoteva la fronte;
Ben parea pien di furore e di sdegno.
Carlo, sentendo ricordar tante onte,
Rispose: Ambasciador famoso e degno,
Per quello Dio ch’ogni Cristiano adora.
Di ciò che di’ nulla ne ’ntendo ancora.
tss Tu m’ hai fallo pensar per tutto il mondo,
E cosa che tu dica ancor non truovo ;
Però questo al principio li rispondo.
Come colui che certo ne son nuovo :
Il tuo signor famoso, alto e giocondo.
Per vero amico e molto caro appruovu :
Alla sua tìgliu ho fatto giusto onore.
Per mia corona, come imperadore.
137 Nè Ulivieri ha fatto mancamento.
Per quel eh’ io sappi, o palese o coperto:
Che se ciò fussi, i’ sarei malcontento,
E non sarebbe giusto o degno merlo.
Quando Ulivier vedea tanto ardimento.
Gridava : 0 imperador, troppo hai sotTerto :
Che dice questo traditor ribaldo?
Cosi diceva il Danese c Rinaldo.
-I5S meridiana, eh’ era alla presenzia ,
Non potè far non si turbassi in volto.
Quando senti trattar di sua fallenzia,
Chè tal segreto stimava sepolto :
Perdonimi, dicca, la riverenzia
Del padre mio, e’ parla come stollo ;
Chè sempre in questa corte sono stala
Da Ulivier più che d’ altri onorata.
18 *
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210
IL MORGANTB MAGGIORE.
139 Ed or, che Garador facci richiamo
Di questo, troppo in ver mi maraviglio.
Disse Ulivier : Che tanto comportiamo?
Subito dette a Altachiara di piglio :
Ma tosto gliela prese il savio Namo,
Dicendo a quel : Tu non hai buon consiglio :
Questo gigante è di natura acerbo,
E però parla arrogante e superbo.
440 Non si vuole agguagliar la lor natura
Colia nostra, Ulivier, nella Gerezza;
Però che non risponde tal misura.
Come non corrisponde la grandezza :
Lo ’mbasciador dee dir sanza paura ,
E vuoisi sempre osargli gentilezza.
Ma manco pazienzia ebbe Yegnrto,
E volse a Ulivier presto dar d’ orto.
441 Come un dragon se gli scagliava addosso,
E trassegli d’ un colpo d’ un’ accetta.
Credendogli ammaccar la carne e l’ osso ;
Ma Ulivier dall’ un lato si getta :
Carlo fu presto dalla sedia mosso ;
Ma il gran Morgante gli dava una stretta,
E corselo abbracciar subilamente ,
Benché Yegurto assai fossi possente. '
442 Yegurto prese lui sotto le braccia:
Or chi vedessi questi due giganti
Provarsi quivi insieme a faccia a faccia ,
Maravigliato saria ne’ sembianti ;
Ma pur Morgante in terra al 6n lo caccia.
Tanto che rider facea tutti quanti ;
Chè quando e’ l’ebbe in sullo smalto a porre,
Parve che in terra cadessi una torre.
443 E nel cader percoleva il Danese ,
Tal che ’l Danese sotto gli cascava :
Orlando molto ne rise e ’l marchese ;
Ma Namo presto Carlo consigliava ,
Che si levassin cosi fatte offese.
Cosi Yegurto ritto si levava,
E come ritto fu, gridava forte,
E tutti i paladin disGda a morte.
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CANTO DECIMO.
211
144 Disse Ulivier : Saresla Briareo ,
Con Giuppiterre, o Fialte famoso,
0 quel superbo antico Capaneo ?
Da ora innanzi, gigante orgoglioso.
Io ti disfido, se tu fussi Anteo:
Lo ’mperador possente e glorioso
Mi dia licenzia, e vo’ teco provarmi,
E fammi il peggio poi che tu puoi farmi.
145 Ah Ulivieri, Amor ti scalda il petto,
Che sempre fa valoroso chi ama ;
Tu non aresti di Marte sospetto,
Pur che vi fussi a vederti la dama.
Disse Vegurto : Per Dio Maco metto.
Questo più eh’ altro la mia voglia brama.
Ulivier prestamente corse armarsi,
Ghè col gigante voleva provarsi.
146 Morgante non potè più soflerire,
E disse a Carlo: Imperadore, io scoppio,
S’ io non lo fo colle mie man morire ;
Lascia eh’ i’ suoni col battaglio a doppio.
Al primo colpo il farò sbalordire.
Che ti parrà eh’ egli abbi bevuto oppio.
Carlo risponde, ma non era inteso,
Tanto ognuno era di furore acceso.
147 Non potea star Morgante più in guinzaglio.
Non aspettò di Carlo la risposta,
Ma cominciava a calar giù il battaglio ;
E ’l Der Vegurto a Morgante s’ accosta.
Or chi vedessi giocar qui a sonaglio.
Non riterrebbe le risa a sua posta :
L’un col battaglio, e 1’ altro colla scure,
S’ appiccon pesche che non son mature.
148 Non era tempo adoperar la fromba ;
E’ si sentiva alcuna volta un picchio,
Quando Morgante il battaglio giù piomba ,
Che quel Vegurto si faceva un nicchio ,
E tutta quanta la sala rimbomba ;
Ma coir accetta ogni volta uno spicchio
Del dosso lieva al possente Morgante,
Però che molto è feroce, il gigante.
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212
IL MOBGANTE MAGGIORE.
149 Olivieri era ritornato in sala
Armato, e con Vegurto vuol provarsi;
Ma quando e’ vide Morgante che cala
Il gran battaglio, e ’nsieme bastonarsi,
Si ritenea volentieri in sull’ ala.
Però che tempo non è d’ accostarsi.
Vegurto grida, e Morgante gridava.
Tanto eh’ ognun per la voce tremava.
450 E’ non si vide mai lioni irati
Mugghiar si forte, o far si grande assalto.
Nè duo serpenti insieme riscaldati :
Sempre l’ accetta o ’l battaglio è su allo :
Alcuna volta invano eran cascati
I colpi, e fatta una buca allo smallo:
Due ore o più bastonati si sono.
Ma del battaglio raddoppiava il suono.
151 Benché Vegurto assai più allo fosse
Che ’l gran Morgante, e’ non era più forte;
E già tutte le carne avevon rosse;
E a vedergli era tutta la corte :
Morgante a un tratto Vegurto percosse.
Deliberalo di dargli la morte ;
II gran battaglio in sul capo appiccoe,
Tal che Vegurto morto roviuoe.
162 E parve nel cader quel torrione,
Ch’ un albero cadessi di gran nave;
Fece tremar la terra il compagnone.
Non che la sala, tanto andò giù grave:
Dovunque e’ giunse , lo smalto e ’l mattono
Fracas^ lutto, e ruppe una gran trave;
Tanto che ’l palco sotto rovinava,
E molta gente addosso gli cascava.
163 Cosi mori il superbo imbasciadore,
E non tornò colla risposta a drielo :
Meridiana pur n’avea dolore.
Ma Ulivicr di ciò troppo era lieto.
Mollo dispiacque a Carlo imperadorc.
Benché nel petto il tenessi segreto,
Perchè pur era imbasciador mandalo ,
E pargli a Caradoro essere ingrato.
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CANTO DECIMO.
213
151 Caradoro aspettò più tempo invano,
Che nc dovessi la figlia venire.
Lasciam costoro, e ritorniamo a Gano,
Che non vide il disegno riuscire ;
E manda cosi a dire a Carlo Mano,
Come nell’ altro Canto vo’ seguire :
Chè so eh’ io v’ ho tenuto troppo a tedio.
Cristo sia vostra salute e rimedio.
NOTE.
1. contumace. Contumace dicesi
colui che disubbedisce a’ giudici col
non presentarsi , o col non farsi rap-
presentare, chiamato, innanzi loro. Qui
è posto hgnratainente.
13. suo dìtfacimento. Sua ruma,
ano danno.
17. bracciali. Quella parte drl-
l’armalura che arma il braccio. — ar-
nesi. Chiamasi arnese I' armatura ; c
perchè essa serve a difendere la per-
sona, il Casteivctro ha creduto potesse
esser nata dal verbo greco àpM j/ixi ,
che signiCca liberare , difendere ; ad-
ducendo per prova di ciò quel verso
di Danto ,
Siede Ceiicliiera} bello e forte arnese ve. ;
dove sembra che cotal voce sia usata
appunto in senso di opera, o strumento
di difesa. Il licinbo, il Varchi e il l’er-
gamini credono invece tal voce pro-
venzale j e il Menagio tedesca , deri-
vandola da arniich, clic ha tutti i si-
gniCeati della parola italiana arnese ,
la quale si estende eziandio a signili-
care qualunque specie di fornimenti
o masserizie di casa , di botteghe , di
città, di navigli, d’eserciti e simili;
insomma qualunque mobile non infor-
mato d’anima , come dice il Castelve-
tro ; il quale soggiunge : « e vogliono
alcuni che sia detto arnese , quasi ar-
mese ; sapendo che la signiUcazione
dell’arma si distende ad ogni mobile
non animato. Il che nò approvo nè
riprovo ; ma dirò bene che si potrebbe
credere che potesse venire da ornare
quasi orneie , ed ornamento ; poiché
o passa senza difficolta in a, come già
è stato detto. •
20. tlabililo. Posto, collocato;
chè il verbo stabilire ha, fra gli altri,
anche que.sto signiiìcato.
24. piatirà. L’armatura del dos-
so , che era fatta di lamine o piastre
di metallo unite insieme. Viene dal
greco iTÌàs5!iv, formare.
25. qualche otto leghe. Circa otto
leghe.
2G. E metter ci potrebbe in qual-
che gogna. Qui gogna è adoperato ligu-
ratamente in scuso di impaccio, intri-
go, o simili. In senso proprio però
vale quel luogo ove si espongano in
pubblico i malfattori , colle mani le-
gate di dietro, e con sul petto un car-
tello indicante il delitto ua essi com-
messo, e con un fermai collo, il quale
pure chiamasi gogna. Vogliono àlcnni
che questo ferro posto al collo dei mal-
fattori sia una cosa stessa con quel
che i Latini appellavan numellai; e
fanno da questa voce derivare berlina,
che signilica io stesso che gogna , in
questa forma: Giumella, Kumellina,
Mellina, Merlino, lierlina. Ma chec
chè altri si dica, è chiaro che la gogna,
più che allo numelle , rassomiglia al
collare che i Romani ponevano al cullo
degli schiavi fuggitivi , e del quale,
parla Plauto nella commedia deiCajo-
ittif, Atto 2°, scena 2, Collut collaria
corei; e Lucilio, appresso Nonio:
Cum maniets calato, ealtarù/ue, ut /mgitipim
Deporwn.
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214
IL HOBGANTE MAGGIORE.
Dopo cbo Costantiao ebbe tolto il co-
stume di marcare iu fronte ì colpevoli,
furoD posti iu maggior uso questi col-
lari. La pena della gogna consìsteva
anticamente in Firenze nel legare il
malfattore colle mani di dietro, e tal-
volta col corpo del delitto attaccato al
collo, ad una colonna posta nel Mer-
cato Vecchio , che è il luogo più fre-
quentato della città. Quivi stando sul
muricciolo che serve di base a detta
colonna, e però alquanto elevato, era
da tutti comodamente veduto, e insie-
me, da chiunque voleva, insultato. In
appresso non si dette cotal pena che
a quei condannati alla galera , ì quali
venivan posti, con sul petto una scritta
indicante il delitto commesso , sulla
porta del Palazzo del Bargello, e per
tutto quel tempo che quivi stavano, si
suonava la campana della torre di
esso Palazzo. Attualmente questo ga-
stigo è stato affatto abolito. Quanto
poi alla origine della voce gogna,
tengo per piu probabile che essa possa
venire da tx.-/wvia., affanno, travaglio,
che i Greci moderni pronunziano ago-
gna, e COSI ne parve anche al Salvini
e al Mcnagio. E da osservare però che
altri P han fatta derivare da ignomi-
nia, per metatesi c sincope, come ac-
cenna il Biscioni nelle note al Itfalman-
tile. Canto III, St. C2; ed altri da
vergogna, pure per sincopo ; per la
qual cosa, stare o mettere in gogna,
varrebbe quanto stare o mettere in
ignomìnia, in vergogna.
27. frusoni. Busone, busino, bn-
sna ; strumento antico da flato , che
forse viene dal latino frucetna. — E
far pel campo variati ilrumenti. Il
Vocabolario non nota questo modo,
ebe sembra significare far risuonare
«arii ilrumenti. Fare strumento vale
celebrare scrittore in forma pubblica
e provante , il che anche i Latini di-
cevano instrumentum eon/icere. —
gatti. Macchina da guerra fatta d’ un
solo tetto o tavolato intessuto di vin-
chi e coperto di cuoio, dal quale pen-
deva una gran trave ferrata , con che
ai battevano le mora nemiche , ed un
torte rampicene di ferro chiamato fal-
ce, con che si aggrappavano e trae-
vano al basso i merli e le pietre già
smosse dall’urto del montone. Vedi
più distesamente Vegezio. I Latini
chiamavano una simile macchina te-
ltudo;e gli Italiani la cbiamaron gatto
forse per una certa analogia che po-
teva avere con tale animale questa
macchina cosi coperta di cuoio e di
pelle. È curiosa la origine che il Tas-
soni nei suoi Diverti pentieri, nel Li-
bro V, Gap. XXXV, dà del nome gatto.
Racconta egli , cavandolo da Ateneo ,
come fu già in Sorla una rcina chia-
mata Gattìde , oltrcniodo ghiotta del
pesce. Il perchè essendo il gatto, so-
pra ogni altro animale , avido dì sif-
fatto cibo, venne cosi appellato dal
nome di quella reina. Egli è tnttavolta
più verisimile che questa voce venir
f iossa da calut , accorto , sagace ; c
’ accenna lo stesso Tassoni, appog-
giato iu ciò da parecchi antichi scritto-
ri , dai quali si rileva che anche i La-
tini adopravano la voceCatus c Cattus
in significazione dì Gatto. Trovasi in-
fatti nelle Gioite antiche : Calut ,
yaXi) ; in quelle d’ Isidoro: murile-
gut, calut; e nel Letiico dì Cirillo,
KÙoups;, felax, hwc catta. Lo Sco-
liaste poi di Callimaco sopra l’ Inno
di Cerere, dice espressamente : at/ou-
pov,tdiuTiz(ù; xetTTOV, c Evagrio al
Libro VI, Cap. XXIV : c^rovOavSTO
Tt av si») ToOro; i ds Ifodlìojpov
£Ìvoti,riV zoérrav •// «uvijOeia Jsyst.
Alcuni, secondo il Mcnagio, deducono
la voce latina eallut da iz.tij, oztÌ;
che significa viverra, specie di don-
nola salvatica , della quale parla Pli-
nio, Libro Vili, Cap. LV , De cuRt-
culit; ma più verìsimilmente viene
essa dal verbo, pur latino , cateo. E
da notare che per una particolar so-
miglianza di vocaboli , gli Arabi chia-
mano il gatto eollon ; e i Sirii catto o
catolo. — grilli e falconi. Il grillo
era una macchina di legname, colla
quale gli assedienti s’ accostavano al
coperto alle mura della città assedia-
ta, per discacciarne i difensori ed ab-
batterli. E preso il nome da quel pic-
colo anìmaletto che anche ì Latini
chiamaron grylus, ei Greci ypùi/o?,
con voce imitativa il suo canto stridulo
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CINTO DECIMO.
2(3
c penetrante. Il falcone è aneli’ esso
un antico istrnmento da guerra alto a
batter le mura , simile al miintone ,
ma più leggiera e manesco. K forse
I’ arte* dei l.atini.
29. bench’ io te lo ’nforto. In-
fnrsare vale metterò in dubbio , in
forse.
55. 6it.ui. (turata.
5G. E farntli astaggiar d' un al-
tro agrume. Detto metaforicamente.
Agrume è nome generico di qnelle
specie d’ortaggi che hanno sapore forte
c acuto, come di cipolle, agli, porri, e
simili, i quali diconsi anche fortumi ,
in latino olera acria.
37. guadagnava niente. Il Mono-
sini,' e innanzi di lui il Pcrionio, fanno
derivare questo verbo da quello greco
zspdatV5iv,in questa forma : Kjsòai-
vsiv, Kcrdanare, gncrdanarc, guarda-
narc, guad.ignare. — e dette al tuo
corrente. Corrente è qui in signillcalo
di cavallo corridore, che dicasi anche
corsiero.
39. riprezzo. Per ribrezzo; e
1’ usò anche Dante:
Quii è colui c’iia s\ presso il ripreno
l>clia quartana ec.
SigniGca propriamente quel freddo che
suol precedere la febbre; ma figura-
tamente si adopera eziandio in signi-
ficato di raccapriccio, o simili. I-’Ario-
slo l’usò pure in senso di freddo,
prendendo forse 1’ effetto per la cau-
sa ; perciocché il freddo produce bri-
vidi e tremilo , come a chi entra la
febbre.
Il merigge facce grato roreazo
Al duro armento cU al pa-lore ignudo ;
Si clic né Orlantio sentia alcun ribreno,
Cile la corarza arca, l'elmo, e lo scado.
Furioso, Canto XXIll, 5t. 101.
Da ciò fu tratto taluno a credere che
ribrezzo potesse essere stato detto così
da rinnuovare il brezzo, cioè il fred-
do. Ma, come nota il Menagio, brezzo
non vuol dir freddo, ma vento freddo,
c viene da rezzo. Ónde è piò verisi-
inile che ribrezzo sia derivato dal ver-
bo latino reprimere, in questa forma;
reprimo , repretti , reprettum, re-
prezzo, riprezzo, ribrezzo; e potrebbe
essere stata adoprata tal voce a signi-
ficare quel freddo che si ha sul rimet-
tere della febbre, perche in quel tem-
po il pulso si fa più depresso , come
notò il Coreo nelle sue definizioni ,
cavandolo dal primo delle Differenze
delle febbri di Galeno; • Compret-
tio pultus, cum incipiente paroxy-
tmo , pultut admodum parvut, et
inmquttlit est, propriam est putri-
dcB febrii. • — maglia. Piccolissimo
cerchietto di ferro o d’altro metallo,
de’ quali cerchietti concatenati si for-
mano l’ armadure. — or non tsiiam
più al rezzo. Non istiamo più oziosi.
42. in poca dotta. Credo debba
in cambio scriversi in poco d’olla;
cioè in poco d’ ora , in poco tempo.
— frotta. Quantità di gente insieme.
Forse da fultut, dice il Menagio , in
questa forma: fultut, fulta, fiuta,
frutd, frota, frotta.
43. facea l’agnutdei. Il Vocabo-
lario non reca questo modo. Credo
che il Poeta abbia voluto scherzare,
recandolo in contrario senso, su ciò
che fanno i sacerdoti, i quali nella
messa, mentre cantano VAgnut Dei,
si danno scambievolmente l’amplesso
di pace; onde, far I’ agnnsdci, var-
reboe quanto fare o recar guerra e
sterminio. Si chiama Agnusdei quella
cera consacrata , nella quale è im-
pressa 1’ immagine dell’ Agnello di
Dio ; e talora intendasi anche la figura
di esso Agnello, benché non impressa
in cera. Prendesi eziandio per l'Ostia
consacrata, come fece l’Ariosto quando
disse :
Il Re fece giurar «ulP Agnusitei.
Funaio, Cinlu XXVIll, SI. AO.
— dama. Nulla si è finora detto in-
torno a questa voce , benché ci siamo
io essa assai sovente abbattuti ; spac-
ciamocene dunque adesso. Viene da-
ma , come afferma il Monosini e la
Crusca dopo di lui, dal greco Sao.a.p,
che così in quella lingua si chiamò la
moglie, dal verbo òajoKU (domare),
perchè è essa soggetta , e per così di-
re, domata dal giogo del marito ; ov-
vero da dauà, terza persona del pre-
sente dell’ indicativo del verbo mede-
simo, perebè essa presiede e comanda
alla famiglia. S’ inganna dunque il
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216
IL HOBGANTE MAGGIORE.
Pergamioì , e seco chiunque altro la
vuole voce di orìgine provenzale.
44. Allaehiara. La spada d’Cli-
vierì.
46. spiedi. Spiede è un’ arme in
asta fatta di un ferro acuto posto in
cima ad un bastone, che s’ adoprava
a ferire in caccia i cinghiali , e simili
fiere salvatichc j ma che venne pure
usato in guerra. I Latini lo chianiavan
venablum. Il Menagio fa derivare
questa voce dal tedesco spiti, che vale
acuto, pungente; c da spiculatum in ^
questo modo: spiculatum, spialum, |
spiadam, spiedum, spicde. — spun-
toni. È questa pure un’arme in asta
con luogo ferro quadro e non molto
grosso, ma acuto. I Latini lo chiama-
vano cerutum. — cannoni. Cioè quei
doccioni di terra o canali di piombo ,
coi quali si fanno i condotti dell’acqua,
e chiamansi cannoni. — verrettoni.
Verrettone è verretta grossa-, e verretta
ai chiamava una freccia a foggia di
piccolo spìede, da lanciar con mano
o colle balestre. Viene dalla voce la-
tina verutum, riportata di sopra ; che
si trova usala in signilicato di dardo
in Giulio Cesare, c in Silio Italico.
bf. zoppa. Viene la voce zoppo
da eloppus , usato dai Latini nella
stessa significazione, e formato dal
greco jfolXoiTiO J? (zoppicante) , uno
degli epiteti di Vulcano.
66. saltò fuor del ballo. Usci
dalla mischia.
59. che porta sbarralo il Itone.
Che ha per insegna un Icone colle
sbarre . — re di farfalle o di pecchie.
Detto per ischerno. Chiamasi re o re-
gina quella pecchia che negli sciami
va innanzi alle altre a guisa di capo e
di condottiero.
72. rubicondo. Rosseggiante, ac-
ceso d’ ira nel volto.
87. ronzone. Accrescitivo di ron-
zino , che è propriamente cavallo da
viaggio.
91 . avia. Aveva.
402. stava più che in orazione.
Desiderava anlcntissiniamcnte. Il Vo-
cabolario non nota questo modo. —
sbergo. Usbergo.
404. velia. Volea.
422. meller la coda. Entrare o
cercar d’ ottenere l’ intento suo. — la
rete cacciando. Adoperando sue arti
ed inganni.
427. doli. Frodi. Dal latino
dolus.
429. st bisbiglia. Bisbigliare è il
favellare pian piano, detto dal suono
che si fa in favellando in quella ma-
niera che dicesi far pissi pissi. Celso
Cittadini, nelle Origini della favella
toscana : • Tale è similmente la voce
bisbiglio e pispiglio , formata da quel
bis bis e pit pii. n
450. f romba. 0 frombola. Stru-
mento (dice il Vocabolario) fatto di
una funicella di lunghezza intorno a
due braccia , nei mezzo alla quale ò
una piccola rete fatta a mandorla ,
dove si mette il sasso per iscagliare ,
il qnale anch’esso si chiama frombola,
forse cosi detto da quel rombo eh’ e’ fa
quando egli è in aria; il che si dico
frnllarc. Lo stesso Vocabolario alla
voce frombo pone strepito , fragore ,
xr JTTO:, ma non reca esempio di sor-
ta. Il Menagio fa derivare questa voce
dalla latina funia; interposta la r
fra le due prime lettere, e cambiato
la d in A; il qual cambiamento è assai
naturale e comune. — vestigi. Sem-
bra che questa voce sia qui adoperata
in senso di bagaglio e simili. Manca
al Vocabolario.
441. accetta. Arme sìmile alla
scure. Checché altri si dica, viene dal
latino actes, che significa la punta e
il filo tagliente delle armi. Cicerone
adoperò tal voce a significare appunto
l’affilatura o il taglio della scure;
« Quod aciem luarum securium vi-
disset. » Verrina ultima.
444. Sarestu Briareo ee. Era
uno sterminato gigante che aveva cen-
to braccia e cinquanta testo vomitanti
fuoco. Gli Dei lo appellavano Briareo,
gli uomini Egeone , e fu figliuolo di
Celo c della Terra , o , secondo altri ,
della Terra e del Ponto. Quando, su-
scitatasi guerra tra’ Numi, ebbero que-
sti incatenato Giove , Egeone , a ciò
esortato da Teli, lo sciolse dai lacci, o
lo liberò. Alcuni mitologi vogliono
che egli aiutasse Giove nella guerra
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CANTO DECIMO.
217
contro i Giganti ; altri , al contrario ,
che combattesse contro quel Dio , e
fosse da lui fulminato. Nettuno gli
dette in moglie la sua lìgliunla Cirao-
polia, e per questo alcuni lo annove-
rano fra gli Dei del mare. Finalmente
fu posto a guardia dei Titani che nel-
l’Inferno giacevano incatenati. Giup-
piterre, cioè Giove, era il Dio Massimo
degli antichi , e cosi noto , che posso
passarmela dal narrarne la lunga isto-
ria. Fiatte, 0 EGalte , fu figliuolo di
Aloeo , e fratello di Oto. Questi due
fratelli crescevano ciascun mese un cn-
hito io larghezza , ed un braccio in
lunghezza ; talché di nove anni cran
gi& fatti giganti. Furono essi che im-
poser 1’ Ussa all’Olimpo, e a questo
il Fello per giungere al ciclo e tòrsi
in moglie I’ uno Giunone, l’altro Dia-
na, la quale ne scampò cangiandosi in
cerva, c uccidendogli poscia ambedue
colle sue freccie. Furon dannati a
star nell’Inferno attaccati colle spalle
ad nna colonna di serpenti , in cima
della quale sta un gufo, che del con-
tinuo gli tormenta colle sue grida, e
rode lor le intestina. Capaneo fnquel
ebe cadde a Tebe giù da’ muri, quan-
do, essendo all’ assedio di quella città
in aiuto di Polinice, fu fnlminato da I
Giove, in pena del disprezzo da Ini i
dimostrato contro gli Dei. Evadne sua
moglie si gettò da sé stessa sul rogo
di Ini. Vuoisi però che fosse da Escu-
lapio risuscitata , e che ritornasse su
dall’Inferno. i4n<eo, finalmente, fu
un gigante figlinolo di Nettuno e della
Terra, e re d’ Irasa. Avea fatto voto
al padre di cuoprirne il tempio di cranii
d’ uomini ; il perchè scannava tutti i
forestieri che gingnevano nel suo pae-
se. Da ultimo Ercole, passando per
colà mentre conduceva ad Euristeo i
buoi di Gerione, combattè con esso, o
per ben tre volte atterrollo; ma al-
trettante si rilevò più feroce, peroc-
ché la madre ogni volta infondcvagli
novelle forze; di che avvedutosi Ercole,
presolo e levatolo in aria, lo soffocò.
I
I 147. guinzaglio. È nome gene-
rico di qualunque striscia che s’ ado-
peri a qualche uso ; ma più special-
mente signiflra quella corda o altra
cosa con che si legano i cani quando
si conducono a caccia; e di qui ò tolta
dal Poeta la metafora; laonde, non
potere stare più in guinzaglio , vale
quanto non potere star più alle mos-
se. Viene da cinciariom, secondo il
Menagio; e questo, certamente, dal
verbo etneo; perchè col guinzaglio
eincitur canis. — giocar qui a toiia-
glio. Lo stesso che giuocare a mosca
cieca, o a beccalaglio. — S’appiccon
petche. Si dan d’ acerbe percosse.
I 18. li faceta un niccàio. Nic-
chio è lo stesso che conchiglia ; ondo
qui vale si piegava , si curvava come
una conchiglia. Nello stesso significalo
si trova nel Ciriffo Calvaneo : • E
come un nicchio sul destricr si ser-
ra. » III, 75.
149. tuli’ ala. In disparte.
452. compagnone. Vale qui no-
mo di smisurata grandezza. In senso
proprio però significa lo stesso che
compagno , detto cosi alla francese ,
da compagnon. Fra le diverso etimo-
logie della voce compagno o compa-
gnone, taluno l'ha fatta derivare dal
lat. combennonei , che significa , se-
condo Festo; gut in eadem benna,
ideet tehiculo, tedent. Il Lipsio
vuole invece farla derivare dal verbo
combino, che vale quanto cnnjungo;
e Francesco Rabelesio c Andrea de
Chesne da cum, e da panie; come
chi dicesse, colui che mangia del me-
desimo pane. Tutlavolta pare più ve-
risimile la etimologia che a questa
voce assegna il Canino ne’ Canoni
de' Dialetti, facendola venire da com-
paganae, cioè abitatore dello stesso
castello o paese. Potrebbe anche ve-
nire dal greco Mji’l^ioofia .1 (scile,
eeufeetive aliquid facio, aut dico),
usandosi eziandio compagnone nel
significato di uomo sollazzevole e di
buon tempo.
19
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21S
IL MORGANTB MAGGIORE.
€AMTO BECmOPKlMO.
^m(BiDiu^au‘iSa
Carlo (Ih bando al sir di Montalbano,
Clic con Astolfo si mette alla strada;
A istigaiion del turbolente Gano
Una giostra in Parigi a Carlo aggrada;
Rinaldo e Astolfo mandan tutti al piano :
Sorpreso Astolfo, avvien che prigion vada;
E so Rinaldo e Orlando cran mcn destri,
Sentiva come stringono i capestri.
1 0 santo Pellican, che col tuo sangue
Campasti noi dalla fera crudele,
Dal suo velen come pestifer angue,
E poi gustasti r aceto col fcle.
Tanto che la tua madre afflitta langue;
Manda in mio aiuto 1’ Arcangìol Michele,
Si ch’io riporti di vittoria insegna,
E seguir possa questa storia degna.
Gano scriveva a Carlo in questo modo :
O Carlo imperador, che t’ ho io fatto?
S’io non commissi inganno mai nè frodo.
Perchè consenti tu eh’ io stia di piatto?
S’ io l’ ho servito sempre, assai ne godo.
Tu mostri essere ingrato a questo tratto :
E sanza udir le mie ragion consenti
Ch’e’ miei nimici sien di me conienti.
5 Quel di eh’ io presi in Parigi la piazza ,
Che sapev’ io chi drente era venuto,
E se pur v’era gente d’altra razza,
Che li paressi Orlando sconosciuto?
Per riparare a quella furia pazza.
Corsi alla piazza, e parvemi dovuto:
Che sapev’ io, se tu Ceri ingannato,
0 che nella città fussi trattato?
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CANTO DECIHOPBIUO.
21 !)
ì Rinaldo non istelte mai a udire
Le mie ragion, ma furiando forte
Mi minacciava di farmi morire:
Io mi fuggi', temendo deila morte;
Tu ti stai in festa, ed io con gran martire:
E tanto tempo è pur eh’ io fui in tua corte
De’ tuo’ baroni, e del tuo gran consilio;
Or m’hai scacciato, e mandato in esilio.
6 Carlo lesse la lettera piangendo.
Però che molto Ganellone amava :
Ed ogni cosa per fermo tenendo
Che gli scriveva, in drieto rimandava.
Dicendo: Il tuo partir, Gan, non commendo,
E la distanzia tua troppo mi grava ;■
Torna a tua posta, e come caro amico,
Come stato mi se’ pel tempo antico.
6 Gan ritornò, come scriveva Carlo;
Carlo lo vide molto volentieri,
E corse, come ’l vide, ad abbracciarlo:
llen sia tornato il mio Gan da Pontieri.
Gan come Giuda in fronte osa baciarlo.
Dicea Rinaldo al marchese Ulivieri :
Vedi che Carlo consente che torni,
£ ritornianci pur ne’primi giorni.
7 Io vo’ che il capo Carlo Man mi tagli.
Se non è quel eh’ a Caradoro ha scritto,
E che lo ’mbasciador fece mandagli :
Non so come guardar Io può diritto ;
Ma metter Io poiria in lai travagli.
Che qualche volta poi piangerà afDilto.
Cosi pareva al marchese ed Orlando;
Tutta la corte ne vien mormorando.
■ s Ma come avvien che sempre la fortuna
Si diletta veder diverse cose,
E sempre volge, come fa la luna;
Mentre che Carlo par cosi si pose,
Sanza più dubitar di cosa alcuna.
Ma sanza spine godersi le rose.
Ed ognidì fa giostre e lorniamenti ,
E tutti i suoi baron vede conienti;
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•220
IL HORGANTE MAGGIORE.
9 Un giorno a scacchi Ulivier Borgognone
In una loggia con Rinaldo giunca;
Vennono insieme giocando a quislione,
E tanto ognun di parole rinfuoca,
Ch’ Ulivier disse a Rinaldo d’ Amone :
Tu hai talvolta men cervel eh’ un’oca,
E col gridar difendi sempre il torto;
Non so se m’ hai per tuo ragazzo scorto.
10 Rinaldo rispondea: Tu credi forse,
Perchè presente è qui Meridiana,
Ch’ io li riguardi: e tanto ognun trascorse
D’una parola in un’altra villana.
Che Ulivieri il pugno innanzi porse;
La'damigella gli prese la mana :
Rinaldo si rizzò subitamente,
Ma Ulivier non aspettò niente.
11 Subito corse per la sua armadnra.
Torna a Rinaldo, e trasse fuori il brando;
Rinaldo non l’aveva alla cintura;
Ma in questo mezzo si cacciava Orlando ;
Meridiana triema di paura.
Carlo Rinalilo venia minacciando :
Ognidì metti la corte a romore,
E ’l torto hai sempre, e fammi poco onore.
12 Rinaldo, ch’era tutto infuriato,
Rispose a Carlo Magno: Tu ne menti,
Chè ’l torto ha egli, ed hammi minacciato.
Carlo gridava a tutte le sue genti :
Fate che presto costui sia pigliato;
Se non, che tutti farò malcontenti.
Dicea Rinaldo: Ignun non mi s’accosti,
Chè gli parrà che le mosche gli arrosti.
15 Orlando vide il cugino a mal porlo,
E cosi disse : Piglia tuo partito;
Vattene a Montalban per mio conforto,
Ch’ io veggo Carlo troppo insuperbito,
Sanza voler saper chi s’ abbi il torto.
Rinaldo s’è prestamente fuggito.
Tolse Boiardo, c obbediva Orlando,
E ’nverso Montalban va cavalcando.
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CANTO DECIHOPBtMO.
•221
14 Carlo si dolse con Orlando mollo :
Perchè l’avea cosi fatto fuggire.
Dicendo: Il traditor dove m’ ha colto!
Che per la gola ognidì m’ ha a smentire;
I’ l’ho a trattare un giorno come stolto.
Subito fece il consìglio venire,
E disse in brieve e soluta orazione
Quel che far debba del fìgliuol d’Amonc.
13 Diceva Orlando: A mìo modo farai ;
Lasciagli un poco uscir quest’arroganza,
Ed altra volta gìnocchion l’ arai ,
E farem che li chiegga perdonanza.
Carlo rispose : Ciò non farò mai ,
Che di smentirmi più pigli baldanza;
10 vo’ perseguitarlo insino a morte,
Nè mai più intendo tenerlo in mia corte.
16 Namo alla fine delle il suo consiglio.
Che si dovessi di corte sbandire.
Acciò che non seguissi altro periglio,
Chè qualche mal ne potrebbe seguire;
E dicea: Tutto il popolo è in bisbiglio,
Ch’ altra gente pagana dee venire,
E forse polre’ farne novitade,
Chè mollo amalo è pur nella citlade.
17 Astolfo non volea che si sbandisse,
Ma che gli fossi in lutto perdonato;
Ma Ulivieri incontro Astolfo disse.
Tanto che mollo di ciò fu sdegnato:
E Carlo comandò che si seguisse
11 bando, come Namo ha consigliato.
Gano avea dello solo una parola :
Se t’ha smentito, impiccai per la gola.
is Poi che più Astolfo non vide rimedio,
E che Rinaldo è sbandilo da Carlo,
Si diparti sanza stare più a tedio ;
A Monlalban se n’andava avvisarlo,
Che consiglialo s’cra porgli assedio,
E accordati poi di sbandeggiarlo:
E ciò ch'aveva dello a Carlo Mano,
Per suo consiglio, il traditor di Gano.
ly
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•222
II. HOltGANTB MAGGIORE.
19 Rinaldo mille volle giurò a Dio,
Che ne farà vendetta qualche volta
Di questo fraudolente iniquo e rio,
Se prima non gli fia la vita tolta;
E poi diceva: Caro cugin mio.
So che tu m’ ami, e pertanto m’ ascolta :
Io vo’che tutto il paese rubiamo,
E che di mascalzon vita tegnamo.
20 E se San Pier trovassimo a cammino.
Che sia spogliato, e messo a Gl di spada ;
E Ricciardetto ancor sia malandrino.
Rispose Astolfo : Perchè stiamo a bada?
10 spoglierò Otton per un quattrino;
Doman si vuol che s’assalti la strada:
Non si risparmi parente o compagno,
E poi si parta il bottino e ’l guadagno.
"i Se vi passassi con sua compagnia
Sant’ Orsola coll’ Agnol Gabriello,
Ch’ annunziò la Vergine Maria,
Che sia spogliato e toltogli il mantello.
Dicea Rinaldo: Per la fede mia,
Che Dio ci ha mandato, car fratello.
Troppo mi piace, e savio or li conosco;
Parmi mill’ anni che noi siam nel bosco.
22 Quivi era Malagigi, e confermava.
Che si dovessi far com’ egli ha detto;
Rinaldo gente strana ragunava:
Se sa sbandito ignun, gli dà ricetto;
Gente che ognun le forche meritava
A Montalban rimetteva in assetto,
Do|iava panni, e facea buone spese :
Tanto eh’ assai ne ragunò in un mese.
2 .') Tutto il paese teneva in paura.
Ognidì si sentia qualche spavento :
11 tal fu morto in una selva scura,
E tolto venti bisanti, e al tal cento,
Insin presso a Parigi in sulle mura.
Non domandar se Gano era contento
Acciò che Carlo più s’inanimassi.
Tanto che a campo a Monlalbano andassi
CANTO DECIMOPKIMO.
223
2; E perchè più s’accendessi Rinaldo,
Diceva a Carlo un di : La corte nostra
Par tutta in ozio per questo ribaldo,
Che co’ ladroni alle strade si mostra :
Io sono in questo proposito saldo.
Che si vorrebbe ordinare una giostra,
Per solazzar la corte, e ’l popol prima,
E non mostrar far di Rinaldo stima.
26 Carlo gli piacque quel che Gan diceva,
E fe per tutto Parigi bandire.
Come il tal di la giostra si faceva;
Che chi volessi, potessi venire:
Tutta la corte piacer ne prendeva :
Gan per potere ogni cosa fornire,
E per parere a ciò di miglior voglia.
In punto misse Grifon d’ Altafoglia.
26 Quest’era della schiatta di Maganza:
Orlando s’ era di corte partito :
(ian gli diceva: O Grifon di possanza.
Poi che non c’è Rinaldo, eh’ è sbandito
Con tutti gli altri, accettar dèi la danza,
Ch’ Orlando non si sa dove sia ilo.
•irifon rispose al suo degno signore :
(0 farò si che vi farò onore.
27 Venne la giostra e ’l tempo deputalo,
E ordinò lo ’mperador per segno
D’ onore a quel che l’ arà meritato.
Un bel carbonchio mollo ricco e degno.
Che in un bel gambo d’oro era legato:
Fuvvi gran gente di tutto il suo regno,
E molla baronia viene alla giostra:
Grifone il primo in sul campo si mostra.
26 Rinaldo un giorno un suo falcon pascendo ,
Ecco venire il fratei Malagigi,
U come e’ giunse, diceva ridendo:
Non sai tu come e’ si giostra a Parigi?
Che tu vi vadi a ogni modo intendo,
Isconosciuto con istran vestigi ;
Ed una barba d’erba porterai.
Che conosciuto da nessun sarai.
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I. HORGANTE MAGGIORE.
22 <
Tutto s’ accese Rinaldo nei core ,
E misscsi di subito in assetto
Di sopravveste, d’arme, e corridore,
E disse: Io intendo menar Ricciardetto,
E d’ Inghilterra il famoso signore;
Alardo rimarrà qui per rispetto.
Missonsi in punto tutti, e l’altro giorno
Isconosciuti a Parigi n’ andorno.
5.) E’ solean questi sempre per antico
Dismontare alla casa di Gualtieri ,
O ver di Don Simon lor caro amico:
A questa volta trovorno altro ostieri
Fuor di Parigi, ch’era assai mendico :
Quivi smontorno, e missono i destrieri.
Per fuggir ogni tradimento reo;
E l’ oste appellato è Bartolommeo.
.)! E poi Rinaldo Ricciardetto manda
In piazza , per veder quel che facieno.
Ricciardo aveva a traverso una banda
Alla sua sopravveste e al palafreno,
E in certa parte una gentil grillanda
Di fior, che quasi il petto gli coprieno ;
Di bianco drappo era la sopravvesta,
A nessun mai più non veduta questa.
.^2 Una grillanda aveva alla testiera,
Ed una in sulla groppa del cavallo
Di varii fior, com’è di primavera;
l.a coverta è di color tutto giallo :
Vide la giostra che cominciata era.
Nè potè far non entrassi nel ballo ;
Il primo ch’egli scontra, in terra ha spinto,
E poi il secondo e ’l terzo e ’l quarto e ’l quinto.
55 Poi si parti, e tornava al fratello,
E disse ciò che al campo aveva fatto;
Rinaldo, che era armalo come quello,
E ’l duca Astolfo n’ andorno di tratto:
E tutto il popol si ferma a vedello,
Perchè parea nell’ arme mollo adatto.
Ulivieri era già venuto al campo,
£ colla lancia menava gran vampo.
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CINTO DBCIMOPRIHO.
■Ilo
' r>^ Rinaldo come giunse, al suo Baiardo
Una fiancata dette cogli sproni;
Vennegli incontro il marchese gagliardo:
Non si conoscon questi due baroni :
Due colpi grandi sanza alcun riguardo
A mezzo il corso dettonsi i campioni ;
Le lance in aria pel colpo ne vanno,
Ma r uno all’ altro facea poco danno.
55 Salvo che ginocchion vanno i destrieri,
E nel cader l’ elmetto si dislaccia
Al valoroso marchese Ulivieri,
Tanto che tutto scoperse la faccia.
Videi Rinaldo, e fece assai pensieri
Di dargli morte, e fuggir via poi in caccia;
Pur si ritenne per miglior partito:
Ulivier si rizzò tutto smarrito.
m Allor Rinaldo un’altra lancia prese,
E rivoltossi col cavallo a tondo;
Vide venire un certo Maganzese,
Che si chiamava per nome Frasmondo:
Sopra lo scudo la lancia giù scese,
(linaio in terra, e poi giltò il secondo.
Cioè Grifon eh’ avea molla possanza,
Ch’ era mandalo da Gan di Maganza.
57 Quivi combatte il signor d’Inghilterra,
Ed or questo or quell’ altro manda al piano:
Molti n’aveva cacciati per terra:
Rinaldo guarda se conosce Gano,
Videlo un tratto, e Baiardo disserra;
E com’e’ giunse al traditor villano.
Per fargli il giuoco, se poteva, netto.
Gli pose alla visiera dell’ elmetto.
58 Gan si scontorse lotto in sull’ arcione.
La lancia si spezzò subitamente;
E ’l suo forte destrier Mattafellone
S’accosciò in terra, se Turpin non mente:
E come fu caduto Ganellone,
Subito intorno gli fu molla gente
De’ Maganzesi, e corsone aiutallo,
E rilevato fu su col cavallo.
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2«
IL MOKGANTK HAGGlOHEt
r >9 Quanti ne scontra Rinaldo quel giorno,
Tanti per terra par che ne trabocchi;
Alda la bella al cavaliere adorno
Sempre teneva quel di fisso gli occhi :
E quanti cavalier con lui giostrorno,
Parvon le lance gambi di (inocchi :
Tanto che molto piacque a Gallerana,
Ch’era con Alda e con Meridiana.
40 Fatta la giostra , fu dato l’ onore
Al buon Rinaldo che lo meritava;
Alda la bella al baron di valore
Un ricco diamante poi donava,
Dicendo: Questo porla per mio amorè;
E Gallerana un rubin suo gli dava,
Tanto lor parve un cavalier possente:
Rinaldo gli accettò cortesemente.
41 Tornossi all’oste di fuor della terra
Rinaldo con Astolfo e col fratello: <
Gan perch’ avuta vergogna avea in guerni .
Vituperato, drento il suo cor fello
Pensò di far con sua gente tal serra
Al paladin, ch’egli uccidessi quello.
Acciò che tanti cavalier prestanti
D’ aver vinti quel giorno non si vanti.
43 Subito fuor di Parigi son corsi ,
E giunti all’oste, Rinaldo trovaro,
E cominciorno con graffi e con morsi
A volerlo atterrar sanza riparo;
Cosi con esso a battaglia appiccarsi.
Tanto che Astolfo per forza pigliare,
E con fatica Rinaldo è fugailo
Con Ricciardetto che 1’ avia seguilo.
43 Gan fece a Astolfo l’ elmetto cavare.
Con intenzion di dargli poi la morte,
Ma saper prima ben d’ ogni suo affare,
E del compagno suo eh’ è tanto forte.
Come il conobbe, cominciò a parlare:
Tu se’ quel Iraditqr, che nostra corte
Vituperasti sempre e Carlo Mano,
E malandrin se’ fatto a Montalbano?
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CANTO DECIMOPRIMO.
I tuoi peccali T hanno pur condoUo
Dove tu inerti, se tu guardi bene
Alla tua vita; e pagherai lo scotto
Di quel c’ hai fatto con affanni e pene.
Astolfo per dolor non facea tnolto:
Gan di Maganza a Parigi ne viene,
E giunto a Carlo, tutto in volto lieto,
Gli dette Astolfo in sue man di segreto.
4.^ Questo facea, perchè non abbi aiuto.
Né per la via scoperto 1’ ha a persona ,
Acciò che non sia tolto o conosciuto ;
E dice: 0 Carlo Mano, alla corona,
Fallo impiccar, ché tu farai il dovuto;
Alla sua vita mai fe cosa buona:
Se tu riguardi nel tempo passalo.
Per mille vie le forche ha meritalo.
46 Carlo lo fece mettere in prigione.
Per ordinar di farne aspra giustizia.
Mentre che questo ordinava Carlona,
E Gan tutto era acceso di letizia;
Rinaldo, ch’era pien di passione,
Senlia d’Astolfo al cor molta tristizia ;
E pensa pur com’e’ possa aiutarlo,
Chè dicea : Carlo Man farà impiccarlo.
47 Orlando appunto a Monlalban giugnca,
Quale era stato per molli paesi,
E rivedere il suo cugin volea;
E Ricciardetto e lui truova sospesi:
Rinaldo poi d’Astolfo gli dicea.
Or questo par ch’ai conte molto pesi,
Chè in Agrismonte stalo era di Buovo,
E non sapea di questo caso nuovo.
4S E accordossi con Rinaldo insieme.
Che non gli (la la vita perdonata:
E Malagigi ha perduta ogni speme.
Però che Carlo un’ ostia consecrata
fili ha messo addosso, chè dell’arte teme
Di Malagigi; e la prigion guardata
In modo avea, che non si può aiutare,
Nè con ingegni o spirti liberare.
228
IL HOBGANTE MAGGIOBE.
• 49 Diceva Orlando: lo per me son disposto
Insieme con Astolfo ire a morire.
Disse Rinaldo; Ed io; facciam pur tosto,
Però che non è tempo da dormire.
Come fu il Sol nell’ ocean nascosto,
Subito l’arme si fecion guernire;
E Ricciardetto con seco menomo,
E cavalcàr la notte insino al giorno.
bo La mattina |jer tempo capitati
Furon fuor delle porle di Parigi,
E non si sono a gnun manifestati,
Ma stettonsi nascosi in San Dionigi:
E certi viandanti son passati;
Orlando drieto mandò lor Terigi,
A domandar se novelle sapieno
Di corte, e quel che i paladin facieno.
ai Fugli risposto: Niente sappiàno,
Se non ch’egli è certo mormoramento,
Gh’ un de' baroni impicca Carlo Mano
Questa mattina per suo mancamento;
Le forche qua- sulla strada veggiàno.
Altre novelle non sentimmo drento.
Terigi presto ritornava al conte,
E di Parigi le novelle ha conte.
62 Disse Rinaldo: E’ fa pur daddovero;
Ben debbe goder or quel traditore.
Diceva Orlando: E’ fallerà il pensiero,
Se tu mi segui, cugin, di buon cuore.
Disse Rinaldo: Morir teco spero,
E '1 primo uccider Carlo imperadore.
Prima ch’Astolfo, come Gano agogna,
Vegga morir con tanta sua vergogna. .
6.) Io trarrò a Gano il cuor prima del petto,
Ch’i’sotTeri veder mai tanto duolo;
Cosi la fede. Orlando, ti prometto,
Io verrò teco in mezzo dello stuolo
Cosi sbandito sanza alcun sospetto,
S’ io vi dovessi morto restar solo.
E cosi insieme congiurati sono
Di mettersi alla morte in abbandono.
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CANTO DECIMOPBIHO.
225»
[4 E stanno alla veletta , per vedere
Qualunque uscissi fuor della cittade;
Così TeriRi, ch’era lo scudiere,
Aveva gli occhi per tutte le strade:
Ognuno in punto teneva il destriere,
Ognun guardava come il brando rade.
Diceva Orlando a Terigi : Sarai
Sul campanile, e cenno ci farai.
Ma falche bene in ogni parte guardi.
Acciò che error per nulla non pigliassi:
Se tu vedessi apparire stendardi,
0 che alle forche nessun s’accostassi.
Subito il di; chè noi non fussin tardi,
Che ’l manigoldo intanto lo ’mpiccassi:
Ma, a mio parer, sanza dimostrazione
S’ ingegnerà mandarlo Ganellone.
56 Gan la mattina per tempo è levato,
E ciò che fa di bisogno ordinava;
Insino al manigoldo ha ritrovalo :
.\on domandar com’ e’ sollecitava.
1 paladini, ognun molto ha pregato.
Ma Carlo chi lo priega minacciava.
Perch’ostinalo era farlo morire.
Tanto che pochi volean contraddire.
67 Avea mollo pregato l’Ammirante,
Che con Erminion si fe cristiano:
Questo era quel famoso Lionfanle,
Che prese Astolfo presso a Monlalbano:
Meridiana pregava e Morgante,
Ma lutto il lor pregare era al fin vano.
Gan da Pontieri in sulla sala è giunto,
Dicendo a Cario: Ogni cosa è già in punto.
b% E taglia a chi pregava le parole.
Dicendo: 0 imperador, sanza giustizia
Ogni città le barbe scuopre al sole ;
Per non punire i tristi e lor malizia.
Vedi che Troia e Roma se no duole,
E sanz’ essa ogni regno precipizia;
La tua sentenzia debbo aver efielto,
E non mutar quel eh’ una volt» hai detto.
I. 20
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230
IL MORUAKTE HAGGlOliE.
59 Carlo rispose: Gan, sia tua la cura;
Fa che la giustizia abbi suo dovere;
Quel che bisogna, a lutto ben procura.
Gan gli rispose: E’fìa fatto, imperiare.
Di questo sta colla mente sicura;
Se Astolfo prima volessi vedere
Ch’io ’l meni via, il trarrò di prigione.
Per isfogarti a tua consolazione.
co Rispose Carlo: Fatelo venire. -
Astolfo innanzi a Carlo fu menalo;
Carlo comincia iralamente a dire,
Poi eh’ a’ suoi piè se gli fu inginocchiato:
Com’hai tu avuto, Astolfo, tanto ardire.
Con quel ribaldo, tristo, scellerato,
Venire a corte, e già circa tre mesi
Mettere in preda tulli i miei paesi?
01 Perch’io avevo Rinaldo sbandito,
Quand’ io pensai tu mi fussi fedele,
A Montalban con lui ti se’ fuggito,
E fatto un uom micidiale e crudele;
Del tuo peccalo è tempo sia punito,
E dopo il dolce poi si gusta il fiele:
Della tua morte e di tue opre ladre
Non me ne incresce, ma sol del tuo padre.
C2 Otton fuor di Parigi doloroso
S’ era fuggito, per non veder solo
Afflitto vecchio, misero, angoscioso
Morir si tristamente il suo figliuolo.
Astolfo allor col viso lacrimoso
Rispose con sospiri e con gran duolo,
E disse umilemente: O im|)eradore.
Io mi t’ accuso, e chiamo peccatore.
63 Io non posso negar, che la corona
Non abbi offesa assai col mio cugino;
Ma se per le mai cosa giusta o buona
Ho fatto, mentre io fui tuo paladino
Per lunghi tempi, Carlo, or mi perdona
Per quel Gesue che perdonò a Longino,
Pel padre mio, tuo servo e caro amico,
Se mai piaciuto fé pel tempo antico;
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CANTO DECIHOPBIHO.
•2.J I
U4 Pel (uo caro nipote e degno conte,
Per quel eh’ io feci già teco in Ispagna ,
S’ io meritai mai nulla in Aspramonte,
Per la corona tua famosa e magna: '
E pur se morir debbo con tant’ onte,
Quel traditor eh’ è pien d’ ogni magagna.
Più ch’altro Giuda, o che Sinon di Troia,
Per le sue man non consentir eh’ io muoia.
63 Carlo diceva: Questo a che t’ importa?
Gan da Pontier gli volse dar col guanto;
.Ma ’l duca Namo di ciò lo sconforta.
•\stolfo fu da’ Maganzesi intanto
Preso, e menato inverso della porta,
E lutto il popol ne facea gran pianto :
Uggier più volte fu tentato sciorre
Astolfo, e a Ganellon la vita torre.
66 Ma poi di contrapporsi a Carlo teme,
E non pensò che riuscissi netto :
I Maganzesi son ristretti insieme.
Perchè de’ paladini avean sospetto;
E d’ ogni parte molta gente preme :
Quel traditor di Gan per più dispetto
Come un ladrone Astolfo svergognava ,
E ’l manigoldo pur sollecitava.
67 Avea pregato Namo e Salamone
Lo ’mperador, che dovessi lasciarlo;
Avolio, Avino, Gualtier da Mulione,
E Berlinghier si sforza di camparlo.
Dicendo: Abbi pietà del vecchio Ottone,
Che tanto tempo t’ha servito, Carlo.
Tutta la corte per Astolfo priega,
Ma Carlo a tutti questa grazia niega.
66 E finalmente a Gan fu consegnato,
Che facci che far dee di sua persona.
Gan sopra un carro l’ aveva legato,
E ’n testa gli avea messa una corona
Per traditore, e il giubbon di broccato,
E gran romor per Parigi risuona;
E un capresto d’ oro gli avvolgea:
Or questo è quel eh’ a Astolfo assai dolca.
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232
IL MORGANTE «AGGIOIIE.
69 Fe per Parigi la cerca maggiore ;
Le trombe innanzi, e stendardi e bandiere ,
Minacciando, e chiamando! rubatore ;
Ma nondimen del Signor del Quartiere
E di Rinaldo temea il traditore,
E tuttavolta gliel parea vedere.
Terigi presto del fatto s’ accòrse ,
Al conte tosto ed a Rinaldo corse.
70 Orlando sopra V^egliantin s’ assetta ;
Rinaldo sta, come suole il falcone
Uscito del cappello, alla veletta;
Ma per aver più salvo Ganellone,
Che si scostassi di Parigi aspetta ,
Tanto che fossi giunto allo scaglione ;
Dicendo: Quanto più si scosta Gano,
Tanto più salvo poi l’ aremo in mano.
71 Lasciali pur alia forche venire,
Chè se noi gli assaltassim cosi tosto ,
Nella città potrebbon rifuggire;
Io vo’che ’l traditor tarpiam discosto:
Astolfo in modo alcun non dee morire;
Noi giugnerem più a tempo che 1’ arrosto :
Forse verrà a veder lo ’mperadore,
E vo’ colle mie man cavargli il cuore.
72 I Maganzesi so che sgomberranno.
Come vedranno scoperto il Quartieri ,
0 ’l Lione sbarrato mireranno.
Cosi si fumo accordati i guerrieri,
E come i can cogli orecchi alti stanno.
Per assaltare o lepretta o cervieri.
Gan traditor con molto oltraggio e pena
Astolfo in verso le forche ne mena.
73 Non potre’ dire il signor d’Inghilterra
Come schernito sia da quella gente ;
Per non vederla, gli occhi spesso serra,
E come agnello ne venia paziente.
Già tanto tempo in corte stato è in guerra
SI degno paladin tanto eccellente.
Morti a* suoi di colle sue proprie mani ,
Per salvar Carlo, migliaia di Pagani.
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CANTO OECIHOPBIHO.
2)3
74 O Carlo imperador, quanto se’ inarato I
Non sai tu quanto è in odio a Dio tal pecca?
Non bai tu letto, che per tal peccato
La fonte di pietà su in ciel si secca?
E con superbia insieme mescolato,
Caduto é d’ Aquilon nella Giudecca
Con lutti i suoi seguaci già Lucifero;
Tanto è questo peccalo in sè pestifero.
7ò Tu hai sentilo pur che Scipione,
Sendo di senno vecchio e giovan d’ anni,
A Annibal tolse ogni reputazione.
Di che tanto acquistata avea già a Canni ;
Fumo i Romani ingrati alla ragione.
Onde seguiron poi si lunghi affanni :
Questo peccalo par che ’l mondo adugge,
E finalmente ogni regno distrugge.
76 Questo peccato scaccia la giustizia,
Sanza la qual non può durare il mondo;
Questo peccalo è pien d’ ogni malizia ,
Questo peccalo a gnun non è secondo ;
Gerusaleui per questo precipizio,
Questo peccalo ha messo Giuda al fondo;
Questo peccalo tanto grida in cielo.
Che ci perturba ogni sua grazia e zelo.
77 Quel c’ ha fatto per le già il paladino ,
Credo tu ’l sappi, ma saper noi vuoi ,
Mentre che fu tra ’l popol saracino;
So che tra gli altri assai lodar quel suoi.
Non ti ricordi, figliuol di Pipino,
De’ beneficj, e penler non vai poi:
E pur se fatta ha cosa che sia atroce.
Del tuo Gesù ricordati già in croce;
7g Che perdonava al popol che 1’ offende.
Raccomandalo al padre umilemenle :
Astolfo in colpa ginocchion si rende,
E chiede a le perdon pietosamente :
E pur se ’l giusto priego non s’ accende.
Di grazia li domanda finalmente.
Che per le man di Gan non vuol morire,
E tu noi vuoi di questo anco esaudire.
20 *
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IL HORGANTB MAGGIORE.
•23i
79 E non sai ben che se quel guida a morte
Astolfo, cosi guida te, Cartone,
E’ tuoi baroni, e tutta la tua corte.
Fa che tu creda sempre a Ganellone ;
Ben ti conducerà fuor delle porte.
Quando Ga tempo, ancor questo fellone :
E pel consiglio suo ti fai crudele
E 'ngralo contro al servo tuo fedele.
so Astolfo poi che si vide condotto
Presso alle forche, e gnun per sè non vede;
Cn pianto cominciò mollo dirotto,
Quando in sul primo scaglion poée il piede,
E’ Maganzesi il sospingean di sotto;
E disse: 0 Dio, è spenta ogni merzede,
Non è pietà- nel mondo più né in cielo,
Pc’ tuoi fedel che credon nel Vangelo.
SI S’io ho tre mesi assaltato alla strada
Per disperato, e pien di giusto sdegno.
Consenti tu eh’ alle forche ne vada?
Io ho tanto assaltalo il pagan regno,
E tanti per te morti colla spada.
Che di misericordia era pur degno:
Com’ un ladron m’ impicca Carlo Mano ,
E per più ingiuria il manigoldo è Gano ;
$j Quel che t’ha fatti mille tradimenti,
E mille e mille e mille alla sua vita,
E tanti ha già de’ tuoi Cristiani spenti !
Ov’è la tua pietà, s’ella è inGnita?
A questo modo eh’ io muoia or consenti ?
Per la tua deità, eh’ è in ciel gradita.
Per la tua santa e gloriosa Madre,
Abbi pietà del mio misero padre;
S5 Se per me stesso non l’ho meritato.
Per le sue opre degne e giuste e sante :
Ma tu sai pur, se pel tempo passato
Combattuto ho nel Ponente e Levante,
Tal eh’ i’ pensavo d’ avere acquistato
Altra corona o carro trionfante.
Altri stendardi di più gloria e fama :
Or col capresto Gan ladron mi chiama.
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CANTO DECIMOPRIHO.
23o
S4 Avino era venuto, per vedere
Quel che veder non vorrebbe per certo;
Ma ’l grande amor lo sforza, e più tenere
\on potè il pianto, tanto avea sofferto.
Guardava Astolfo contr’ al suo volere
Le forche in alto, e ’l cammin gli par erto,
E quanto può di non salir s’attiene,
Chè di morir non s’ accordava bene.
85 I Maganzesi gli sputan nel viso.
Come facieno a Cristo i Farisei;
Diceva alcun con iscorno e con riso:
Or tìen puniti i tuoi peccati rei.
Ricordati di me su in paradiso.
Altri dicea, come ferno i Giudei,
Mentre eh’ ognun quanto può lo percote :
Dimmi stu sai chi li batte le gote!
86 Tu il dovcrresti saper, paladino.
Tu doverresti conoscer la mano,
Se se’ profeta, astrolago o indovino:
Che guardi tu? del senator romano,
O che ti scampi il fìgliuol di Pipino?
Ch’aspetti tu? il signor di Montalbano?
Ne verrà a te, quando a’ Giudei il Messia:
E anco Cristo chiamò in croce Elia.
87 Era a vedere Astolfo cosa oscura ;
Il manigoldo tirava il capresto.
Dicendo : Vien su con buona ventura;
E ’l traditor di Gan dicea : Fa presto.
Astolfo avea della morte paura.
Perchè ha diciotto in volta, e vanne il resto;
E tuttavia di soccorso por guarda,
E quanto più polea di salir tarda.
88 Colle ginocchia alla scala s’appicca ,
E ’l manigoldo gli dava una scossa;
Chi qualche dardo alle gambe gli fìcea ;
Ma sosteneva in pace ogni percossa :
Malvolentier dagli scaglion si spicca;
E cigolar si sentian prima 1’ ossa :
Pur per la forza di sopra e di sotto
Sopra il terzo scaglion l’ avean condotto.
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230
IL HORGANTE MAGGIORE.
S9 Diceva Gano: Alla barba l’ arai ;
Tira pur su, ribaldo Iradilore ,
Che più le strade non assalterai.
Or questo è quel eh’ a Astolfo passa il cuore ,
E dicea: Tradilor non fui giammai,
Ma tu se’ Iradilore e rubatore ,
E quel che tu fai a me, meriti lue;
Ma contro al mio deslin non posso piue.
90 Io non posso pensar come il terreno
Non s’apre, e non oscura sole e luna,
Poi che a te, tradilor d’inganni pieno,
M’ ha dato cosi in preda la fortuna :
0 crocifìsso giusto Nazzareno,
Non è nel del per me difesa alcuna?
Questa è pur cosa dispieiata e cruda.
Da poi che tradilor mi chiama Giuda.
91 Dov’è la tua giustizia, Signor mio?
Non è per me persona che risponda :
Che questo tradilor malvagio e rio
M’ uccida , e con parole mi confonda.
Noi soflerir, benigno eterno Dio !
E tanto sdegno nel suo core abbonda,
Che con quel poco vigor che gli resta
Si percolea nella scala la testa.
9-2 Ma il manigoldo tuttavia punzecchia.
Ed or col piede or col pugno lo picchia
• Quando nel volto e quando nell’ orecchia ,
E pure Astolfo mesebin si rannicchia ;
E lullavolla co’ piè s’ apparecchia
Di rappiccarsi a scaglione o cavicchia;
Ma colle grida la gente l’ assorda,
E ’l manigoldo scoleva la corda.
9 .) Alcuna volta la gola gli serra ;
Non dimandar s’ egli era un nuovo Giobbe.
Un tratto gli occhi abbassava alla terra ,
Ed Avin suo fra la gente conobbe ;
Or questo è quel dolor che ’l cor gli afferra ;
Fece le spalle pel gran duol giù gobbe;
Raccomandògli sopra ogni altra cosa
11 vecchio padre , e la sua cara sposa.
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CAMTO DECIMOPIUMO.
■2J-
9i Talvolla gli occhi volgeva a Parigi;
Quando guardava inverso Monlalbano;
Non sa che ’l suo soccorso è in San Dionigi.
Diceva allor, per dileggiarlo, Gano:
Che guardi lu? se ne vien Malagigi?
E’ Qa qui tosto , egli è poco lontano:
Perché con meco Astolfo, cosi adirili?
Ch’ e’ liberar li farà da’ suoi spiriti.
9ó E nondimeno un’ostia, com’ io dissi,
Gli avca cucilo di sua mano addosso
Nella prigion, chè caso non venissi
r.he Malagigi l’avessi riscosso.
Acciò che in ogni modo quel morissi.
Diceva Astolfo: Omè ! che più non posso
Risponder, traditor, quel che lu meriti
De’ tuoi peccati presenti e preteriti.
9ù Gan lo schernia di nuovo con parole,
E pure al manigoldo raccennava;
E ’l manigoldo tira come suole :
Astolfo a poco a poco s’ avviava.
Però che solo un tratto morir vuole,
E cosi finalmente s’ accordava :
I Maganzesi pur gridan dintorno,
E sbufian beffe con ischerno c scorno.
97 Orlando in questo Astolfo in alto vide,
E disse: Tempo non è da star saldo:
Non senti tu quel tumulto e le gride?
E ’l simigliarne diceva Rinaldo:
Io veggo il manigoldo che l’ uccide,
E già il capresto gli acconcia il ribaldo;
Non aspettiam che glj facci più ingiuria.
Cosi di San Dionigi escono a furia.
OS Rinaldo punse in su’ fianchi Baiardo,
Che non si vide mai saltar cerviello,
Ch’a petto a questo non paressi tardo;
Cosi faceva Orlando, e Ricciardetto:
Non è lion si presto o liopardo:
Terigi drielo seguiva, il valletto:
Rinaldo scuopre il Lione sbarrato,
Orlando ha il segno del Quartier mostralo.
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238
IL HOBGANTB HÀGGIOBE.
99 Asloifo pure ancora stava attento ,
Come chi spera inaino a morte aiuto;
Vide costor che venien come un vento,
Non come strale, o come uccel pennuto.
Fumo in un tratto i lupi tra l’ armento,
Chè quasi ignun non se n’ era avveduto;
Ma poi che Orlando e Rinaldo conosce.
Fu posto One a tutte le sue angosce.
100 E’ parean proprio un nugolo di polvere ;
Giunse in un tratto la folgore e ’l tuono.
11 manigoldo si facea già assolvere
Al duca Astolfo, e chiedeva perdono.
Che gli volea poi dar l’ultimo asciolvere :
E messo avia la vita in abbandono ,
E domandava di grazia , in che modo
Far gli dovessi che scorressi il nodo.
lui Guarda fortuna in quanta estremitalc
Condotto avea col capresto alla gola
11 paladin di tanta degnitate ,
Che non facea di morir più parola!
Avea mille vittorie già acquistate,
E domandava ora una cosa sola.
Che ’l manigoldo acconciassi il capresto,
Per modo che scorressi il nodo presto.
t (>2 Giunto che fu tra’ Maganzesi Orlando :
•4h popol traditori gridava forte;
E misse mano a Durlindana il brando.
Rinaldo grida : Alla morte, alla morte !
E poi ^ venne alle forche accostando;
Trasse Frusberta, e legami e ritorte
Tagliò in un colpo, e le forche, e la scala;
E ogni cosa in un tratto giù cala.
^U3 Mai non si vide colpo così bello.
Tanto fu l’ira, la rabbia, e ’l furore;
Astolfo cadde leggier come uccello.
Tanto in un tratto riprese vigore;
11 manigoldo si spezza il cervello:
Gan da Pontier fuggiva, il traditore:
.4vin che ’l vide, drieto a lui cavalca.
Ma non potieno uscir fuor della calca.
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CINTO DECIMOPRIHO.
2H»
u4 Orlando é in mezzo di que’ di Magnnza,
E mena colpi di drieto e davanle
r.on Durlindana, e faceva l’usanza ;
Quanti ne giugne, al ciel volgon le piante.
E Ricciardetto, c’ha molta possanza,
Molti n'uccide col brando pesante;
t'.om’un lion famelico ognun rugge:
Gan da Pontier verso Parigi fugge.
K'5 E’ si vedea in un tratto sbaragliare
I Maganzesi, e fuggir per paura
Chi qua chi là, perchè possa campare.
Trasse Rinaldo un colpo per ventura.
Un Maganzese morto fe cascare
E tolsegli il cavallo e l’arraadura;
E rassettava Astolfo d’ Inghilterra.
E corron tutti poi verso la terra.
K'6 I Maganzesi innanzi si cacciavano.
Come il lupo suol far le pecorelle,
E questo e quello e quell’ altro tagliavano,
E braccia in terra balzano e cervello;
Fino alle mura i colpi raddoppiavano ,
Cacciando i brandi giù per le mascelle :
.\ltri avean fe.ssi insin sopra gli arcioni,
(]bi insino al petto, e chi insino a’ talloni.
107 Astolfo poi eh’ a cavai fu montato,
Tra’ Maganzesi a gran furor si getta.
Gridando: Popol crudo e rinnegato.
Gente bestiale, iniqua e maladetta,
lo ti gastigherò del tuo peccato;
E colla spada facea gran vendetta,
E molta avea di quella turba morta.
Prima eh’ entrati sien drento alla porta.
ICS Ricciardetto era a Ganellone a’flanchi ,
E col cavai lo seguia a tutta briglia ;
Dunque convien che '1 traditore arranchi.
Perché da lui non levava le ciglia:
Giunti in Parigi i baron degni e franchi.
Subito tutto il popol si scompiglia;
E come fu saputa tal novella.
Subito i paladin montorno in sella.
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2<0
IL MOIIGANTE MAGGIORE.
d09 Carlo senlendo come il fallo era ilo,
E che in Parigi era Kinaldo e ’l conio,
E come Aslolfo è di sua man fuggilo,
Con ambe man si percosse la fronle:
Esser gli parve a sì Irislo parlilo,
Che si fuggì per non veder sue onte,
E la corona si Irasse di lesla,
E ’ndosso si slracciò la reai vesla.
no Era Rinaldo già in piazza venule
Col conle Orlando, e sollevalo lullo
Il po|M)l, che di Aslolfo gli è incresciulo :
E disiava Carlo sia dislrutlo.
Da poi eh’ a Gano avea sempre credulo,
E seguilalo n’ era amaro frullo.
Preso la piazza, al palagio corrieno.
Là dove Carlo Man pigliar credieno.
HI Dicea Rinaldo : Ignun non mi dia impaccio.
Io inlendo a Carlo far quel eh’ è dovere;
Come vedele ch’io le man gli caccio
Addosso, ognun da parie slia a vedere:
La prima cosa il vo’ pigliar pel braccio,
E levarlo di sedia da sedere.
Poi la corona di lesla cavargli,
E lullo il capo e la barba pelargli.
H ’ E mellergli una milera a bendoni,
E ’n sul carro di Aslolfo farlo andare
Per lolla la cillà come i ladroni;
E farlo lanlo a (ìano scorreugiare,
Che sia segnalo dal capo a’ lalloni,
E l’uno e 1 ’ allro poi farò squarlare:
Ribaldo vecchio, rimbambilo e pazzo !
Cosi con gran furor corse al palazzo.
113 Carlo la sala aveva sgomberala,
Perchè conosce Rinaldo assai bene;
Vide Rinaldo la sedia volala:
Subilo fuor del palazzo ne viene;
E per Parigi fece la cercala,
E minacciava, che chi Carlo liene
Nascoso, o sa dov’e’ si sia fuggilo,
Gliel manifesli; se non, Ha punilo.
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CANTO DBCIHOPKIMO.
241
4 Carlo a casa d’ Orlando |ier paura
S’era fuggito, intesa la novella,
Come Rinaldo drento era alle mura;
E nascosto 1’ avea Alda la bella,
Che ’l di venula v’era per ventura;
E triema tuttavia questa donzella.
Che non vi corra il popolo a furore,
E che sia morto il vecchio imperadore.
15 Gan si fuggiva innanzi a Ricciardetto;
Ma poi che più fuggir non può il fellone,
E già Rinaldo si vedeva a petto,
Al conte Orlando si dette prigione:
E ’l conte Orlando rispose: Io l’ accetto.
Per far di te quel che vorrà ragione.
Diceva Gano : Io mi ti raccomando
Che tu mi salvi almen la vita , Orlando.
16 Com’e’fu preso il traditor ribaldo.
Ognun gridava : Fagli quel che e’ mertn !
Non si potea rattemperar Rinaldo,
Che lo voleva straziar con Frusberta,
E come il veltro non islava saldo.
Quando la lepre ha veduta scoperta.
Diceva Orlando: Aspetta d’aver Carlo,
Ch’ io vo’ in sul carro con esso mandarlo.
17 Per tutta la città tutto quel giorno
Cercato fu di Carlo; e finalmente,
Non si trovando, al palagio n’andorno,
E ’l conte Orlando è il suo luogotenente:
Alda la bella col suo viso adorno
La notte se n’ andò celalamenic ,
Ed ogni cosa diceva al suo sposo,
Com’ eli’ avea lo ’mperador nascoso.
18 Orlando disse : Fa che tu lo tenga
Celato tanto, che passi il furore,
E fa che in modo nessun non avvenga.
Che nulla manchi al nostro imperadore;
Acciò che ignun disagio non sostenga,
Ch' egli è pur vecchio e mio padre e signore.
Cosi diceva: e fa che sia segreto;
Vedi s’ Orlando nostro era discreto.
31
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252
IL MOBGANTE MAGGIORE.
119 E gl’ increscea di Carlo quanto puote,
E di Rinaldo dubitava forte ;
E per pietà ne bagnava le gote,
Cbe non gli dessi alla fine la morte,
Perch’ era vecchio j e lui pur suo nipote,
E sa che guasta sarebbe la corte.
Cosi fumo alcun giorno dimorati,
E’ Maganzesi morti, e chi scacciati.
120 Rinaldo pure Orlando ritoccava.
Che si dovessi con ogni supplizio
Uccider Gan, che cosi meritava,
E che dovessi a lui dar quest’ uffizio :
Astolfo d’ altra parte il domandava
Di grazia in luogo di gran benefizio.
Che di sue ingiurie far volea vendetta :
Orlando rispondea, che Carlo aspetta.
121 E che farebbe si crudel giustizia
' Di lor, eh’ ognun ne sarebbe contento.
Gan nel suo core avea molta tristizia ,
E dubitava di molto tormento.
Come colui eh’ è pien d’assai malizia.
Orlando, ch’era savio a compimento,
E di Rinaldo conoscea l’umore,
Lasciava pur raffreddarlo nel core.
122 Dopo alcun giorno, quando tempo fue.
Gli cominciò cosi parlando a dire :
Di Carlo, ornai, dimmi che credi tue?
Per disperato dovette morire ;
Ucciso si sarà colle man sue -,
Fuor di Parigi non si vide uscire :
E quel che più mi dà perturbazione ,
È che stanotte il vidi in visione.
12.3 E’ mi pareva, a vederlo nel volto.
Che fussi tutto afflitto e doloroso ,
Di quel color eh’ è l’uom quando è sepolto ;
La barba e ’l petto tutto sanguinoso,
E tutto il capo arruffato e ravvolto;
E con un atto molto disdegnoso
Mi guardassi nel viso a mano a mano
Un Crocifisso eh’ egli aveva in mano.
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CANTO DECIHOPRIHO.
243
^24 Dond* io n’ ho tolto questo giorno pianto,
Che, come desto fu’, dispari via.
Ed io temendo mi levai ; e ’nlanto
Feci priego alla Vergine Maria,
Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo,
Che ’nlerpretar dovessi quel che sia :
E parmi aver nella mente compreso.
Che Carlo è morto, e Cristo abbiamo offeso.
125 Non si dovea però volerlo morto,
Però che pur tenuta ha la corona
Già tanto tempo , e por si vide scorto
Quanto Dio amassi la sua stirpe buona.
Che dal ciel lo stendardo gli fu porlo.
Che non fu dato al mondo mai a persona :
Temo eh’ offeso non abbiam Gesue
Pe’ suoi gran merli e per le sue virtue.
126 E credo che sarebbe utile ancora ,
Che si mettessi per Parigi un bando.
Che chi sapessi ove Carlo dimora
0 vivo 0 morto, lo venga insegnando;
E come giusto imperador s’onora.
Che si venissi il sepolcro ordinando :
Però che il ciel, se ha conceputo sdegno
Della sua morte, mostrerà gran segno.
127 Quando Rinaldo le parole intende.
Subitamente nel volto cambiossi,
E di tal caso sé molto riprende.
Dicendo : Io non pensai che cosi fossi ;
E nel suo cor tanta pietà s’accende.
Che gli occhi già son lacrimosi e rossi,
E disse: Orlando, quel che detto m’hai,
Mi pesa troppo, e dolgomene assai.
128 Ma non pensai però, che tanto male
Di questo caso seguitar dovessi;
Ma dopo il fatto il penler poi non vale :
A me par verisimil s’uccidessi.
Perché pur sendo di stirpe reale,
Arà voluto uccidersi lui stessi.
Piuttosto eh’ altri vi ponessi mano.
Come di Annibal sai che letto abbiàno.
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24-!
IL HORGANTE MAGGIORE.
129 Mandisi il bando, al mio parere, e (osto,
Che lo riveli sanza alcun sospetto
Chi r ha tenuto o (enesi nascosto;
Però che di dolor mi s’ apre il petto,
E d’onorario per Dio son disposto
Siccome imperador magno e perfetto :
E sempre piangerò questo peccato,
E vo’al sepolcro andar, com’è trovato.
130 E dico, eh’ a voler bene onorallo
E’ si raguni tutto il concestoro,
E che si facci subito scultallo.
Non di marmo, o di bronzo, anzi sia d’oro.
Colla corona sopra un gran cavallo.
Come ferno i Roman d’ alcun di loro,
E lettere scolpite eterne e salde
Della sua gloria e fama e pregio e laide.
I3t E come il ciel già mandassi il vessillo,
Ch’ è stato in terra assai più avventurato ,
Che quel eh’ a Roma riportò Cammìllo,
Allor che ’l Campidoglio era occupato.
Orlando, come savio, alquanto udillo;
Poi prestamente il bando ebbe ordinato;
E com’e’fu per tutto andato il bando,
Alda la bella ne venne ad Orlando.
132 E disse come Carlo in casa avea,
E come per dolor non parca vivo ;
Tutta la corte gran festa facea.
Perchè credean di vita fussi privo:
Rinaldo molto lieto si vedea,
Accusando sè misero e cattivo:
E fu menato a corte a grand’onore,
E posto in sedia, Carlo imperadore.
-133 Astolfo chiese a Carlo perdonanza,
E Carlo perdonanza chiese a lui.
Ed accusava il conte di Maganza,
Dicendo : Consigliato da quel fui:
Quivi alcun giorno si fece l’ usanza ,
Ognun si scolpa de’ peccati sui.
Come nel dir seguente dirò in versi.
Guardivi il ciel da tutti i casi avversi.
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canto decihopbimo.
2iS
MOTE.
Osatilo Pellican ee. II Pelli-
cano è un uccello , di cui gli antichi
favoleggiarono che, aprendosi il petto
col becco, ravvivasse col proprio san-
gue i suoi figli uccisi dal serpente. Per
similitudine è qui chiamato Pellicano
Gesù Cristo , il quale col suo sangue
salvò e ricondusse alla vera vita gli
uomini suoi figliuoli. Tal figura è pei-ò
tolta da Dante, che disse di San Gio-
vanni Evangelista:
Questi è colui cito giscgue sopra il petto
l)tfl nostro rdlicanu ec.
Paradiso, XXV.
2. eh’ io stia di piallo. Lontano
e nascosto.
9. tcorlo. Tolto, preso.
12. che le mosche gli arrosli.
Detto figuratamente e in modo basso.
Vedi sopra il significato del verini ar-
roslare, pag. 133, nota alla St. 1 9 del
Canto MI.
28. con islran tiesligi. Vedi so-
pra, al Canto X, St. 130.
31. grilfanda. Ghirlanda. Viene,
secondo il Castelvetro, dal verbo non
usato ghirlare, che viene da girare.
52. lesliera. Quella parte della
briglia dove è attaccato il portamorso
dalla banda destra e passa sopra la te-
sta del cavallo e arriva dalla banda
manca, dove termina rolla sguancia.
57. Gli pose ee. Vale qui : colpi,
investi colla lancia.
5.f. velella. Vedetta , da video.
- 58. le barbe seuopre al sole. Va
sossopra .
64. Sinon di Troia. Sinone; co-
lui che introdusse in Troia il famoso
cavallo.
69. cerea. Sembra qui posto per
cerchia, in significato di aggiramento ;
laonde verrebbe a dire che Gano con-
ducendo Astolfo al luogo del supplizio,
gli fe fare per Parigi il maggior giro
e più lungo.
74. larpiam diseoslo. Il Voca-
bolario , riportando questo esempio ,
gli dà il significato di indebolire o to-
glier le forze. — pii» a tempo che
l'arroslo. Più a punto o a tempo
dell’ arrosto , dicesi quando succede
alcuna cosa opportunamente; c si
i dice cosi, perchè l’arrosto, essendo vi-
vanda assai appetitosa, è sempre re-
cala in tavola opportunamente c con
! aggradimento dei conviiati ; onde que-
I sto proverbio o modo s’ appropria an-
che a persona che giunge a proposito.
I « Ma ecco Gozzo più a punto clic 1’ nr-
I costo. • Salviiii, Vptna, .Atto IV, 12.
I 74. Giudecca. Quella bolgia d’Iii-
I forno nella quale Dante pone i tra-
ditori da’ loro benefattori, fra i quali
è Giuda; e dove egli trova Lucifero.
Inferno, Canto XXXIV.
75. Tu hai senlilo ee. Scipione,
conquistando l’Affrica, fece che Anni-
I baie perdesse quella rinomanza che si
I era acquistata nella battaglia di Can-
j ne , nella quale sconfisse i Romani. In
i appresso però Roma rimeriiò di nera
I ingratitudine quel valoroso capitano,
I il quale accusato e citato innanzi ai
I tribuni della plebe, fu costretto ri-
' fuggirsi a Linterno, dove, secondo al-
‘ cuni, si mori come un esule.
76. Gerusalem. La caduta di Ge-
rusalemme e del popolo Giudeo sotto
Tito Vespasiano, fu in pena della per-
fidia e ingratitudine di quel popolo,
prima verso Dio, avendolo tante volte
abbandonato per lo false divinità ; e
poi verso Gesù Cristo, perseguitandolo
e crocifiggendolo.
77. suoi. Suoli.
430. scuftaffo. Scolpirlo, da icuf-
fnre, verbo andato iu disuso. — laide.
Laudi, lodi. V. A,
431 . Che quel eh’ a Roma ee. As-
sediati i, Romani dai Galli, o rifuggi-
tisi tutti nel Campidoglio, stretti final-
inente dalla fame, deliberaron di ren-
dersi, Publio Sulpizio tribuno , a ciò
deputato, pattuì con Urenno, condot-
tiero dei nemici, che il popolo romano
dovesse pagare mille libbre d’ oro.
Ora, mentre si stava pesando qnc-
2f
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24 »
IL horgakte maggiore.
st’ oro, e sì disputava perchè i Oalli
avessero recate bilaoce non giuste, so-
praggiunse Cammino , già richiamato
dall’ esìlio e fatto dittatore ; il quale
rimproverata ai Romani la vergogna
dell’essersi in siffatta maniera venduti;
e rotti i patti , come quelli ciré erano
stati fatti senza il consentimento di
lui già eletto Dittatore, ingaggiò la
battaglia coi Galli , e sconGssegli : per-
chè tornato trionfatore in città, fu sa-
liitato coi nomi di Romolo, di Padre
della Patria, e secondo edifìcatore di
Roma.
CAKTO DEcmosEconrno.
Gano lascia la corte: a tradimento
Prende ’n un bosco Ricciardetto , e a Carlo
Lo dà in potere; e Carlo assai contento
S’ è già deliberato d’ impiccarlo :
Orlando parte a cosi strano evento;
Ricciardetto ha chi viene a liberarlo,
Parigi per suo re Rinaldo adotta ,
E Orlando dal Persiano ò messo in grotta.
1 0 fonie di pietà, fonte di grafia,
Madre de'pcccalor nostra avvocata,
Di cui la mente mia mai non si sazia
Di dir quanto ta sia nel ciel beata :
Ta redemisti nostra contomazia.
Dal di che ’n terra fusti annunziata;
Non mi lasciarcy o Vergine di gloria.
Tanto eh’ i’ possa ordinar questa storia.
2 Troppo sarebbe lungo il dire in rima
Di tanta gente appunto le parole,
£ d’ ogni cosa far non si dò’ stima :
Kinaldo il Iradilor Gan morto vuole,
Carlo di grazia l’avea chiesto prima.
Della qual cosa il popol se ne duole;
Pur lo lasciàr con questa condizione.
Che mai più in corte non istia il fellone.
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CANTO DKCmOSBCONDO.
2i7
3 Kinaldo malcontento si ritorna
A Montalban con Ricciardetto insieme.
Ma ’l traditor di Gan, che non soggiorna,
E sempre inganni della mente preme,
Cominciò presto a ritrar fuor le corna;
Perchè Rinaldo non v’era, non teme^
E Carlo l’ ha salvato dalla morte,
Ed or cacciar noi sapeva di corte.
4 E cominciò di nuovo a far pensiero.
Che Carlo gli credessi al modo antico.
Per distruggere al fin tutto il suo impero;
E Carlo ritornato è già suo amico,
E ciò eh’ è bianco, gli pareva nero.
Diceva Gano : Intendi com’ io dico ;
Se viver non vuoi sempre con vergogna,
Rinaldo al tutto spegner ti bisogna.
5 Carlo diceva: Alla fine io la lodo.
Perchè tu vedi ben quel che m’ ha fatto;
Ma non ci veggo ancor la via nè ’l modo,
E molle cose con meco combatto.
Diceva il traditor pien d’ogni frodo:
Io credo satisfarti a questo tratto ;
Come scacciato da te me n’ androe
A Montalbano, e segreto staroe.
6 E manderotti lettere poi scritte.
Che parrà che sian fatte nelle Mecche ;
Dirò che le mie gente sieno alllitte ,
E che punite ornai sien tante pecche;
E molte altre parole a te diritte :
Ch’io vo’ tornare a dir salamelecche,
Peccavi, Domili, miterere mei.
Delle mie colpe e de’ processi rei.
7 Tu mostrerai le lettere palese;
Rinaldo crederà eh’ io sia lontano,
E eh’ io non torni più ’n questo paese :
Un di ch’egli esca fuor di Montalbano,
Subito insieme saremo alle prese,
E so ch’ io l’uccidrò colla mia mano;
E come morto fia, sai che ’l tuo regno
Sicaro è poi ^ e tu ^ imperador degno.
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2i8
IL MOUGANTIi MAGGIORE.
8 A Carlo piacque al fin questo consiglio,
E fece vista Gan da sè scacciare;
Gan dette presto a suo’ arnesi di piglio ;
Prima fingeva sè raccomandare;
Carlo mostrava con turbato ciglio, -
Che in corte più non lo vuol raccettare,
E che cercando sua ventura vada ,
E ritrovassi subito la strada.
9 Partissi il tradilor celatamente,
E presso a Montalban fece un agnato ,
E scrisse a Carlo, come la sua gente
E lui in Pagania era arrivalo,
E mostrava pregare umilemente.
Che perdonar gli debba ogni peccato :
E Carlo aveva lettere mandale
A Monlalbano, e mollo palesale.
40 Rinaldo s’era un giorno dipartito,
Per passar tempo con un suo falcone;
E Ruinalto con lui era gito
Verso Agrismonte a lor consolazione:
E Ricciardetto un di ne giva al filo
Del fiume, ove nascoso è Ganellone
In una valle, ov’è certo boschetto
Presso a quel fiume appiè d’ un bel poggetlo.
Il E mentre in qua e ’n là s’andava a spasso,
Gan si pensò che Rinaldo quel sia ;
Esci del bosco con molto fracasso.
Ed assaltollo con sua compagnia.
Tanto che preso rimaneva al passo :
La notte inverso Parigi ne già,
E dette Ricciardetto preso a Carlo,
E ordinorno presto d’ impiccarlo.
42 Orlando, poi che questo fallo ha inteso,
Molto pregalo avea lo ’roperadore.
Che non guardassi d’ aver costui preso,
E non gli facci oltraggio o disonore.
Carlo rispose di grand’ira acceso:
Io vo’ impiccarlo come traditore.
Perchè d’ Astolfo impedi la giustizia.
Con esso insieme per la sua nequizia.
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CANTO DBCIMOSECONDO. 2(!)
13 Diceva Orlando : E’ non è ancora spento
Il fuoco, Carlo, ch’arder potre’ ancora:
Se tu r Decidi, io non sarò contento,
Rinaldo ne verrà sanza dimora :
Vedi che Gan già fatto ha tradimento,
C sanza lui non puoi vivere un’ora.
Carlo dicea : Traditor non fu mai,
E ciò c’ ha fatto è perchè m’ ama assai.
E tu te l'hai recato in sulle corna,
Tu e Rinaldo, perch’egli è fedele,
E di nè notte giammai non soggiorna
Di spegner chi contro a me fa crudele.
Partissi Orlando, e stando un poco, torna,
E disse: lo giuro alle sante Vangelo,
Che se tu uccidi, Carlo, il mio cugino.
Io ti farò delia vita tapino.
I.H E trasse fuor la spada Durlindana,
E colla punta una croce fe in terra.
E ’n sulla croce poneva la mana,
£ dipartissi, ed usci della terra:
Ma la regina savia Gallerana
Pregava insieme col sir d’ Inghilterra
E ’l duca Namo, (Jlivieri, e ’l Danese,
Ch’ almen la morte gl’ indugiassi un mese.
16 Carlo le forche in sul fiume di Sena
Fece ordinare, e ciò che fa mestiero;
Gan traditor grand’ allegrezza mena,
Pcrch’ e’ pensò riuscissi il pensiero:
Tutta la corte di sdegno era piena.
Rinaldo e Ruinatto il suo scudiero
Intanto a Montalbano era tornato,
E Ricciardetto suo non v’ ha trovato.
17 E scrisse a Astolfo come il caso stava,
Che ravvisassi, e stessi provveduto.
Però che molta gente ragunava.
Per dare a Ricciardetto presto aiuto:
Astolfo d’ogni cosa lo ’nformava,
E come Carlo gli avea conceduto
Un mese tempo a mandarlo alla morte;
Ma duolsi sol eh’ Orlando non è in corte.
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IL MOBGAMTE MAGGIOBE.
IS Or questo è quel eh’ a Rinaldo dolea,
Che si fossi parlilo il conte Orlando,
Chè sanza lui di camparlo temea ;
Pur la sua genie veniva assettando.
E Gallerana che gliene ’ncrescea,
Ognidì Carlo veniva pregando
Che Ricciardetto libero lasciassi,
Acciò che Orlando in corte ritornassi :
19 E non tentassi tanto la fortuna,
E non credessi tanto al conte Gano;
E se mai grazia far gli debba alcuna.
Che Ricciardetto gli dessi in sua mano ;
Ma non poteva ancor per cosa ignuna
Rimuover dall’impresa Carlo Mano.
Rinaldo pur quel che seguissi aspetta,
E tuttavia la sua brigata assetta.
i’O Era già presso il giorno deputato,
E Smeriglione e Vivian di Maganza,
Come Carlo avea dello, hanno ordinato;
E Ganellone avea tanta arroganza,
Ch’ ognun che priega è da lui minaccialo :
Lo ’mperador gli avea dato baldanza ;
Tanto che Namo per nulla non v’era,
E per isdegno n’ era ilo in Baviera.
21 E Berlinghieri, ed Ottone, ed Avino
S’eron partiti, Avolio, e Salamene,
E ’l flglìuol del Danese, Baldovino,
Veggendo a Gan tanta presunzione;
Erminion, che fu già Saracino,
Era con Carlo pien d’afflizione;
E l’amico d’ Astolfo Lìonfante,
Famoso e degno e gentile ammirante.
22 Evvì Morgante colla damigella
Meridiana e col suo concesloro;
Ognun di Ricciardetto assai favella.
Che Carlo a torlo gli dava martora :
Gan da Pontier sua baronia appella.
Quando fu tempo, e comandava loro.
Che Ricciardetto subito legassino,
E ’n sul Qume dì Sena Io ’mpiccassino.
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CANTO DECIHOSECONDO.
231
23 Rinaldo era venuto, come scrisse
Astolfo, e con sue gente stava attento
Aspettar che ’l fralel di fuor venisse ;
Vide in un tratto gli stendardi al vento
Prima che fuor Ricciardetto apparisse,
E SmerigUon che si facea contento,
E molto a quel mestier pareva destro,
E ’l buon Vivian ch’era l’altro maestro.
24 Non aspettò che, come Astolfo, venga
Fino alle forche, ma tosto si mosse.
Acciò eh’ alcuno scherno non sostenga, t
Che nella fronte sputato gli fosse ;
Verso la porta par che ’l cammin,tenga;
Tra’Maganzesi in un tratto percosse :
E Ricciardetto suo fu sciolto presto.
Che, com’ Astolfo, al collo avea il capreslo.
26 Or qua or là si scaglia con Boiardo,
E fece cose quel di con Frusberta,
Che chi ’i dicessi Ga detto bugiardo;
Ma come fu la novella scoperta,
Ognun fuggiva: in questo tempo Alardo
Ismeriglion colla zucca scoperta
Trovava, e con un colpo, che diè a quello,
Gli parli il capo, e fessegli il cervello.
26 E poi si volse con molta tempesta
Verso Vivian da Pontier, ch’era appresso,
E colla spada gli dié in sulla testa,
L’ elmo e la cuffia insino al mento ha fesso :
Rinaldo a Gan terminò far la festa,
E finalmente s’ appicca con esso :
E ’n su ’l braccio d’ un colpo I’ ha ferito ,
Che cadde in terra pel duol tramortito.
27 E fu portato come morto via;
E Ricciardetto sopra un destrier monta.
Che Smeriglione abbandonalo avia,
E colla spada tra costor s’ affronta :
I colpi e le gran cose che facia ,
Per non tediar chi legge, non si conta :
Carlo era corso già insino alla porta.
Vide Rinaldo, e molla gente morta
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232
IL UOBGANTE MAGGIORE.
■JS E disse fra suo core: l’ ho mal fallo,
Ecco di nuovo il popol sollevalo;
E fuor della città si fuggi ratto:
Rinaldo drento in Parigi era entralo,
E grida: Popolazzo vile e matto,
Com’ hai tu tanto oltraggio comportato?
A sacco, a fuoco, alla morte, a furore,
E misse lutto Parigi a remore.
29 E cominciò in un certo borgo il fuoco
Appiccare, c rubar botteghe e case.
Tanto che a’Parigin non parea giuoco;
Non si facea qui le misure rase:
Cosi jl furor cresceva a poco a poco.
Tanto che pochi drento vi rimase.
Sentendo al fuoco gridare, e alla morte ;
E per paura uscien fuor delle porte.
.')() Non vi rimase un Maganzese solo.
Che non fuggissi per la via più piana,
E mollo pianto si sentiva e duolo;
Ma la reina presto Gallerana
Si misse in mezzo di tutto lo stuolo,
E come savia, benigna ed umana,
Pregò Rinaldo che lussi contento
Che ’l fuoco almen dovessi essere spento.
.it Rinaldo aveva sentito ogni cosa.
Ciò che per Ricciardetto fallo aveva
L’alta reina, degna e gloriosa;
Subito un bando per lutto metteva.
Che, poi che piace alla donna famosa.
Ognun si posi : e 'I fuoco si spegneva :
Prese la terra quel giorno a suo agio,
E Gallerana lo menò al palagio.
:>2 E fu quel di Rinaldo incoronato,
Chè contradir non gli potè persona ;
E nella sedia di Carlo è posalo,
E messogli poi in lesta la corona,
E d’ una vesta regale addobbalo;
E di sua forza ognun quivi ragiona.
Perch’egli aveva quel di falle cose,
Ch’ a tutto il popol fur maravigliose.
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CANTO DECIHOSECONDO.
233
>.'> Gano in Maganza si fece ritorno,
Bencliè portalo vi fu come morto
Dalle sue gente che l’ accompagnorno :
A Gallerana non fu fatto torto;
Ognun come a reina gli è d’ intorno :
Cosi Rinaldo comandava scorto,
Che fatto fussi alla reina onore.
Come se Carlo fussi imperadore.
5+ Vero è eh’ un altro, che ne scrive, dice
Che subito ne venne Malagigi,
E menava con seco Beatrice,
Che di Rinaldo madre era , a Parigi ,
Perch’ esser volea lei la ’mperadrice;
Ma ’l prenze si ricorda de’ servigi,
E vuol che Gallerana sia in eflello.
Perchè molto aiutato ha Ricciardetto.
55 Tornò a Parigi Namo, e Salamene,
E Berlinghier famoso , e Baldovino,
Ch’era fìgliuol del sir dello Scaglione;
Tornò Gualtieri a corte, tornò Avino,
Tornò cogli altri insieme il franco Ottone,
E tutto quanto il popol parigino ;
E’ Maganzesi ognun nettò la soglia ,
Chè non ve ne rimase seme o (doglia.
36 Fecionsi fuochi assai per la citiate ,
Fecionsi giostre e balli e feste e giuochi;
Furon tutte le dame ritrovate,
E gli amador, che non ve n’ eran pochi ;
Tanti strambotti, romanzi e ballate.
Che tulli i canterin son fatti rochi :
Sentiensi tamburelli e zufolelti.
Liuti, e arpe, e cetre, e organetti.
37 Era Rinaldo molto reputalo,
E più che fussi mai contento e lieto.
Se non eh’ Orlando suo non v’ ha trovato,
Dond’ egli avea gran duol nel suo segreto;
Orlando con Terigi è cavalcalo
Più e più giorni già contra divieto,
E ’nverso Pagania n’andava forte.
Con inlenzion mai più tornare in corte.
i. 22
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‘ 6 \ IL HOBGANTE MAGGIORE.
58 E loUavoUa piangea Ricciardetto,
Dicendo: Io so che Carlo farà morto,
Ond’ io n’ho tanto dolor nel mio petto.
Ch’io non isolerò più trovar conforto;
Il traditor di Gan per mio dispetto
Pia stato il primo a cosi fatto torto.
E ’l simigliante Terigi dicea,
Chè Ricciardetto troppo gli dolea.
59 Avea già cavalcato più d’un mese,
E Gnalmcnte in Persia si trovava,
E come fu condotto in quel paese.
Senti che gran battaglie s’ ordinava ;
E poi eh’ un giorno una montagna scese.
Una città famosa ivi mirava.
Là deve era assediato l’ Amostanle
Dal gran Snidano e da un Ger gigante.
40. Aveva una Ggliuola molto bella.
Che luce più che stella mattutina,
L’Amoslante, chiamata Cbiariella,
Tanto leggiadra, accorta e peregrina.
Che per amor di lei montalo è in sella
Il Soldan con sua gente saracina ,
Per acquistar, se può, si bella cosa;
E ’l gran gigante non trovava posa.
41 Ch’era detto per nome Marco valdo,
Venuto dalle parti di Murrocco,
Di gran prodezza e di giudicio saldo,
Ma per amor di lei pareva sciocco.
Come chi sente l’amoroso caldo,
Che solea dare a tutti scaccorocco;
Ma tanto il fuoco lavorava drenlo.
Che per costei perduto ha il sentimento.
42 Cavalcava un’ alfana smisurata
Di pel morello, e stella aveva in fronte;
Sol un difetto avea, ch’era sboccata,
E pel furor gli par piano pgni monte:
Arebbe corso tutta una giornata,
Tant’eran le sue membra forte e pronte.
Giunse Terigi e ’l Ggliuol di Milone
Dov’ era del gigante il padiglione;
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CANTO DECIHOSECONDO-
23S
43 Ch’era lutto di cuoio di serpente,
Con certi Macomelti messi a oro,
Con gran carbonchi, se Turpin non mente,
Zaflir, balasci, e valeva un tesoro.
Orlando al padiglion poneva mente.
Dove il gigante faceva dimoro,
E stava tanto fìso a mirar questo.
Che Marcovaldo s’ adirava presto.
44 Perch’e’ giocava a scacchi a suo sollazzo,
Siccom’egli è de’ gran signor costume;
Volscsi, e disse con un suo ragazzo:
Chi è quel poltronier che tiene il lume ?
Cacciatei via, e’ debbe essere un pazzo :
Donde è venuto questo strano agrume?
Fu preso a Vegliantin tosto la briglia,
Ch’ Orlando al padiglion lenea le ciglia.
45 Terigi , quando vide il Saracino
Ch’ avea preso la briglia al conte Orlando,
Come fedele e servo al paladino.
Subito trasse alla testa col brando;
E quel Pagan giltava a capo chino,
Chè le cervella fuor vennon balzando.
Ah: disse Orlando, come bene hai fallo,
A gasligar, Terigi, questo matto I
46 Marcovaldo colui vide cadere;
Maravigliossi , chè non parve appena
Che Terigi il toccassi: Ah pollroniere.
Gridava forte, malto da catena I
E poi si volse ad un altro scudiere:
Piglia quel, disse, e drento qua lo mena.
Ch’io non intendo soQerir tal torto,
Ch’ egli abbi in mia presenzia colui morto.
47 Allora Orlando prese Durlindana,
Chè tempo non gli par di stare a bada,
Ed accostossi alla turba pagana:
Terigi s’ arrostava colla spada;
Quanti ne giugne, in terra morti spiana.
Tal che non v’ è più ignun che innanzi vada:
Orlando a chi non era al fuggir destro,
Facea col brando il segno del maestro.
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256
IL HORGANTE MAGGIORE.
48 Maravigtiossi tanto il fier gigante
Di quel che vide in nn momento fare
Al conte Orlando a’ suoi occhi davante,
Che cominciò cosi seco a parlare :
E’ basterebbe al gran signor d’ Angranle,
Che in tutto il mondo si fa ricordare,
Quel c’ha fatto costui qui col suo brando.
Della qual cosa molto rise Orlando.
49 Fate venir, gridò, tosto mie armi,
Ch’i’ho di questo fatto maraviglia;
lo vo’con questo cavalier provarmi.
Che tutta quanta mia gente scompiglia ;
Veggiam se ardito sarà d’ affrontarmi.
E la sua alfana pigliò per la briglia.
Prese una lancia, e ’nversò Orlando corse;
Ma ’l buon Terigi del fatto s’ accòrse.
50 A un Pagan di man tolse una lancia,
E disse: Piglia, piglia tosto, conte;
Le gentilezze son rimase in Francia;
Ecco il gigante che ti viene a fronte;
Nè per vergogna arrossita ha la guancia
Di venirti a trovar, ché pare un monte:
Tu colla spada, e lui coll’ aste in resta;
Vedi che gente, anzi canaglia, è questa !
51 Rispose Orlando: Sia quel eh’ esser vuole,
Chò in ogni modo non lo stimo un fico ;
Ver è ch’egli è si grande, che mi duole
Ch’ appena gli porrò 1’ aste al bellico:
Ma il brando taglia pur come e’ si suole;
Con osso il tratterò come nimico.
Terigi stava a diletto a vederlo,
E Vegliantin ne va com’ uno smerlo.
52 E poi in un tratto la lancia abbassava ,
E va inverso il Pagan di buona voglia,
E ’n sullo scudo basso lo trovava:
Questo passò come fussi una foglia,
E la corazza o lo sbergo passava,
Tanto che Marcovaldo ebbe gran doglia ,
E ruppe la sua lancia a mezzo il petto
Al conte, bestemmiando Macomelto.
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CANTO DECIHOSECONOO.
257
53 L’ alfana, che pel colpo ebbe paura,
Perchè gli parve di molta possanza,
Era di bocca, com’io dissi, dura;
Subito fece col morso l’usanza,
E cominciò a sgomberar la pianura:
Ma ’l conte Orlando seguiva la danza ;
Egli e Terigi i cavalli spronorno,
E drieto a Marcovaldo s’ avviorno.
5A Poi che tutto ebbe attraversato il piano,
Giunse l’ alfana appiè della montagna ;
Quivi al fin pur la ritenne il Pagano,
Però che tutta di sudor si bagna.
Orlando grida: Saracin villano,
Ben t’ho seguito per ogni campagna;
Questo è quel di che ti convien morire.
Volgiti in drieto, tu non puoi fuggire.
55 Sentendo il Saracin cosi chiamarsi,
Volsesi in drieto, e trasse il brando fore,
E disse: Al mondo ignnn non può vantarsi,
Gh’ io lo fuggissi per viltà di core;
Ma sappi eh’ e’ rimedj son si scarsi
Di questa alfana a frenare il furore,
Quand’ella piglia colla bocca il morso,
Che insin dove tu vedi son trascorso.
56 Ma tu se’ qua condotto dov’ io voglio,
E ’l tuo compagno ch’uccise il mio servo;
S’io son quel Marcovaldo che esser soglio.
Non lascerò a tagliarli osso nè nervo:
A più di sette abbassato ho l’orgoglio,
E sempre col nimico questo osservo,
Gh’ io non mi curo por la lancia in fallo.
Ma colla spada mi serbo ammazzano.
57 Rispose Orlando: Tu il di’ per vergogna,
Ghè tu rompresti un gambo di Gnocebio
A gran fatica, e scusa or ti bisogna;
Ed io, ch’alialo a le paio un ranocchio.
So che col ferro ti grattai la rogna,
E corse il sangue più giù che ’l ginocchio:
Gosi t’ avessi veduto la dama,
Ghe Ghiariella per nome si chiama.
22 *
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25S IL HORGAMTE MAGGIORE.
as Disse il Pagano: Or donde hai tu saputo
Chi tenga del mio cor le chiavi e ’l freno?
Sappi che molte volte m’ ha veduto
Gittar più cavalier morti al terreno,
E mai però di me non gli è incresciuto ;
Ma pur per compiacerli nondimeno,
S’ io gli credessi dar sollazzo e festa.
Di te, poltron, gli manderei la testa.
59 Rispose Orlando : E’ fìa più bel presente
La tua, gigante, eh’ è maggiore assai;
Oltre veggiam come sarai valente,
E quel eh’ a Chiariella manderai;
E Durlindana alzò subitamente.
Dicendo: Or Macometto chiamerai;
E diègli un colpo in sulla destra spalla.
Che ’l lìer gigante in qua e ’n là traballa :
co E fece lo spallaccio sfavillare.
Ma pure al taglio della spada resse;
E ’l Saracin si volle vendicare,
E par eh’ un gran fendente al conte desse.
Orlando collo scudo vuol parare;
Ma la pesante spada e dura il fesse,
E due parte ne fe, se ’l dir non erra,
E r una delle due balzava in terra.
61 Orlando per grand’ira l’altra getta,
E battella al gigante nei mostaccio;
Poi Durlindana in pugno si rassetta,
E trasse un colpo al Saracino al braccio.
Che benché 1’ arme assai fossi perfetta.
Parve che fussi o di cera o di ghiaccio:
11 braccio gli tagliò presso alla mano.
Tal eh’ un gran mugghio metteva il Pagano.
62 E la spada e la man vide cadere,
E cadde pel dolor giù dell’alfana,
E disse: Io mi l’arrendo, eh’ è dovere,
Ch’ io veggo ogni speranza in Macon vana ;
Per grazia, non per merlo, cavaliere,
‘ Dimmi se se’ della legge cristiana.
Poi che tu m’hai cosi condotto a morte,
Ch’ io non trovai Pagan mai tanto forte.
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CANTO DECIMOSECONDO.
259
63 Disse Orlando : Da poi che la rael chiedi
Per grazia , io userò mia cortesia ;
Io sono Orlando; e questo, che tu vedi,
È il mio scudier eh’ è meco in compagnia:
Tu se’ morto, e dannato, stu non credi
Presto a colui che nacque di Maria:
Battezzali a Gesù, credi al Vangelo,
Acciò che r alma tua ne vadi in cielo.
64 Macometto t’ aspetta nello ’nferno
Cogli altri matti che van drieto a lui.
Dove tu arderai nel fuoco eterno.
Giù negli abissi dolorosi e bui.
Disse il Pagan : Laudato in sempiterno
Sia Gesù Cristo e lutti ì santi sui;
Io voglio in ogni modo battezzarmi,
E per tua mano. Orlando, Cristian farmi.
65 E ringrazio il luo Dio, poi ch’i’son morto
Per man del più famoso uom che sia al mondo ;
S’ io mi dolessi, io arei certo il torto:
Battezzami |)er Dio, baron giocondo,
Ch’ io sento già nel cuor tanto conforto,
Ch’ esser mi par d’ ogni peccato mondo.
Orlando al lìurae subito correa, >
Trassesi l’elmo, e d’acqua poi l’ empieo.
66 E battezzò costui divotamenle:
E come morto fu, sentiva un canto,
E Angeli apparir visibilmente,
Che l’anima porlàr nel regno santo:
E d’aver morto costui fu dolente,
E con Terigi faceva gran pianto:
E feciono una fossa a drenlo e scura.
E dettono a quel corpo sepoltura.
67 Ma una grazia prima che morisse
Al conte chiese quel gigante ancora:
Che se per caso giammai avvenisse
Che parlasse a colei che lo ’nnamora.
Che gli dicessi come il fatto gisse,
E come sempre insino all’ ullim’ ora
Di Chiariella e del suo amor costante
Si ricordò come fedele amante.
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260 IL MORGANTB MAGGIORE.
68 E che per merlo di si degno afletlo
Dovessi qualche volta venir quella
Dove il suo corpo giacerla soletto,
E chiamassi, e dicessi: Chiariella
Ti piange, Marcovaldo poveretto.
Qual li parve nel mondo troppo bella ;
Ch'avea speranza, se costei il chiamassi,
Che r anima nel corpo ritornassi.
69 0 come fece appiè, del gelso moro
Piramo, quando Tisbe lo chiamoe.
Ch’era già presso all’ ultimo marloro.
Cosi far egli Orlando il confortoe.
Dicendo : Io lo farò, se pria non moro,
Ch’ alla città son certo eh’ io n’ androe.
£ cosi fece a luogo e tempo Orlando ,
Per venir sempre la sua fe’ servando.
70 Terigi aveva veduto andar via
L’anima in ciel con molli Angeli santi.
Sempre cantando dolce melodia;
Tutto smarrito par ne’ suo’ sembianti:
Quand’e’ senti dir Salve, Ave Maria,
Con armonia celeste e dolci canti ,
Disse ad Orlando : Io ho invidia a costui ,
Che come lui da le morto non fui.
■
71 Da ora innanzi tra’ Pagani andiamo.
Ch’io non istimo più di star in vita,
Pur che per la tua fe’. Cristo, moiamo.
Poi che queir alma vidi alla partita.
Diceva Orlando: Al campo ritorniamo;
Questa novella non vi fia sentita ;
Non ci dee riconoscer quella gente.
Nè di costui non sapranno niente.
72 Cosi pel mezzo del campo passero,
Che conosciuti non fur da persona,
E ’n verso la città poi se n’ andare,
Dov’ era l’ Amostante e sua corona,
E del palazzo reai domandare;
Poi inverso quello ognun di loro sprona.
Tanto che sono al palazzo arrivati,
E innanzi all’ Amostante appresentati.
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CANTO DKCIHOSECONDO. 2(it
73 Ad un balcon 1’ Amoslanle si posa;
Chiariella veggendo il conte Orlando,
Ch’era più fresca che incarnata rosa,
Molto Io squadra, e venia rimirando ;
E dice al padre: Stu guardi ogni cosa.
Quando coslor si vennono accostando ,
Come stava costui sopra 1’ arcione.
Tutti i suoi segni son d’ un gran barone.
U Cosi fossi egli Orlando quel Cristiano,
C’ha tanta fama, come e’ par qui desso,
Chè non saria pien di stendardi il piano,
Non ci starebbe il campo cosi appresso,
Chè non ci arebbe as.sediati il Saldano.
Orlando udiva e ridca fra sè stesso;
L’ Amostante parlò cortesemente :
Ben sia venuto, cavalier possente.
7ò Macon sia sempre la vostra difesa ;
Se voi cercate da me soldo avere,
Chè vedete il mio caso quanto pesa.
Io vel darò, e più che volentiere:
Costar venuti son qua per mia offesa;
Evvi il Soldan con tutte sue bandiere
Venuto qua del corno egiziano,
E cuopre con sue gente il monte e ’l piano.
76 E raccozzato ha qua tutto il Levante,
E vuol per forza pur questa mia figlia;
E per ventura oi venne un gigante.
Che dà terrore a tutta mia famiglia:
Sopr’ un’ alfana ognun si caccia avante
Molto sboccata, e corre a sciolta briglia ;
E già delle mie gente ha strutte molle.
Or va guastando tutte le ricolte.
77 Orlando disse: Il gigante c’hai detto,
Non temer più che in sull’ alfana vada ;
Non ti farà più danno, ti prometto,
Non tornerà in suo regno o in sua contrada:
Appiè della montagna al dirimpetto
Oggi r uccisi con questa mia spada ;
Io te lo dico, re, per tuo conforto.
Che quel gigante giace in terra morto.
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262
IL HOHGANTE UiGGIOBB.
78 Non poteti l’ Amoslante creder questo ,
E domandava pur per più certezza :
Di’ eh’ uccidesti il gigante molesto?
Poi r abbracciò per la molta allegrézza ,
Dicendo: Poco mi curo del resto.
La damigella con gran tenerezza
Corse abbracciar Orlando incontanente,
Ch’ a dire il ver non gli spiacque niente ;
79 E men saria dispiaciuto a Rinaldo.
Dove se’ tu, signor di Montalbano?
Diceva Orlando, tu staresti saldo,
S’ ancor più oltre stendessi la mano.
Dunque tu di’ c’hai morto Marcovaldo,
Disse la dama, cavalier sovrano ?
Sia benedetto chi ti generoe !
E mille volte Macon ringrazine.
so Avea già Chiariella posto amore
Al conte Orlando, tanto gli è piaciuto ;
E già Cupido la saetta al core.
Or ritorniamo al Soldan, c’ha saputo,
Che Marcovaldo è della vita fore ;
E gran dolor n’avea, come è dovuto,
E ’l viso tutto di lacrime bagna,
Quand’ e’ guardava inverso la montagna.
81 Ma chi 1 ’ uccise saper non potea:
Detto gli fu eh’ egli era un viandante ;
E questo verisimil non parea ,
Sappiendo quanto era fiero il gigante :
E per ventura seco al campo avea
Un savio, antico e sottil negromante,
E disse : Fa eh’ io sappi per tua arte
Chi è colui eh’ uccise il nostro Marte.
82 II negromante atlor per ubbidire,
Ch’era maestro di somma dottrina.
Subito fece per arte apparire
Quel che bisogna con sua disciplina :
Trovò come un Cristiano il fe morire
Che si facea di legge saracina,
E come egli era col grande Amostante.
Cosi trovò chi avea morto il gigante.
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CANTO DECIHOSECONDO.
2«3
S3 Quando il Soldeno il negromante udio,
Dolor si grande non senti giammai ,
E disse: 0 Macometto, o pazzo Dio,
A tuo diletto consumato m’ hai.
E scrisse all’ Amostante il caso rio,
Dicendo: Re di Persia, tu non sai,
Che quel c’ ha morto il gigante pagano ,
È quel eh’ è teco, e sappi eh’ è Cristiano ;
84 E qualche tradimento farti aspetta :
Da ora innanzi, se questo ti piace,
Io vo’ di Marcovaldo far vendetta,
E far con (eco a tuo modo la pace.
La lettera suggella, e manda in fretta;
Air Amoslantc il caso assai dispiace.
Quando senti come Cristiano è quello,
ChiamandoI traditor, ribaldo e fello. ‘
85 E la risposta faceva al Soldano,
Che vuol far pace e triegua a ogni modo,
Pur che punito sia questo Cristiano.
Cosi la pace si metteva in sodo.
Poi prese Orlando un giorno per la mano,
E disse: Cavalier, sappi ch’io godo,
Ch’i’ho col gran Soidan la pace fatta,
E partirassi questa gente malta.
86 Orlando non pensava tradimento:
Disse che mollo se ne rallegrava,
E di tal pace troppo era contento ,
Dicendo : Del tuo caso mi pesava ;
Or tutto alleggerito il cor mi sento.
Poi I’ Amoslante pel Soidan mandava;
C lui vi venne, e montò presto in scila.
Per veder anco la fanciulla bella.
87 Segretamente il trattato ordinaro;
Di pigliare il Cristian preson parlilo.
Quando fìa a Ietto, e non arò riparo;
E cosi fu tra loro stabilito.
Venne la notte, al letto se n’ andaro;
Orlando alla sua camera n’ è gito,
E disarmossi, e crede esser sicuro.
Ma non sapeva del .suo mal futuro.
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2fìi IL MOBGANTE MAGGIORE.
8S Quando più fisso la noUe dormia,
Una brigala s’arniàr di pagani,
E un di questi la camera apria:
Corsongli addosso come lupi o cani :
Orlando a tempo non si risentia,
Chè finalmente gli legàr le mani,
E fu menato subito in prigione,
Sanza ascoltarlo, o dirgli la cagione.
ss E dopo lui Terigi fu menato,
E messi poi nel fondo d’ una torre.
Orlando era di questo smemorato.
Per quel che fussi non si sapea apporre,
Che l’Amostanle l’avessi ingannato;
Ma disse: E’ mi vorrà la vita tórre;
Come nell’ altro cantar vi fia detto.
L’ Angel di Dio vi tenga pel ciutfelto.
NOTE.
I. conlumazta. Contumacia.
6. Mecche. Mecca, cittì santa dei
Turchi, comequella nella quale nacque
Maometto l’anno 569 dell’ era cristia-
ua. I Musulmani vi vanno una volta
almeno in vita loro in pellegrinaggio ,
per visitare la famosa Moschea o tem- |
pio chiamato Caaha , che credono edi- I
licato da Abramo. — salamelecche .
Modo di salutare , composto dalle due I
parole ebraiche o arabe laletn lecha, |
che signiCcano pace a te. Dice il Sai-
vini : . Salameleccha presso i Turchi
è lo stesso che dire pax tibi, d’ onde
abbiamo fatto il nostro salamelecche,
cioè cirìmonioso saluto e riverenza
profonda. » Discussione II. S’usa però
solo in ischerzo.
14. E tu te l' hai recato in tulle
corna. Recarsi o avere uno sulle corna
vale averlo a noia, io fastidia. — alle
tante Vangete. Cioè per, o sul santo
Vangelo. Dicevano anche gli antichi
alle sante Iddio Vangele, o allo sante
dìe Vangelo, corrottamente dal latino.
Per hoc Sancta Dei Evangelia.
46. Sena. Senna.
55. teme o foglia. Neppur uno.
56. ttramboUi, romanzi e bal-
late. Lo Strambotto era una specie di
poesia solita cantarsi dagl’ innamorati,
e per lo più in ottava rima ; il Ro-
manzo era una storia favolosa in ver-
si ; la Ballata, una canzone che sì can-
tava ballando.
40. Jmottante. Voce arabica ,
dinotante dignità di persona tra'Sa-
racini.
44 . teaceoroeco. Dal giuoco degli
scacchi , nel quale cosi si chiama lo
scacco dato al rocco.
51. ttnerlo. Uccel di rapina, agi-
lissimo nel volo.
56. J più di tette. Indetermina-
tamente ; cioè a molti.
69. Piramo ec. Era questi un
giovine assiro preso di forte amore per
Tisbe. Ma contrastando i lor genitori
alla loro unione , deliberarono fuggir-
sene in lontano paese ; e a tale uopo
stabilirono di trovarsi insieme in un
dato luogo. Vi venne Tisbe la prima ;
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CANTO DECIMOSCCONDO.
ma abbaltnUsi in nn leone che aveva
la bocca tolta insanguinala , si dette,
per lo spavento, a fuggire; sicché,
correndo , caddegli il velo del capo ,
il quale dal Uone raccolto tutto lo tinse
colla sanguinosa sua bocca. Soprag-
giunto Piramo, e vednto il velo di Ti-
sbe cosi intriso di sangue, tenne lei
essere stata divorata da alcuna fiera ;
di che preso da disperato dolore , col
proprio ferro trafittosi, cadde semivivo
in (|ael medesimo luogo. Dove tornata
indi a poco Tisbe, e veduto Piramo
20 »
spirante, e l’ error suo conosciuto, con
quel medesimo ferro che egli, di pro-
pria mano si uccise. Ed essendo que-
sto miserevole caso sotto di un gelso ,
che ^nivi era, avvenuto, da indi innan-
zi , I fruiti che infino allora bianchi
aveva produlti, sempre poi rossi, come
tinti del loro sangue, menò.
82. Che li faeea. Che faceva finta
di essere.
85. st melleva in lodo. Si con-
fermava.
88. più fino. Più profondamente.
CAIVTO DECmOTIIRZO.
dimani m a av(D»
Riposto a Carlo il diadema in testa.
Partono Ricciardetto, ed Ulivieri
Col ficr Rinaldo, il qual sunna a tempesta
Sopra Marsilio re li tra gli Iberi :
Ma l’un dell’altro buon amico resta,
E a Saragozza spronano i destrieri.
Rinaldo è messo d’amor sulle roste,
E a prò d’ Orlando corron per le poste.
1 Vergine sacra, d’ogni bontà piena,
Madre di quel per cui si canta Osanna,
Vergine pura. Vergine serena.
Dammi la tua quotidiana manna;
Colia tua mano insino al fin mi mena
Di questa storia, chè ’l tempo c’ inganna,
E la vila, e la morte, e ’l mondo cieco,
Sicch’ io faccia ascoltar ciascun con meco.
2 La damigella con dolci parole.
Con motti ben cogitati e soavi
Diceva al padre: Cosi far si vuole,
E punir sempre i frodolenti e pravi ;
Però di questo caso non mi duole,
E vo’ che lasci a me tener le chiavi,
E governargli, e serrare ed aprire.
Acciò che non ci possa ignun tradire.
23
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2«B
IL HOBGANTE MAGGIOBE.
3 Di questo l’Amoslante s’ allegroe,
Che queir ufficio pigliassi la dama,
£ le chiavi a costei raccomandoe.
Or questo è quel che la donzella brama :
Subito al conte Orlando se n’ andoe
Alla prigione, ed umilmente il chiama.
Dicendo: Cavalier, di le mi pesa,
E ciò che vuoi farò per tua difesa.
4 Orlando quanto può costei ringrazia,
E disse: Dimmi; sai tu la cagione.
Perchè il tuo padre in tal modo mi strazia ,
E messo m’ ha di subito in prigione ?
Di questo fa, per Dio, mia voglia sazia,
Trammi di dubbio e di confusione:
E slu non mi puoi trar di questa torre.
Non mi lasciare almen la vita tórre.
Rispose Chiariella al paladino:
l.a cagion che ’l mio padre t’ ha qui preso,
È che ’l Snidano, da un certo indovino.
Come tu sia Cristian par eh’ abbi inteso.
Benché tu mostri d’ esser Saracino;
E perchè del gigante tiensi offeso ,
Ha fatto pace col Saldano, e saldo
Di vendicarsi del suo Marcovaldo.
6 Ogni Cristian ch’uccide un Affricanle,
Secondo nostra legge morir debbo:
Tu uccidesti adunque quel gigante.
La vita al nostro modo te n’ andrebbe;
Ma perch’ io t’ ho già eletto per mio amante.
Tolsi le chiavi , chè di te m’ increbbe ;
E di morir non dubitare ornai,
Chè tu se' salvo, e libero sarai.
7 lo ho tanto sentilo ricordare
Quel cavalier Ch’Orlando è nominalo.
Che sue virtù m’han fatto innamorare,
E per suo amor non sarai abbandonalo;
Del nome tuo, di me li puoi fidare,
Dimmel, baron, ch’assai mi sarà grato.
Orlando rispondea: Gentil madama.
Io son colui che Orlando il mondo chiama.
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CANTO DECIHOTKHZO.
267
s Guarda dove condolto m’ ha fortuna ,
Che appena crederai eh' io sia quel desso ;
Io mi parli’ , nè di mia gente alcuna
Volli, se non qui il mio scudiere appresso :
Ho cavalcalo al sole ed alla luna.
Ora il tuo padre a forza m’ ha qui messo ;
Ma se pensato avessi tradimento,
Per lo mio Dio non mi melica qui drenlo.
0 A le mi raccomando, poi eh’ io sono
Dove tn vedi, e fa che ’l mio destriere
Sia governato, e poi sempre ti dono
L’anima, ’l cuore, e ciò eh’ è in mio potere;
E vo che ’ntenda ancor quel eh’ io ragiono :
Se tn potessi questo mio scudiere
In qualche modo di qui liberarlo,
Manderei per soccorso in Francia a Carlo.
10 Non potò soflerir che più parlassi
La damigella, udendo ch’era Orlando;
Parve che ’l cor nel petto si schiantassi
Per gran dolcezza, e disse lacrimando:
lo credo che Macon qua ti mandassi
Per mio amor sol, ma non sp come o quando,
Ghè sempre desiato ho di vederli ;
Ma in altro modo qui vorrei tenerti.
11 S’ io dovessi il mio padre far morire
Colle mie proprie man, tu non morrai;
Amor comanda, ed io voglio ubbidire.
Che tn sia salvo, e salvo te n’ andrai :
Quando fia tempo ti saprò aprire,
E ’l tuo cavai, contento ne sarai,
E lo scudier fìa franco ad ogni modo,
E che tu il mandi in Francia affermo e lodo.
12 Poi ch’ebbe Chiariella cosi detto.
Lasciava Orlando, e vanne al padre tosto,
E dicea : Quel sergente poveretto
Si morrà certo, chè mi par disposto
Di non voler mangiar; come folletto
Giltalo ha via ciò eh’ i’gli ho innanzi posto;
E colpa in ver non ci ha da gnuna banda,
Ch’ ubbidir dee quel che ’l signor comanda.
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268
IL HOBGANTE HAGGIOKE.
13 Rispose rAmoslante: Mandai via ;
Se si morisse, e’ ci sare’ vergogna;
Fa che quell’ altro ben guardato sia ;
Di questo non aremo altro che rogna.
Disse la dama: Per la fede mia,
Gh’ io non so se farnetica o se sogna ;
Quand’ io domando, e’ guata com’ un matto,
£ non risponde, anzi sta stupefatto.
14 E poi tornava alla prigion ridendo ,
E disse come il fatto era fornito.
Diceva Orlando con Terigi : Intendo
Che presto insino a Carlo ne sia gito,
E che tu meni Vegliantin commendo,
E dica il caso com* io son tradito
Dall’ Amostante, e truovomi in prigione,
£ quel che stato ne sia la cagione.
15 Cosi a Rinaldo mio dirai ancora.
Ad Ulivieri, e tutta nostra corte.
Che mi soccorrin prima che qua mora,
Ché tutti so poi piangerien tal morte.
Terigi si parti sanza dimora;
Sella il cavallo, ed usci delle porte;
E tanto cavalcò per monte e piano,
Che giunse ove non era Carlo Mano.
16 Perchè pensava a Parigi trovarlo.
Ma col suo Ganellone era a Pontieri :
Senti come Rinaldo è fatto Carlo;
A lui n’andava, e cosi a Ulivieri:
Rinaldo, come giugneva a guardarlo.
Subito pien fu di tristi pensieri,
Perch’ e’ piangeva si miseramente.
Che in modo alcun non potea dir niente.
17 Gridò Rinaldo : Ch’ è del mio cugino?
Tu debbi certo aver mala novella.
Allor Terigi quanto può meschino
A gran fatica in tal modo favella :
L’ Amostante di Persia saracino
L’ha incarcerato, e guardai Chiariella,
Una sua flglia nobile e gradita.
Quale ha promesso campargli la vita.
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CANTO DECIUOTE8ZO. 26»
18 Questo è perch’ egli accise Marcovaldo;
Onde il Soldano aveva un negromante,
E che Cristian quel fossi intese saldo,
Che l’avea morto; e fe coti’ Amostante
La pace, e’ patti il traditor ribaldo
Che fussi preso il buon signor d’ Angrante.
La notte tutt’a due fummo legati,
E in un fondo di torre incarcerati.
19 Orlando s’ accomanda a Carlo Magno ,
A te, Rinaldo, o ver santa corona.
Al suo cognato, all’amico, al compagno,
Prima che cosi perda la persona :
Vedi che di sudor tutto mi bagno;
Volato son, non come fa chi sprona.
Tanto eh’ i’ son, come tu vedi, giunto;
Or tu se’ savio, e ’ntendi il caso appunto.
20 Alla sua vita tanto afflitto e gramo
Non fu Rinaldo quanto a questa volta,
E disse sospirando: Che di’, Namo?
Ch’ i’ ho già per dolor la mente stolta.
Quel savio vecchio disse: Noi intendiamo,
S’ i’ ho questa imbasciata ben raccolta ,
Ch’ aiutar ci bisogna Orlando presto ;
Or ti dirò com’ io farei di questo.
21 Ogni altro aiuto, che lo ’mperadore
E Ulivieri, al fin sarebbe vano.
Perchè qui è la forza e ’l grande amore.
Direi che si mandassi a Carlo Mano,
£ che ritorni all’ usato' signore
Per la salute del popol cristiano :
E ciò che tu vorrai contento Ga ,
E voi n’ andiate presto in Pagania.
22 Astolfo sia gonfaloniere eletto,
Chè so che Carlo Ga contento a quello,
Per quel c’ ha fatto a lui e a Ricciardetto,
Gan sia sbandito all’ usato e ribello.
Rinaldo, appena aveva Namo detto.
Che disse : Cosi posto sia il suggello.
Cosi da’ paladin fu posto in sodo;
E scrisse un brieve a Carlo in questo modo.
23 *
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0
II. MORGANTE MAGGIORE.
25 Perchè se’ vecchio, io l’ ho par reverenzia,
£ ’ncrescemi lu sia si rimbambito ,
Che a Gan pur creda e la sua frodolenzia,
Che mille volte o più t’ha già tradito,
Sanza trovar 1’ error suo penitenzia ;
E per suo amor di corte m’ hai sbandito ;
Astolfo e Bicciardetto a mille torti
Volesti uccider pe’ suoi ma’ conforti.
Degno saresti d’ogni contumace;
Ma perchè mio signor fusti già tanto.
Io ti perdono, io fo con teco pace,
E ’l tuo pristino imperio giusto e santo
Ti rendo e la corona, se ti piace,
1 tuoi baroni, e ’l tuo regale ammanto.
La sedia tua, 1’ antico e degno scetro,
Sanza più ricercar del tempo addietro.
25 Sappi eh’ Orlando è preso in Pagania ;
Vieni a Parigi tuo liberamente ;
Ed Ulivieri ed io in compagnia
Soccorrer lo vogliam subitamente:
Astolfo tuo gonfalonier qui fia ,
Quel traditor non vo’ qua per niente ;
Gallerana reina è riservala.
Come fu sempre, e da lutti onorata.
26 La lettera suggella, e manda il messo;
Subito a Carlo Man si rappresenta;
Carlo fu lieto, é in ordine s’è messo;
Gan nel suo petto par eh’ assai duol senta :
Tornò a Parigi, e ’ncontro venne ad esso
Tutta la corte assai di ciò contenta ;
E tulli r abbraccia van lacrimando,
E gran lamento si facea d’ Orlando.
27 Quivi piangeva il marchese Ulivieri,
Nè riveder credea più il suo cognato;
Piangeva Astolfo e ’l valoroso Uggieri,
£ Salamon pareva smemorato;
Piangeva Baldovino e Berlinghieri;
Ma il savio Namo ognuno ha confortato ;
Binaldo con solenne e degno onore
Ripose in sedia il magno imperadore.
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CANTO DECIMOTERZO.
271
2 S Poi misse al sao cavallo il fornimeiilo,
Ed Ulivier con lai volle partire;
Terigi s’ assettava in un momento,
E Ricciardetto disse : Io vo’ venire.
Rinaldo, poi che vuol, ne fu contento;
Ognun pur si voleva profferire ;
Ma ’l prenze non volle altri per compagno.
Cosi si dipartir da Carlo Magno.
29 E fecion sopravveste divisate ;
E cavalcando per la Spagna, un giorno
Il re Marsilio e certe sue brigate
In un bel piano a cavallo scontrorno ;
E con parole saracine ornate,
Come fur presso a lui, lo salutorno.
Disse Marsilio al prenze: Il tuo cavallo
Troppo a me piace, s’a me vuoi donallo.
30 Questo mattin mi venne in visione
Ch’ io guadagnavo si nobil destriere;
Se me lo doni , per lo Iddio Macone
Tu mi trarrai fuor d’ uno stran pensiero.
Cioè di non aver meco quistione:
Però fa gentilezza, cavaliere;
Chè pur s’ altro rimedio a ciò non veggio.
Combatterono, e tu n’ andrai col peggio.
31 Disse Rinaldo: E’ fu già temporale.
Che si fossi il destrier di chi ’l sognava ;
Chi possedeva quella cosa tale.
Qual fusse, per quel sogno gliel lasciava ;
Onde un borghese, non ti dico quale.
Un paio di buoi dormendo immaginava
D’ un suo vicin che gli teneva cari ,
E volevagli pur sanza danari.
32 Anzi voleva pagarlo di sogni ;
Colui dicea : Del mio gli comperai,
E cosi credo eh’ a te far bisogni.
Se non eh’ al fin sanz’ essi te n’ andrai ;
Mentre che par che in tal modo rampogni.
Si ragunò d’intorno gente assai,
E non sapendo solver la quistione,
N’ andorno di concordia a Salamene.
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272
IL UOBGA.NTB MAGGIOHE.
33 E Salamone, perch’era sapieDle,
Con quesU due se n’ andò sopra un ponte,
£ fevvi i buoi pessar subitamente ,
E poi si volse con allegra fronte ;
A quel che gli sognò disse : Pon mente ,
Vedi tutte le lor fattezze pronte
Laggiù nell’ acqua ? e l’ ombra si vedea
Di que’buoi, che colui sognali avea.
3A Disse colui : E! paion proprio i buoi
Ch’io vidi. Salamon rispose il saggio:
Tu che sognasti, to’gli chè son tuoi ;
Colui che li pagò, dè’ aver vantaggio :
Non bisogna sognargli, che son suoi ;
Cosi sta la bilancia di paraggio.
Cosi dich’ io a te, nota. Pagano,
Che ’l mio cavallo arai sognalo invano :
55 Se volessi altro dir, del campo piglia:
Questo deslrier si sia di chi il guadagna.
Il re Marsilio si fe maraviglia ;
Disse : Questo è da bosco e da campagna;
Non ho nessun qui tra la mia famiglia,
Ch’ avessi tanto ardir nè in tutta Spagna ,
Quanto ha costui, e mostra essere uom forte;
Poi gli rispose : Oltre, io ti sfido a morte.
56 Rinaldo non istelle a parlar troppo ;
Le redine girò del palafreno.
Poi ritornava, per dargli d’intoppo;
Facea tremare il ciel, non che ’l terreno.
Perchè Baiardo non pareva zoppo.
Diceva alcun di maraviglia pieno :
Sarebbe questo del cristian concilio,
Che cosi fiero va a trovar Marsilio ?
57 Quando Marsilio vide il cavaliere.
Fra sè diceva : Aiutami, Macone,
Chè poco vai qui contro al suo potere
Allegar Trimegislo o vuoi Platone.
La lancia abbassa, e pungeva il destriere,
A mezzo il petto di Rinaldo pone :
£ benché ’l colpo fossi ostico e crudo,
Ruppesi in {tezzi l’ aste nello scudo.
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CANTO DBCIMUTERZO.
38 Rinaldo alla visiera pose a quello,
E fece fuor balzar tante faville ,
Che (ante mai non ne fe Mongibello;
Are’ quel colpo giltati giù mille :
L’elmo rimbomba, e ’nlronava il cervello
E sanza fare al testo altre postille,
Marsilio rovinò giù dell’arcione,
E fu pur sogno il suo , non visione.
39 E disse: Dimmi, per la tua leanza.
Chi tu se’, cavalier, per cortesia,
Chè mai più vidi ad uom tanta possanza.
Disse Rinaldo : Per la testa mia.
Io tei dirò, perdi’ io non ho dotlanza,
Non guarderò s’io sono in Pagania ;
Sarà quei eh’ esser può, franco Pagano,
Sappi che ’l signor son da Montalbano.
40 Ed alzò la visiera dell’ elmetto.
Per dimostrar che non avea paura ;
Disse il Pagano allor : Per Macometto ,
Ogni suo sforzo in te mostrò natura.
Dicea Rinaldo: E questo è Ricciardetto;
Andiam cercando la nostra ventura ;
Questo è Terigi d’ Orlando scudieri,
E questo è il nostro famoso Ulivieri.
41 Marsilio guarda questi compagnoni;
Disse: Voi siete cosi travisati,
Voi mi pareste quattro ragazzoni;
Non vi conobbi, in modo siete armati :
Ben posson sicuri ir questi campioni;
E’ ci sarà degli altri arreticati,
Che rimarranno a questa rete, stimo:
Dimmi s'io son, Rinaldo, stato il primo.
41’ Disse Rinaldo: Il primo per mia fe’.
Da poi che tu domandi, io ti rispondo;
E stato è un buon principio un tanto re;
Ma qualcun altro ancor sarà il secondo:
Or se tu vuoi il cavai eh’ io non li die'.
Perchè tanto il tuo nome suona al mondo
Io tei darò, magnanima corona;
E poi soggiunse: E l’arme e la persona.
2“;t
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4
IL SfOKGANTE MAGGIORE.
43 Marsilio era aom generoso e discreto;
Mollo gentil rispose, come saggio:
10 non son ragazzin d’ andarli drielo.
S’io lo togliessi, io farei troppo oltraggio,
Però che ’l tuo valor non m’è segreto,
Ch’io n’ho veduto a questa volta il saggio:
11 sogno è ver, eh’ acquistato ho il destriere,
Poi che mel dai ; ma non sognai cadere.
44 E vo’, Rinaldo, una grazia mi faccia.
Che venga meco a starli a Siragozza
Co’ tuo’ compagni; e ciò non ti dispiaccia,
Benché a te nostra terra parrà sozza:
Nè creder eh’ a Parigi si confaccia.
Dove ogni gentilezza si raccozza;
Por qualche giorno ti darò diletto
Quant’io potrò, per lo Dio Macomello.
45 Rinaldo disse: Tanta cortesia
Per nessun modo, re, confonder voglio;
Ma s’io t’ho fatto al campo villania.
Di questo quanto posso or me ne doglio,
E dicono mia colpa e mia pazzia,
Chè cosi far per certo mai non soglio:
Non li conobbi allor pel mio Gesue.
Disse il Pagan: Di ciò non parlar pine :
46 Non ti bisogna di ciò scusa prendere.
Usanza è di mostrar la sua prodezza,
E sempre non si può di pari offendere;
Bench’io cadessi per la tua fierezza,
lo ne volevo in ogni modo scendere.
Rinaldo rise di tal gentilezza,
' E disse: La risposta tua significa
Quanto la tua corona è in sé magnifica.
4~ Rimontò a cavai Marsilio allora.
Cosi Rinaldo, perchè n’era sceso.
Come colui eh’ e’ suoi maggiori onora:
Marsilio per la man poi l’ebhe preso,
E Ulivier volea pigliar ancora;
Ma Ulivier s’ è scusalo e difeso:
E poi che i convenevoli fatti hanno ,
Inverso Siragozza se ne vanno.
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cìnto obcihoterzo.
27»
4S E dismontati al palazzo reale,
Marsilio sempre tenne per la mana
Rinaldo per le scale e per le sale.
La sna figliuola, delta Luciana,
(Ch’ogni altra di bellezza assai prevale,
Fecesi incontro benigna ed umana,
E salutò Marsilio e’ suoi compagni
Con atti onesti e graziosi e magni.
49 Nè prima questa Rinaldo vedea.
Che si senti da uno strai nel core
Esser ferito, e con seco dicea:
Ben m’bai condotto dove vuoi, Amore,
A Siragozza a veder questa Iddea,
Che più che ’l Sol m’ abbaglia di splendore.
E rispondeva al suo gentil saluto
Quel che gli parve che lussi dovuto.
.M) Quivi alcun giorno dimorar conienti ;
Non domandar se Cupido galoppa
Di qua di là con suoi nuovi argomenti ;
E la fanciulla serviva di coppa:
Rinaldo sempre ebbe gli occhi lucenti.
Alcuna volta con essi rinloppa:
Or questo è quel che come zolfo o esca
Il foco par che rinnalzi ed accresca.
61 Mentre che sono in tal consolazione,
Un messaggiero al re Marsilio venne,
E gettasegli in terra ginocchione,
E dice come un gran caso intervenne;
Che morti ha cinquecento o più persone
Un gran cavai co' denti e colle penne.
Ch’era sfrenato, e fu già di Gisberlo,
E parea un demóne in un deferto.
62 Noi savam cinquecento cavalieri.
Diceva il messo, e giunti alla montagna.
Fummo assalili da questo destrieri;
Non si potea fuggir per la campagna;
Missesi in mezzo fra' tuoi cavalieri :
Non fu mai lupo arrabbiato nè cagna.
Che cosi morda, e divori, ed attosche,
Nè anco i calci suoi paion di mosche.
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27fi
IL MOnCANTE MAGGIORE.
53 Io ’I vidi, 0 re Marsilio, rizzar dianzi.
Ed accostarsi a un Pagano a pello,
E poi menar delle zampe dinanzi;
Che pensi tu, che gli dessi un buffetto
Da far cadérgli del capo due schianzi?
E’ gli schiacciò le cervella e l’ elmetto,
E balzò il capo più di dieci braccia:
Pensa co’ piè di drieto s’ egli schiaccia.
54 Se dà in quel muro una coppia di calci,
E’ farà rovinar questo palagio;
Io feci presto mazzo de’ mici salci,
Chè lo star quivi mi parve disagio.
Però che contro a lui poche arme vaici.
Tanto superbo par, bravo e malvagio;
Sanza pietà mi pareva Briusse:
Io mi fuggi’, chè attorno andavon busse.
55 Nè credo che vi sia campato un solo,
E 'I tuo nipote vidi morir io.
Afflitto poveretto con gran duolo.
Quando Marsilio queste cose udio.
Che cosi tristamente tanto stuolo
Vi fussi morto: 0 Macon nostro Iddio,
Dicea piangendo, come lo consenti.
Che cosi sien distrutte le tue genti?
òr. Questi eran pur, Macon, de’ tuoi Pagani,
Che cosi morti son come tu vuoi;
Sarestu mai d’accordo co’ Cristiani?
Ma se in se’, ch’arai tu fatto, poi
Che tutti sarem morti come cani?
Arai fatti morir gli amici tuoi.
Sarai tenuto al fin pur tu crudele.
Poi che fìa spento il popol tuo fedele.
57 Rinaldo vide Luciana bella
Dolersi con parole inzuccherate;
Verso Marsilio in tal modo favella:
Manda con meco delle lue brigate
Un, che m’insegni questa bestia fella;
Non li doler delle cose passale:
Que’che son morti, Dio gli faccia sani;
Vedrai eh’ io 1’ uccidrò colle mie mani.
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CANTO DECUfOTBHZO.
277
òS Tra pazzi e pazzi, e beslie, e bestia fia,
Chè c’ è ben di due gambe beslie ancora;
Forse a qualcuno uscirà la pazzia.
11 re Marsilio consenti allora,
Quantunque fare li par villania,
Chè di Rinaldo suo già s’innamora:
E dettegli alla fine un suo valletto;
E Ulivier volle ire e Ricciardetto.
Volevalo Marsilio accompagnare;
Rinaldo disse: Io non voglio altro meco.
Se non che ancor Terigi volle andare,
Chè sa eh’ egli è suo debito esser seco :
Vedovasi Rinaldo sfavillare.
Come volea colui eh’ è pinlo cieco.
Dicea Marsilio: Io priego il nostro Dio,
Che t’ accompagni , car Rinaldo mio.
co Rinaldo se ne va verso il deserto,
E ’l messaggier mostrò dov’ e’ credea
Che sia il cavai, benché noi sappi certo.
Rinaldo allor di Boiardo scendea:
In questo il gran destrier si fu scoperto.
Che già pel bosco sentiti gli avea:
Ma quel Pagan, come vide il cavallo.
Sopra un gran- corro terminò aspetlallo.
61 Ed anco s’ arrecò su bene in vetta.
. Disse Ulivier: Per Dio, tu mi par pratico;
A questo modo ogni animai s’ aspetta.
Disse il Pagano: Egli è pazzo e lunatico,
E so quel che sa far colla zampetta ;
Questo è colpo di savio e di gramatico:
Saprò me’ dire come il fallo è ilo
Al mio signor; però son qui salilo.
62 Ricciardetto, veggendo il Saracino,
Che come il ghiro s’era inalberalo.
Diceva: Esser vorrebbe un orsacebino.
Che insin costi t’ avessi ritrovato.
Disse il Pagan : Va pure a tuo cammino ;
Il giuoco netto piace in ogni lato;
Io temo il danno e ’l pentirsi da sezzo
Della vergogna, io mi vi sono avvezzo.
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278
IL HORGANTE MAGGIORE.
63 Come Baiardo il cavai bravo vede,
Non r arebbon tenuto cento corde ;
A guisa di battaglia lo richiede,
Corseli addosso, e tempestava e morde;
E 1’ uno e l’ altro si levava in piede;
Parean le voglie lor del pari ingorde:
Chi aniirisce, chi soflfìa, e chi sbuffa ;
E per due ore o più durò la zuffa.
64 Rinaldo un poco si stette a vedere;
Ma poi veggendo che ’l giuoco pur basta,
E che co’ morsi quel bravo destriere
E colle zampe Baiardo suo guasta.
Dispose far un colpo a suo piacere ;
E mentre che Baiardo pur contrasta,
Dette a quell’ altro un pugno tra gli orecchi
Col guanto, tal che non ne vuol parecchi.
65 E.cadde come fussi tramortito;
Baiardo si scostò, eh’ ebbe paura :
Gran pezzo stette il cavallo stordito ,
Poi si riebbe, e tutto s’ assicura :
Rinaldo verso lui presto fu gito ;
Prese la bocca alla mascella dura ,
Missegli un morso ch’aveva recalo,
E quel cavallo umile è diventato.
66 Maravigliossi Terigi e ’l marchese ;
Rinaldo sopra Baiardo montava.
Né per la briglia il cavai bravo prese.
Che come un pecorin drielo gli andava ;
11 Saracin del cerro allora scese,
Ch’ a gran fatica ancor s’ assicurava ,
Tenendo sempre in cagnesco le ciglia ,
E di Rinaldo avea gran maraviglia. ..
67 Per Siragozza fuggiva la gente.
Come Rinaldo fu drento alla porla ;
Ma quel cavai se n’ andava umilmente :
Fu la novella a Marsilio rapporta;
Venne a vedere : e la dama piacente
Di questo palafren già si conforta ;
E domandò con parole leggiadre ,
Che gliei donassi Rinaldo e ’l suo padre.
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CANTO DBCIMOTBBZO.
279
6S Rinaldo, che gli avea donato il core,
Ben poteva il cavai donare a quella:
Trovassi un fornimento al corridore;
Rinaldo addosso gli pose la sella,
E lasciassi trattar dal suo signore,
Come si mugne una vii pecorella:
Poi vi montava, e preso in man la brìglia.
Gli fe far cose che fu maraviglia.
69 Un giorno ancora insieme dimoraro,
Ch’ Amor pur lo tenea legato stretto.
Poi da Marsilion s’ accommiataro ;
Marsilio consentirli fu costretto ,
Quando senti d’ Orlando il caso amaro,
E ciò eh’ aveva gli offerse in effetto:
La damigella sospirò alquanto
Dinanzi al padre, ma poi fe gran pianto.
70 Ed ogni giorno con seco piangea,
Ch’era gin tutta di Rinaldo accesa;
Ventimila baron gli protferea
Dovunque egli volessi a sua difesa ;
£ ringraziata Rinaldo l’avea,
£ nel partir molto il suo cor palesa :
Quando fìa tempo, disse, per lor mando,
E sempre, dama, a te mi raccomando.
71 Passoron tolta la Spagna costoro,
E arrivorno un giorno in un gran bosco;
Gente trovorno eh’ avean gran martora ;
Dicea Rinaldo : Nessun ci conosco.
A sé chiamava un vecchio barbassoro,
Ch’ era tutto turbalo in viso e fosco ;
£ disse: In cortesia di la cagione.
Che voi parete pien d’ afflizione.
72 Rispose il harbassor : Tu lo saprai
Perchè si fanno qui questi lamenti ;
Noi siam d’ una città che tu vedrai
Tosto, che miglia non c’è lunge venti:
Ama si chiama, come intenderai.
Tutti siamo scacciati e malcontenti,
Sanza sperar che nulla ci conforti.
Se non che insieme piangiam mille torti.
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280
IL HORGàNTK MAGGIORE.
73 Nostro 8Ìs;nor si chiama il re Vergante,
Più crudel uom che forse al mondo sia;
Non crede in Cristo, e meno in Trevigante:
Questo ribaldo per sua tirannia
Le nostre fìglie ha tolte tutte quante.
Per isforzarle, e noi cacciati via;
Ed ognidì fa dare aspro martire
A quelle che non voglion consentire.
74 Rinaldo gli dispiacque tal matera.
Partissi, e seguitò la sua giornata;
E lascia il barbassor, che si dispera
Coir altra sente cosi sconsolala :
Alla città s’appressa in sulla sera.
Verso la porta la briglia ha girala,
E disse: Andiamo a veder questo fatto;
Forse che far si potrebbe un bel tratto.
75 Giunti alla terra, ad un oste n’andorno.
Che tutto pien si mostrava d’ affanno;
Della cagion del fallo domandorno;
Costui contò del lor signor lo ’nganno ;
Tanto che lutti si maravigliorno.
Come sofferto sia questo tiranno :
Venne la Cena, e furon onorali,
E’ lor cavalli e’ lor ben governali.
76 Parve a Rinaldo l’ oste un uom da bene,
E ’ncrebbeli, sentendo, una sua flglia
Il re Vergante ha tolto a forza, e tiene;
E diceva: Oste, sare’ maraviglia,
S’ io dessi al re Vergante tante pene,
Ch’ al popol tutto asciugassi le ciglia ?
E cominciava l’ oste a confortare ,
Com’ io dirò nell’ altro mio cantare.
NOTE.
42. folletto. DiminatÌTo di folle;
il quii viene dal latino fatti* (manti-
ce) : « oh tnnnitafea vintoti folli* .
dice il Cniacio. Dm questo si fece il
verbo foUeo, nel aigniScato di inflor
folli* inttar; e per similitudine di
itultu* fio. Il Monoaini però cava que-
sta voce folle dal greco altri
la traggono dal provenzale ; pur tutta-
volta la origine assegnata a cotal voce
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CANTO DECtMOTEBZO.
(la Cuiacio , ammetta anche dal Me-
iiagio, è la più verisimile.
■13. altro che rogna. Se non fa-
.stidio ed incomodo.
51. (emporate. Tempo.
33. da bosco e da campagna. Di-
cesi di chi nulla teme , e ai pone a
(jualaivoglia impresa.
37. Trimcgitlo. Tritmegisto, no- |
ine dato a Mercurio re di Teha in
EgittOj il quale visse a tempo di Mosè.
Istruì gli Egiziani in molte arti e di-
scipline, e però ehhe colai nome, for-
mato delle due voci greche zpti (tre |
volle), e ptyioTs; (grandiasùno). ;
281
39. ad uom. In uom. — dotlan-
za. Paura.
30. ferrica di coppa. Servir di
coppa vale far da coppiere j c per si-
militudine servire ad alcuno puntual-
mente e bene ; il che dicesi anche ser-
vir di coppa e di coltello.
53. due fcAianzi. Chiamati schian-
za quella pelle che ti secca sopra la
carne ulcerala.
54. /eri... mazzo de' mici salci.
Far mazzo dei suoi salci , vale andar
pe’ fatti suoi, badare a sé.
T'I. barbassoro. Uomo autorevo-
le, bacalare.
CAIVTO DECmOQtJARTO.
Vergante fruslator delle donzelle
Resta giù d’ un baleou precipitato
Da Rinaldo, che fa cote. più belle.
Dopo che tutto un regno ha battezzalo.
Un esercito grande è sulle selle
ÀI soccorso d’ Orlando destinato.
Col suo Rinaldo Luciana sciala ,
Ed’ un bel padiglion te lo regala.
1 Padre del cielo, e re dell’ universo,
Sanza il qual non si muove in aria foglia.
Non mi lasciar perduto ire a traverso.
Mentre ch’ancora è pronta la mìa voglia:
Poi che tu m’ hai cantando a verso a verso
('ondollo insino al mezzo della soglia.
Colla tua man mi guida a salvamento
Insino al porto con tranquillo vento.
2 L’oste rispose: Chi la mia vendetta
Facessi , adorerei sempre per santo.
Disse Rinaldo: Domattina aspetta,
£ tutti a riposar ci andiamo intanto;
Come Sa giorno, i destrier nostri assetta.
Vedrai s’ io dico il vero, o s’ io mi vanto.
Cosi Rinaldo se n’ andava a letto,
£ fece, e riuscigli un bel concetto.
24 *
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282
IL HORGANTE MAGGIORE.
3 La manina per tempo fu levato;
1/ oste i cavalli apparecchiati aveva,
E da costor non volle esser pagato,
Ma di sua povertà lor profTereva;
Guata Rinaldo e Ulivieri armato,
E molta ammirazion seco prendeva,
Chè gli pareva ognun fiero e gagliardo,
E Vegliantin vagheggiava e Baiardo.
4 Rinaldo se n’andò verso il palazzo,
Al re montava il baron valoroso:
Era a vederlo lutto il popolazzo:
Quivi sentiva un pianto doloroso
Delle donzelle. Il re superbo e pazzo
Vide costoro, e tutto disdegnoso: .
Chi siete voi, domandava Ulivieri,
Cosi presuntuosi cavalieri ?
5 Rinaldo gli rispose : La risposta
Farò io per costui che tu domandi.
E poi che presso alla sedia s’accosta,
* Disse: Per certo di te fama spandi;
Non so come il ciel facci tanta sosta,
Ch’ a Belzebù giù in bocca non ti mandi;
Della tua tirannia, can traditore.
Dieci leghe lontan mi venne odore.
6 Era la sala piena di Pagani;
Non gli rispose alcun, ch’avieno sdegno,
E divoralo 1’ arvien come cani
Quel signor tristo, d’ ogni morte degno :
Rinaldo seguitò : Colle mie mani
Per gasligarli sol. Vergante, vegno;
Ciriflb sono , e per divino effetto
Mi manda in questa parte Macometto.
7 Adultero, sfacciato, reo, ribaldo.
Crudo tiranno, iniquo, e sceleralo.
Nato di tristo, e di superrhio caldo;
Non può più il ciel patir tanto peccato,
Nel qual tu pure se’ ostinato e saldo.
Lussurioso, porco, svergognalo,
Pollron, gaglioffo, poltroniere e vile,
Degno di star col ciacco nei porcile.
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CANTO DECtHOQl’ARTO.
28 .»
s Dunque tu porti in testa la corona?
Va, mettiti una mitera, ghiottone,
Nimico d’ogni legge giusta e buona.
In odio a Dio, al mondo, alle persone;
Ben verrà la saetta, quando e’ tuona;
Perch’e’non paghi il sabato Macone,
E ’l fuoco eterno rigido e penace.
Lupo affamato, perGdo e rapace.
9 Non pensi tu che in ciel sia più giustizia,
Malfusso, ladro, strupatore e mecco,
Fornicator, uom pien d’ogni malizia,
Buffian, briccone, e sacrilego e becco?
Non potrebbe scusar la tua tristizia
D’una parola sol la voce d’Ecco:
Tener le nobil donne saracine
Vergine e 'ntatte per tue concubine I
10 E batterle ognidì si aspramente!
Ch’io non so a chi pietà non ne venissi,
S’ alcuna pur di lor non li consente,
E come il centro non s’ apre e gli abissi.
Vergante uscito parea della mente.
Ognun tenea a Rinaldo gli occhi fissi,
E dicien molli: Costui vien dal cielo,
Ché ciò che dice , ogni cosa è il Vangelo.
11 Non sapea che si dir Vergante; e tanto
Mulliplicò la furia e la tempesta.
Che Rinaldo lo prese dall’un canto,
E la corona gli strappò di testa,
E tutto gli stracciò il reale ammanto:
Ognuno stava a veder questa festa;
Poi lo portò tra quella gente pazza,
E d’un balcon lo gillò in sulla piazza.
12 Tutti color che l’avevon veduto,
A gran furore sgomberan la sala.
Dicendo: Ua Macon questo è venuto!
Beato a chi polca trovar la scala.
Rinaldo, come savio uom ed astuto.
Che le parole e l’ opere sue insala,
Subito andò dove le damigelle
Avea sentite batter meschinelle.
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IL MORGANTE MAGGIORE.
28 {
<3 E vide eh’ eran dispogliale ancora,
E tulio il dosso vergheggiato avieno.
Partissi, e del palagio usciva fora,
E vide il popol d’ alleerezza pieno,
E come volenlier ciascun l’ onora,
Chè tutti riverenzia gli facieno:
Ed accoslossì ov’era alcun barone;
Poi cominciò questa degna orazione.
t4 Quel vero Dio, che fece prima Adamo,
Poi pel peccato suo volle morire.
Perchè allo ’nferno dannati savamo,
E non si può con ragion contraddire
(Benché alcun Saracin mi fe richiamo
Del vostro re), qui m’ ha fatto venire,
Per liberar non sol le figlie vostre.
Ma perchè a gife a lui la via vi mostre.
15 La qual voi avete per certo smarrita
Per lunghi tempi; e Macon falso e rio
Conoscerete dopo la partita:
Ma il mio Gesù benigno e giusto Dio
Per la sua carità, eh’ è inGnila,
Perch’egli è grazioso e santo e pio.
Alluminar vi manda, e darvi segno
Ch’ al Gn v’ aspetta nel suo eterno regno.
16 Non ha voluto comportar l’oltraggio.
Che vi faceva il signor vostro a torlo;
Questo esser debbe ad ogni savio un saggio
Di sua potenzia, poi ch’io 1’ ho qui morto
Nella presenzia del suo baronaggio:
Da luì sol venne l’ aiuto e ’l conforto.
Lui mi dié forza che cosi facessi,
E fe eh’ ignnn non si contrapponessi.
17 Lui vi spirò, potete intender certo,
Gh’ alla giustizia dar dovessi loco.
Però che troppo l’ aveva sotTerlo;
Ed or, per Irarvi dell’ eterno foco,
Vuol eh’ io vi mostri il. vostro errore aperto.
Nel qual cresciuti siete a poco a poco:
Però tornale tolti al cristianesimo,
t'hè non sì può in ciel ir sanza battesimo.
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CANTO DECIMOQUARTO.
2»ii
18 Finite le parole, il popol (allo
Cominciava a gridare ad una voce:
Sìa benedetto chi il tiranno ha strallo,
Ch’ è stato a’ suoi suggelli tanto atroce;
£ poi che dé’ seguirne un maggior frutto,
Adoriam tutti quel che mori in croce;
Dicci il tuo nome, sol tulli preghiamo,
E poi per le tue man ci battezziamo.
19 Chè poi che morto hai ’l traditor ribaldo,
Vogliam per sempiterna tua memoria
Un simulacro farli d’oro saldo.
Dove sia disegnala questa istoria.
Rispose il prenze a tutti: Io son Rinaldo
Da Montalban, che v’ ho dato vittoria.
Ed or v’ arreco l’ ulivo e la pace
Dal mio Gesù che d’adorar vi piace.
20 Allora il popol cominciò a gridare:
Vìva Rinaldo, e viva il tuo Gesnel
Ognun qui l’ ha sentito ricordare
Già mille volte per lo virtù lue.
E cosi cominciava a battezzare
Rinaldo alcun baron colle man sue;
Ognuno a* piè suoi ginocchìon si getta,
E ’l primo voleva esser per la fretta.
21 In pochi di far tutti battezzati.
L’albergator, che ritenne costoro,
Quanto poteva più gli ha ringraziati.
Questa novella sentì il barbassoro,
E gli altri che Rinaldo avea trovati;
Alla città venien sanza dimoro; <<
E ’l barbassoro avea nome Belante,
£ mollo gaudio avea del re Vergante.
22 Or eh; vedessi quelle damigelle
Venirsi a battezzar divotaroente,
E quanto allegre parevano e belle.
Di lor s’ innamorrebbe certamente:
Elle parien del ciel le prime stelle ;
Le madri, e’ padri, ognun n’era gaudente;
Gran festa si facea per la citlade,
E le castella e l’ altre sue contrade.
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2gfi li. MOHGANTE UAGGIORG.
2 .'S 11 barbassoro della gran foresta
Diceva al prenze: Quanto ti so grado,
Ch’a quel ribaldo rompesti la testa!
Sappi ch’io son di nobii parentado;
Ogni cosa sia tuo eh’ è in mia potestà.
Dicea Rinaldo: Intender mi Oa a grado,
Questa città quanti uomini farebbe
Da portar arme qual si converrebbe.
24 Rispose il barbassoro : Questa terra
Ha sotto sé cinque altre gran cittate;
Centomila Pagan faran da guerra,
Sanza molle castella e le viltate;
10 so che la mia lingua in ciò non erra.
Ma tu potrai veder le schiere armate.
Rinaldo, udendo ciò che quei dicea,
A Gesù Cristo grazie ne rendea.
25 E sletlesi alcun giorno a riposare
Rinaldo c’suoi compagni allegramente;
11 popol lo voleva incoronare.
Ma Rinaldo non volle per niente.
Dicendo: In libertà vi vo’ lasciare.
Il signor vostro è Cristo onnipotente.
Poi, quando un tratto vide tempo ed agio,
Il popol ragunó tutto al palagio.
2G E ragiinato, fece parlamento,
E disse: Or che di voi fidar mi posso,
10 vo’che voi intendiate a compimento.
Per che cagion di Parigi son mosso,
E perch’ io vivo nel cor malcontento
D’ un peso che mi grava insino all’osso:
L’ Amoslantc di Persia ha imprigionato
11 mio cugin eh’ Orlando è nominato.
27 Vorrei che mi facessi compagnia.
Tanto eh’ Orlando mio si riavessi.
Poi che finita fu la diceria,
Fu commesso a Balante che dicessi ,
E che per parte della baronia
Ciò che chiedea Rinaldo gli oQeressi:
Allor Balante ritto si levoe,
E come savio a parlar comincioe.
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• CANTO OECIMOQUARTO. 287
2 S Rinaldo, poi che liberali ci hai
Da Macon, da Vergante, e dallo ’nferno,
Non pensi tu che noi siam tutti ornai
Senopre tuo’ servi e schiavi in sempiterno ?
Ciò che domandi, a tuo piacere arai.
Ed ora e sempre, vivendo in eterno:
Faccisi tosto come vuoi la ’mpresa,
Chè di lai cosa a lutti assai ne pesa.
29 Rinaldo ringraziava tulli quanti,
E poi per tulli i paesi mandava
Subitamente messaggieri e fanti ,
E molla gente tosto s’ ordinava ;
Vennono a corte a Rinaldo davanti.
In men d'un mese vi si raccozzava
Novantamila cavalieri armali,
E tutti in guerra ben disciplinati.
.>0 E poi vi venne due giganti fieri ,
Con diecimila armati in sull’ arcione.
In punto ben di ciò che fa mestieri.
Che rinnegato avien lutti Macone,
E servivon Rinaldo volentieri
L ’ uno e l’ altro gigante o torrione ;
De’ quali aveva l’un nome Cerante,
E l’ altro s’ appellava Liorganle.
51 Costui, che molto amò già il suo signore,
Poi che vide Rinaldo che I’ ha morto.
Non potè far non si turbassi il core,
E disse con Balante : E’ mori a torlo ;
E perchè io fui suo amico e servidore,
Malvolentier quest’oltraggio comporto.
Nè posso far eh’ io non ne pigli sdegno :
Per la mia nuova fe’ con voi non vegno.
32 Disse Rinaldo: E’ sarà forse il vero.
Che meco non verrai, come tu hai detto,
E morto resterai, gigante fiero,
Chè tu non credi in Cristo o in Macomcllo.
Era il gigante superbo e leggiero,
E disse : S’ io li piglio pel ciufTetto,
Io ti farò sentir eh’ io son gigante,
E forse vendicalo Ga Vergante.
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288
IL MORGANTE MAGGIORE.
35 La poca pazienzia s’ accozzoe
Di Rinaldo, e ’l gigante appunto bene :
Rinaldo la sua spada fuor tiroe,
Ed una punta crivellando viene ;
Tanto che in mezzo il petto gliel caccioc,
E riuscì di drielo per le rene :
Non potè Liorgante alzar la mazza,
Che come un pollo morto giù stramazza ;
31 E parve che cadessi una gran torre.
La gente corse a si fatto romore,
E domandava ognun che quivi corre :
Che vuol dir questo? e ’nteso poi il tenore,
Dicevan tutti : E’ non vi si può apporre.
Poi che Vergante amava il traditore,
E dicea che fu a torto il di ammazzato.
Cosi Rinaldo assai fu commendato.
35 Poi col consiglio del savio fiatante
Rinaldo a Siragozza un messo manda
A Luciana famosa e prestante,
E quanto più potea si raccomanda
Che venga presto con sue gente avante,
E di tal cosa romor non ispanda ;
Che si ricordi quel eh’ ella ha promesso.
E in pochi giorni compariva il messo. .
36 E Luciana il vide volentieri,
E disse al padre quel che scrive il prenze ;
Disse Marsilio : Che i tuo’ cavalieri
Tu metta in punto e tutte tue potenze,
Ch’ io arò sempre in tutti i miei pensieri
Rinaldo nostro e sue magniGcenze ;
Troppo mi piacquon 1’ opre sue leggiadre.
E cosi in punto si misson le squadre.
57 Diceva Luciana : lo voglio ancora
Che mi conceda che con'essi vada,
E se per me il tuo sangue non si onora ,
Non mi lasciar mai più portar la spada ;
Ma questa è quella volta che rinfiora.
Disse Marsilio : Fa còme t’ aggrada ,
Pur che si faccia piacere a Rinaldo,
Chè di servirlo son più di te caldo.
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CANTO OECIKOQUARTO. 289
38 Diceva la fanciulla a Balogante :
0 Balugante, io vo’ che meco vegna
Con questa gente eh’ io meno in Levante,
Acciò che sia quest’ opera più degna.
Egli rispose: Bel mio Trivigante
Volentier ne verrò sotto tua insegna.
Cosi fumo ordinali prestamente
Ventimila a cavai di buona gente.
39 Cosi la dama da Marsilione
Si diparti co’ cavalieri armati,
E per insegna nel suo gonfalone
Eron due cori insieme incatenati ;
E portò seco un ricco padiglione.
Del qual saranno assai maravigliati,
Chè non si vide mai simile a quello.
Tanto era lavorato, ricco e bello.
40 E ’n pochi giorni volava la fama
Al prenze, come vien la damigella;
Subitamente molti baron chiama,
E fece i Principal montare in sella,
E cosi incontro n’ andarno alla dama :
Rinaldo, come appariva la stella ,
Dicea : Rinato è Cristo veramente,
Ch’ apparita è la stella in Oriente.
41 Giunse la donna, e ’n terra è dismontala ;
Della qual cosa Rinaldo si duole.
Che la sua gentilezza è superala ;
Dismonta presto, e con destre parole
Si scusa, e |>arle la fanciulla guata.
Come sta fìssa l’ aquila nel sole ;
E dèi pensar che la dama il saluta ,
E eh’ e’ rispose : Tu sia ben venuta.
43 Rimontati a cavai, tutti n’ andorno
Nella città con festa e con onore ;
E poi eh’ al gran palazzo dismontorno,
Disse la dama : 0 mio caro signore,
10 t’ho arrecalo un padiglion adorno, '
11 qual sempre terrai per lo mio amore;
Colle sue man l’ha fatto Luciana,
Contesto d’ oro e seta soriana.
I. 25
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* 21)0 IL HOSGAMTE MAGGIORE.
43 £ fecelo spiegare in sua presenzia.
Quando Rinaldo il padiglion vedea,
Maravigliossi di tanta eccellenzia,
E disse : Certo io non so quale Iddea
Avessi fatta tal magniflcenzia,
Se fussi Palla. E grazia gli rendea,
Dicendo : Per tuo amor tal padiglione
Sempre terrò, chè cosi vuol ragione.
44 Egli era in questo modo divisato :
In sulla sala magna fu disteso,
In quattro parte, ov’ era figurato
Quattro elementi: e ’l primo pare acceso,
Ch’era per modo ad arte lavorato.
Che si sare’ per vero foco inteso,
Pien di faville e raggi fiammeggianti,
Ch’ ognuno abbaglia chi gli sta davanti.
45 Quivi eran certi carbonchi e rubini.
Che campeggiavan ben con quel colore ,
Certi balasci e granati si fini.
Che in ogni parte rendeva splendore:
Quivi eran Cherubini e Serafini,
Come è nel foco dello eterno amore :
Quivi è la salamandra ancor nel fuoco.
Che si godea contenta in festa e ’n giuoco.
46 Nella seconda parte è l’aer poro.
Azzurro tutto, e ’l ciel con ogni stella,
La Luna, e ’l Sole, e Venere, e Mercuro,
E Giove appresso, e Vulcan che martella ;
Saturno, e Marte in aspetto più duro.
Dodici segni, ed ogni cosa bella ,
Che lutto non è tempo a raccontare;
Poi gli uccei sotto si vedean volare.
47 L’ aquila in alto con sue rote andava
Guardando fiso il Sol, com’ ella è avvezza,
Tanto che il Sol le penne gli abbruciava,
E rovinava in mar giù dell’ altezza ;
Quivi di nuove penne s’ adornava,
E riprendeva poi sua giovinezza:
E la nuova fenice, come suole.
Portava il nidò alla casa del sole.
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CANTO DECIHOQUABTO^
4 S Ed avea tolto incenso e mirra prima,
E cassia e nardo, e balsamo, ed amomo,
Ed arsa, e poi rinata in sulla cima.
Quivi è il falcon salvatico, e quel domo,
E l’ un par che i colombi mollo opprima ,
E r altro fa coll’ aghiron giù il tomo.
Quivi è r astor, col fagiano, e ’l lerzuolo.
Che drielo alla pernice studia il volo.
49 Quivi era lo sparvier, quivi la gazza.
Che par che si volessi inalberare,
£ mentre che foggia, forte schiamazza:
Quivi è la lodoletta a volteggiare,
E drieto il suo nimico che l’ ammazza ;
£ lo smeriglio si vede squillare
Di cielo in terra, e la rondine ha innanzi,
£ par che 1’ uno all’altro poco avanzi.
50 Quivi si vede i grù volare a schiera ,
E quel che va dinanzi par chef gridi;
E r oche han fatto alla fila bandiera ,
£ come questi par che 1’ una guidi :
Quivi è la lortolelta a primavera,
E par che in verdi rami non s’annidi.
Più non s’allegri, e più non s’accompagni,
£ sol nell’ acqua torbida si bagni.
• 61 Quivi si cava il pellican del petto
Il sangue, e rende la vita a’ suoi Ggli :
Kvvi lo starno e la starna in sospetto,
Ch’ ogni uccel che la vede non la pigli ;
£ ’l nibbio si vagheggia a suo diletto.
Ad ogni mosca chiudendo gli artigli ;
E gira l’ avottoio, e l’ abuzzago;
£ ’l gheppio mollo del vento par vago.
62 Ed anco il milion si va aggirando,
£ la ghiandaia va facendo festa,
E la gazza marina vien gridando,
E scende in basso con molla tempesta ;
E la culretta la coda menando
Si vede, e rizza 1’ upupa la cresta :
Quivi si pasce di sogni il moscardo ,
Perch’ e’ non è come il fralel gagliardo.
292
IL MOBGANTE MAGGIORE.
65 II picchio v’era, e va volando a scosse,
Che ’l comperò tre lire e poco nn besso;
Perch’ e’ pensò eh’ un pappagallo fosse ,
Mandollo a Corsignan , poi non fu desso ;
Tanto che Siena ha ancor le gote rosse :
Quivi è il rigogoletto, e ’l Geo appresso;
E ’l pappagallo, quel eh’ è da dovero,
E il verde, e ’l rosso, e’I bigio, e’I bianco, e’I nero
.64 Gli stornellelti in frotta se ne vanno,
£ tutti quanti in becco hanno l’ uliva;
Le mulacchie un tumulto in aria fanno :
La passer v’è mabziosa e cattiva,
£ par sol si diletti di far danno ;
E ’l corbo come già dell’- arca usciva :
Evvi il fatappio, ed evvi la cornacchia,
Che garre drieto agli altri uccelli e gracchia.
65 Quivi superbo si mostra il pagone,
E grida come gli occhi in terra abbassa.
Garzelle, e l’anitrella, e ’l grande ocione;
Quivi la quaglia, che pareva lassa.
Volando d’ una in altra regione:
Quivi è r oca marina che ’l mar passa ;
L’anitra bianca, e ’l maragon calarsi,
Parea ebe in giù volassin , per tuffarsi.
66 L’acceggia, la cicogna, e ’l pagoUno,
La gallinella con variale piume,
L’ uccel Santamaria v’ era, e ’l piombino ;
E ’l bianco cigno, che dorme in sul Gume ,
Parea che fussi alla morte vicino.
Però cantassi come è suo costume :
Quivi col gozzo e col gran becco aguzzo
Si vedea l’anitroccolo, e Io struzzo.
67 Baraltole, germani, e farciglioni.
Altri uccei d’ acqua, non saprei dir tanti.
Certi uccelletti che à dice alcioni.
Che fanno al mar sentir lor nidi e canti ;
Altri uccellacci chiamali griccioni:
Lungo sarebbe a cantar tolti quanti.
Che stan per Dumi, per padoli e laghi.
Perchè de’ pesci e dell’acqua son vaghi.
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CANTO DECIHOQDABTO.
293
6$ Il marin lordo, il bottaccio, e ’l sassello,
La merla nera e la merla acquaiola.
Poi la tordella, e ’l frusone, e ’l fanello,
E il lusis;nuol c’ ha si dolce la sola ;
Il zÌ!;olo, il bravieri, e ’l montanello.
Avelia, e capilorza, e sepaiuola,
Pincione, e nitera^no, e pettirosso.
Il raperugiol che mai intender posso.
£9 Quivi era la calandra, e ’l calderino.
Il monaco eh’ è tutto rosso e nero,
E ’l calenzuol doralo, e il lucherino,
E r ortolano, e ’l beccafico vero ;
Insino al re delle siepe piccino.
La cingallegra, il lui, il capinero,
Pispola, codirosso, e codilungo,
E uno uccel che suol beccare il fungo.
60 Rondoni e balestrucci eran per l’ aria;
Poi in altra parte si vedea soletta
La passera |>enso8a e solitaria.
Che sol con seco starsi si diletta,
A tutte r altre nature contraria :
Evvi il cuculio con sua malizietta.
Che mette I’ uova sue drento alla buca
Della sua balia, che è detta curuca.
61 II pipistrello faceva slran volo;
E degli ncoei notturni sbandeggiali
L’allocco, il barbagianni, e l’assiuolo.
Civetta, e gufo, e gli altri sventurati;
Non ne mancava al padiglione un solo.
Di que’ che fur nell’ arca numerati :
Ultimamente v’ è il cameleone.
Benché alcun dice vi fussi il grifone.
62 Yedeasi in mezzo rilucente e bella
Nella sua seilia Giunon coronata ,
E Deiopeia e l’ altre intorno a quella,
E molto dalle ninfe era onorala.
Eoi parea che tentassi procella,
E che picchiassi la porta serrata,
E Noto ed Aquìlon già fuori usciéno,
Ed Orion d’ ogni tempesta pieno.
25 »
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294
a UOBGANTE HAGGIORB.
63 Poi si vedeva Dedalo, che ’I figlio
Avea smarrito, e batleasi la fronte,
Chè non credette al suo savio consiglio ;
Vedesi il carro abbandonar Fetonte,
£ ’l fero scorpio mostrargli l’ artiglio,
£ com’ e’ par che in basso giù dismonte,
£ la terra apre per l’ardor la bocca,
£ Giove il fulminava dalla ròcca.
64 La terza parte è figurata al mare;
Quivi si vede scoprir la balena,
£ f|r talvolta navili aflbndare,
£ dolcemente cantar la sirena.
Che i naviganti ha fatti addormentare :
Il delfin v’è che mostrava la schiena,
£ par eh’ a’ marinai con questo insegni.
Che si provvegghin di salvar lor legni.
65 II marin vecchio fnor dell’ acqua uscia,
£ ’l pesce rondin si vedea volare ,
Ma il pesce tordo cosi non facia :
Yedeasi il cancro l’ostrica ingannare,
£ come il fuscelletto in bocca avia,
£ poi che quella vedeva allargare,
£’ lo metteva nel fesso del guscio,
£ poi v’ entrava a mangiarla per l’ uscio.
66 Raggiata e rombo, occhiata e pesce cane;
La triglia, il ragno, il corvallo e ’l salmone ;
Lo scorpio colle ponte, aspre e villane;
Lignsta e soglia, orala e storione;
£ ’l polpo colle membra cosi strane,
£ ’l muggin colla trota e col carpione;
Gambero, e nicchio, e calcinello, e seppia,
£ sgombero, e morena, e scarza, e cheppia.
67 £ tonni si vedien pigliare a schiere,
£ cornioletti, e lamprede; e sardelle,
£ altri pesci di tante maniere, <
Che dir non puossi con cento favelle.
Per fiumi, e laghi, e diverse peschiere.
Però che son più i pesci che le stelle:
Anguille, e lucci, e tinche, e pesci persi ,
Pensa che quivi polevon vedersi.
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CÀKTO DEClMOQUiHTO.
205
68 E che vi fussi boncio, c barbio, e lasca,
Alefe fìnalmente v’ era scorto,
E come sol dell’ acqua quel si pasca,
E tratto fuor di quella parea morto ; ,
Vedovasi la manna che giù casca,
E ’l pesce per pigliarla stare accorto,
E come il pescator molto s’ aflanni
Con rete ed esca, e con mille altri inganni.
69 Poi si vedea Nettunno col tridente
Guardar con alti ammirativi e scbiG,
Quando prima Argo nel suo regno sente.
Che lo voleva a Colchi guidar TiG ;
Scilla abbaiar si sentia crudelmente,
E i mostri suoi digrignavano i griG :
Vedeasi Teti, e vedovasi Ulisse
Come più là che i segni d’ Ercol gisse.
70 Cimoto e Trilon placar la tempesta.
Glauco poi si vedeva ondeggiare,
Esaco atOitto con molla molesta
Cercando Esperia ancor soli’ acqua andare ;
Talvolta Galatea fuor Irar la lesta
Che fe già Polifemo innamorare :
Notavan per lo mar con ambe mane.
Converse in ninfe, le nave troiane.
71 Poi si vedeva nave in quanlitàte
Gir sopra l’acqua, e molli legni strani,
Balenier, grippi e galeazze armate,
E briganti n, caro velie e marrani.
Liuti, SiTetlie, gonde spalmale;
E sopra foste menarsi le mani ;
Battelli, e paliscarmi, e schiG, e barche
D’ uomini e merce e varie cose cacche.
72 L’ ultima parte toccava alla terra ;
Quivi si vede tutte l’erbe e piante,
E come il globo si ristringe e serra,
E le città famose tatte quante,
E gli animali, e come ciascun erra
Chi qua chi là per Ponente e Levante,
Per Mezzogiorno, e chi per Tramontana,
Ogni fera domestica e silvana.
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296
IL HOnGANTE MAGGIORE.
73 II liofanle parca molto grande,
Calloso e nero c dinanzi d’ un pezzo,
E come quegli orecchi larghi spande,
E stende il grifo lungo, ch’egli ha vezzo
Pigliar con esso tutte le vivande.
E noi potea toccar se non un gliezzo ;
Fuor della bocca gli uscivan due zanne,
Ch’eron d’avorio, e lunghe ben sei spanne.
7i Evvi il lionc , e ’l dippo gli va drielo,
Evvi il cavai famoso sanza freno,
E l’asinelio e ’l bue si mansueto,
E ’l mul che tutto par di vizj pieno;
Vedovasi il caslor molto discreto.
Che de’ suoi danni eletto aveva il meno,
E strappasi le membra genitale,
Veggendo il cacciator, per manco male.
76 II leopardo pareva sdegnato,
Perch’ e’ non prese in tre salti la preda ;
E ’l liocorno è in srembo addormentato
D’una fanciulla, c par ch’egli conceda
Esser da questa tocco e pettinato;
Ma non si fidi all’acqua, e non gli creda
•Se non vi mette il corno prima drento,
E se quel suda sta a vedere attento.
76 Tutto bizzarro e pien di furia l’orso;
E ’l lupo fuor del bosco svergognalo.
Gridalo dalla nenie e da’ can morso;
E ’l porco che nel fango è imbrodolalo :
Quivi era il cavriunl che molto ha corso,
E poi s’ è posto a ber lutto affannato ;
E ’l cervio, che ’l paslor che canta aspetta ,
InGn che l’ altro intanto lo saetta.
77 E ’l bufoi che ne va preso pel naso,
E la capretta, c l’umil pecorella,
Ch’ avea le pop[>e munte e ’l dosso raso ;
La lepre paurosa e meschinella
Par che si fugga, temendo ogni caso:
Quivi era il dromedario, e la cammella.
Che con lo scrigno mansueta e doma
Lasciava ginocchion porsi la soma.
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CANTO DBCIHOQUARTO.
297
78 La volpe maliziosa era a vedere,
E ’l can pareva fedele e leale ;
Evvi il coniglio, e scherza a sao piacere;
' Molto sentacchio pareva il cinghiale ;
Poi si vedeva la damma e ’l cerviere.
Che drieio al monte scorgea l’ animale ;
Quivi era il tasso porco e ’l tasso cane,
Che si dormien per le lor buche o tane.
79 E lo spinoso , e l’ istrice pennuto,
E sopra il bucolin del topo il gatto
Con molta pazienzia, come astuto.
Tanto che nello riuscissi il tratto:
Bevero, e ’l ghir sonnolente e perduto;
E puzzola, e faìna, e lo scoialto:
Evvi la lontra, e va cercando il pesce.
Ed or soli’ acqua ed or sopra riesce.
so Gallo mammon, bertuccia, e babbuino.
Muso, camoscio, moscado, e zibbetto.
La donnoletta , e ’l pulito ermellino.
Che parea lutto bianco e puro e nello ;
La martora sì sta col zibellino;
Eravi il vaio, e stavasi soletto;
E molto bello e candido il latlizio ;
£ altre fiere poi , piene di vizio.
81 La lonza maculata, e la pantera,
E ’l drago ch’avea morto il liofanle,
E nel cadérgli addosso quella fera
Aveva ucciso lui, come ignorante.
Che del futuro accorto già non s’ era :
Evvi il serpente superbo, arrogante.
Che fiammeggiava fuoco per la bocca,
£ col suo fiato attosca ciò che tocca.
82 E ’l coccodrillo avea l’ nom prima morto ,
Poi lo piangeva, pien d’ inganni e froda ;
£ ’l tir eh’ avea lo ’ncanlalore scorto,
Acciò che le parole sue non oda.
Aveva l’uno orecchio in terra porto,
E l’ altro s’ ha turate colla coda :
Poi si vedea col fero sguardo e fischio
Uccider chi il guardava il basalischio.
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298
IL HORGANTE MAGGIORE.
83 Con sette capi l’idra, e la cerastra,
La vipera scoppiar nel partorire;
La serpe si vedea prudente e mastra
Tra sasso e sasso della scoglia uscire ; **
L’ aspido sordo, freddo piu che lastra.
Che colla coda voleva ferire;
La biscia, la cicigna, e poi il ramarro,
£ molt’ altri serpenti eh’ io non narro.
84 lenna vediesi delia sepoltura
Cavare i morti rigida e hroce.
La qual si dif e , che v’ ha posto cura ,
Ch’ ella sa contraffar 1’ umana voce ;
La cientro colla faccia orrida e scora,
£ iacul tanto nel corso veloce ,
£ la farea crudel che per Libia erra :
L’ ultima cosa è la talpa sotterra.
83 Poi si vedeva andar pel mondo errando
Ceres dolente, misera e meschina,
£ in ogni parte venia domandando,
S’ alcun veduto avessi Proserpina;
Dicendo : Io 1’ ho perduta, e non so quando.
£ la fanciulla bella e peregrina
Vedevasi di rose e violette
Contesser vaghe e gentil grillandette ;
86 Poi si vedea Pluton , che la rapia.
£ cosi stava il padiglione adorno;
I carbonchi e le gemme, eh’ egli avia,^
Facean d’ oscura notte parer giorno ,
Tal che si bel mai piu vide Soria :
Trecento passi o più girava intorno.
Le corde aveva e gli altri fornimenti
Di seta e d’ oro, e più che ’l Sol lucenti.
•
87 Non si potea saziar di mirar Gso
Rinaldo il padiglion; poi disse: Certo
Questo fe Luciana in paradiso.
Non fu già Filomena in un deserto :
< Nè mai sarà il mio cor da lei diviso,
£ so che per me stesso ciò non merlo ;
Ma minor dono e di manco eccellenzia
Non si conviene a tua magnificenzia.
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CANTO DEGIUOQCAITO.
299
sg Questo sempre terrò per lo tuo amore,
Questo (errò sopra ogni cosa degno,
Questo terrò con singolare onore.
Questo terrò di tue virtù per segno ;
Questo terrò ch’albergherà il mio core.
Questo terrò , perchè del tuo sia il pegno ;
Questo terrò vivendo in sempiterno.
Questo terrò poi in cielo o nello inferno.
89 Disse la dama : Ascolta quel eh’ io dico ;
10 ti vorrei poter donare il sole,
E non sare’ bastante a tanto amico ;
11 tuo cor generoso, come suole.
Si mostra pur magnalmo al modo antico.
Ma intender chi l’ha fatto, il ver si vuole:
S’ io dissi Luciana, io presi errore;
Colle sue proprie man 1’ ha fatto Amore.
90 Or qual sare’ quel cuor qui d’ adamante.
Di porfìro o diaspro o altra petra,
Che non s’aprissi, o mutassi sembiante?
E’ traboccò giù 1’ arco e la faretra ,
E le saette d’ Amor tutte quante.
Volea pur dir, ma la voce s’arretra ,
Rinaldo qualche cosa alla donzella,
Ma non potè, chè manca la favella.
91 Ben s’accorse colei, che era pur saggia,
Che per soperchio amor non rispondessi ;
E disse: Sare’ io tanto selvaggia,
Ch’ a cosi degno amante non piacessi.
Perchè mai tempo e luogo e modo accaggia?
E qual sare’ colei che noi facessi.
Salvando sempre e l’onore e la fama?
E ’ngrato è quel che non ama chi l’ ama.
92 Rinaldo ringraziò pur finalmente
Delle parole grate eh’ avea dette
Ultimamente la donna piacente,
Bench’ egli avessi al cor mille saette.
Fu commendato da tutta la gente
Il padiglione, e ’n camera si mette;
E cominciossi a trattar molte cose,
Che fien nell’ altro dir maravigliose.
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300
IL MOBGANTE MAGGIORE.
NOTE.
S. facci tanta sotta. Inaugi co-
tanto. ,
mitera. Quel berrettone di to-
(jlio che ponevasi anticamente in ttóta
a’ condannati olla frusta, asino, o ber-
lina. — penne*. Che dii pena.
9. Ualfutto. Il Vocabolario non
ha questa voce. Credo aia formata,
por ischério, da malo o fuso, qua«
dicesse malvagio fuso, appropriato ad
nomo per la sua struttura che ha una
certa similitudine con quell’ istrumento
lungo e diritto, e alquanto corpacciuto
nel meno, che si chiama fuso ; e fuso
si dice similmente del fusto di una
colonna, o simile cosa. — mecca. Adul-
tero, dal latino moechut. — Ecco.
Eco, ninfa figliuola dell’ aria e della
terra. Avendo imprudentemente spar-
lato di Giunone , fu da quella obbli-
gata a non dover se non ripetere le ul-
time sillabe di quei che la interroga-
vano. Spregiata da Narciso, si ritrasse
ad abitar per selve e montagne, finché
per lungo piangere disseccata , rimase
conversa in rupe. Vedi Metamorfosi,
Libro ni. .
•12. insala. Acconcia con buon
modo e accortamente.
37. rinfiora. Rifiorisce: intendi
1’ onore del sangue, cioè della schiatta
di Marsilio.
41 . e parte. E insiememente, nel
medesimo tempo.
44. Quattro elementi. Credevasi
in antico che gli elementì di tutte le
cose fossero quattro; aria, acqua, ter-
ra e fuoco.
45. salamandra. Specie di lucer-
tola simile al ramarro, penata di nero
e di giallo, alla quale è stata dagli an-
tichi attribuita la proprietà di vivere
in mezzo alle fiamme.
53. tesso. Sciocco.
62. Deiopeia. Una delle quattor-
dici Ninfe che accompagnavano Giuno-
ne. Fu da questa dea promessa in mo-
glie à Eolo, se egli avesse distrutta la
flotta d’ Enea. (Virgilio, Enetde , Li-
brai.) Era figliuola di Nereo e di Don.
64. Ildelfin v‘ è ec. Imitazione
dantesca :
Come i delfini, qnsndo fune segno,
A’ mtrinir oin r nreo della icliiena
Olle s’ irgoiuenlio di cam^y
69. Quoudo prima Argo. La
uave degli Argonauti, nocchiero della
quale era Tifi.
70. Cimato. Cimotoe figliuola
di Nereo e di Dori. Il suo nome si-
gnifica corso de’ flutti. — • Glauco.
Divinità marittima; in origine pesca-
tore di Antedone nella Reozia. Età.
co. Figliuolo di Priamo e di Aresbe
o della ninfa Aliiotoe. Innamorato
della ninfa Espera, fuggi di 1-roja con
essa , la quale easeadogli morta del
morso di un serpente , fu preso da
tanto dolore che gittossi nel mare ; ma
Teti , ratteoendolo a mezzo della ca-
dota, lo trasformò in uno smergo.
Dotto nell’ interpetrare i sogni, allor-
ché Ecuba sua matrigna essendo gra-
vida di Paride sognò di partorire una
fiaccola che tutta Troja incendiava , le
predisse come quel faglinolo che do-
veva nascer di lei , avrebbe arrecalo
1’ eccidio a quella città. Ovidio , Me-
tamorfosi, Libro XI.
73. ghezso. Ghezzo significa pro-
priamente fiero, da niger , nigri, tvi-
griciut, negriciut, negrezza, grezzo,
ghezzo. Cosi il Menagio. S’ adopera
anche, come in questo luogo, per in-
dicare i popoli detti Mori, de quali si
dice anche i Negri, i Mori.
74. federasi il cattar ec. E
usanza di questo animale che quando
si vede inseguito dal cacciatore , si
strappa coi denti i testicoli, quasi sa-
pesse che solo per ottener 1’ umore in
essi racchiuso (che è il muschio) il cac-
ciator lo persegue.
75. È’I liocorno. Unicorno ; ani-
male che ha un sol corno e dritto in
fronte. Credevasi che ei si prendesse
assai diletto delle donzelle vergini , c
clic nelle braccia di quelle si addor-
mentasse, dove agevolmente i caccia-
tori COSI addormentato pigliavanlo.
Vedi Plinio fi altri, e le Opere diverse
di Francesco Sacchetti. I Greci lo chia-
mavano con cgual nome y.ov6xspo>i.
89. magnalmo. Magnanimo.
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CAUTTO DKCmOQUUVTO.
nmnjìsaxarKtì»
Rinaldo h in Parria con armata achiera ,
E disfida a battaglia l’Amostante:
Orlando da quel career, dov’egli era,
È tratto allur da Chiariella amante :
Egli e Rinaldo dal giamo alla aera ,
Si dan delle picchiate tante e tante;
E di Copardo per un tradimento
Presa è la terra , e l' Amostanto è spento.
1 Benigna maestà, vita superna,
Ch’allumi questo, e quell’ altro ernispero.
Principio d’ ogni co-sa santa eterna ,
Donami grazia che nel giusto impero
A’ tuoi pie’ santi l’ anima discerna.
Tanto eh’ io riconosca il falso e ’l vero,
E ’nsino al fine il mio debole ingegno.
Ti priego, aiuti, se ’l mio priego è degno.
2 Fecion consiglio Rinaldo e Balante,
Che si movessi la gente cristiana,
E che s’ andassi a trovar 1’ Amostante ;
E cosi confermava Luciana :
Fu la novella in Persia in poco stante.
Che ne veniva gran turba pagana ;
E r Amostante ancor non sapea scorto
Che gente fossi, e che Vergante è morto.
3 Partissi dunque centoventimila
Di gente valorosa e fiera e magna,
Per quel che l’ autor nostro compila,
Con que’ che Luciana avea di Spagna :
Nè creder ch’egli andassino alla fila;
Coprieno i monti, il piano e la campagna.
Tanto che sono in Persia capitati,
E presso alla città tutti accampati.
56
302
IL HOBGAME MAGGIORE.
4 Rinaldo, che di e noUc non soggiorna
Per riavere il suo cugin perfetto,
Poi ch’attendata fu la gente adorna.
All’ Amostante mandò Ricciardetto,
Dicendo: A lui va presto, e qui ritorna
Colla risposta, e conchiudi in elTetto,
Ch’ a corpo a corpo o pur campai battaglia
Subito fuor ne venghi alla schermaglia.
6 E Ricciardello andò, come e’ gl’ impose,
E fece all’ Amostante la ’mbasciata;
Il qual molto superbo a lui rispose,
Che non sa chi si sia questa brigata,
E molla maraviglia ha di tal cose;
Che la corona sua sempre onorala
Combatter non è usa mai in Levante
Con qualche vile arcailo o ammirante;
6 Che Iruovì uom simigliante a sua corona,
E poi verrà di fuor comunch’ e’ vuole
A corpo a corpo a provar sua persona ;
Ma di campai battaglia assai si duole
Senza giusta cagion lecita o buona ;
E poi soggiunse ancor queste parole :
Se tu non fussi messaggier mandato ,
Colle mie man so eh’ io t’ arei impiccalo.
7 Non lascio per amor, ma per vergogna;
A quel che t’ ba mandato fa risposta ;
Domandai s’ egli è desto, o pur se sogna,
Chè molto pazza fu la sua proposta:
Nè d’aspettar qui altro ti bisogna;
Questo ti basti, e vattene a tua posta.
Ma Ricciardetto non fu paziente,
E cosi disse disdegnosamente:
8 Se conoscessi ben cbi a te mi manda.
Noi chiameresti arcaito per certo,
E pazza non terresti sua domanda ;
Ma si conosce il tuo vii core aperto :
Sappi che stu se’ re da questa banda,
Quand’ io t’avessi pur molto sofferto,
0 Amostante vii, superbo e sciocco.
Il mio signore acquistato ha il Murrocco ;
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Cìnto DSCtMOQDlNTO. ‘
303
9 E di Carrara e d’ Ama è coronalo ,
E molli altri reami tiene al mondo :
E non sarebbe jUlarle biasimalo
Comballer con tal nom si rubicondo.
1/ Amostanle, veggendol furialo,
Rispose: In altro modo li ris|>ondo;
Ritorna al tuo signor che ti mandoe,
E di eh’ u;i gran baron gli manderoe.
10 Ricciardetto tornò nel cam|>o tosto,
E disse come il fatto era seguito,
E quel che I’ Amostante gli ha risposto.
Lasciam coslor posarsi un poco al lito,
Chè ’l messo ha fallo quel che gli fu imposto ;
Torniamo all’ Amostante sbigottito,
Che non sapea che farsi, e sta sospeso,
E di tal caso avea nel cuor gran peso.
11 Yeggendol cosi atSillo Chiariella
Diceva: lo ci conosco un buon rimedio;
Tu sai che ’l miglior nom che monti in sella
.Si dice eh’ è Orlando ; ond’ io più a tedio
Non li terrò, diceva la donzella.
Poi che tu se’ condotto a questo assedio ;
Sappi che quel che tu tieni in prigione,
li conte Orlando è, Ggiiuol di Miione.
12 £ credo che farà sol per mio amore
Ciò eh’ io vorrò, chè cosi m’ ha promesso
Più e più volte, eh’ io gli ho fatto onore
Sempre dal di che in carcere fu messo.
Subito crebbe all’ Amostante il core,
E disse : Può Macon far che sia desso :
Troppo mi piace tu l’ abbi onoralo,
Ché ’l ciel per nostro ben l’ ha riservato.
13 Ma to’ che mi prometta ritornarsi ,
Finita la battaglia, poi in prigione,
Ché ’l gran Soldan potre’ meco adirarsi,
Chè sai eh’ io ’l presi a sua contemplazione :
E qualche modo poi potre’ trovarsi ■
Per questo mezzo alla sua salvazione.
Chiariella ad Orlando n’andò presto,
E d’ ogni cosa gli chiosava il testo.
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304
IL HORGiNTE MAGGIORE.
14 §e (n volessi per mio amore, Orlando,
Combatter con costui che vuol battaglia,
Questo servigio io lo verrò scultando
Nel cor per sempre, se Macon mi vaglia ;
Io te ne priego, io mi ti raccomando.
Un destrier ti darò coperto a maglia.
Rispose Orlando : Sia quel che ti piace;
Meglio è morir che stare in contumace.
Ah, disse Chiariella, è questo quello
Ch’ io t’ ho promesso mille volte e mille ?
Tu m’ hai passato il cor con un coltello:
Io verrò, dico, queste porte a aprille.
Come a te fìa il piacer, signor mio bello;
Ma sol, per ricoprir molte faville,
Carlo aspettavo che di qua passassi.
Acciò che più sicuro il fatto andassi.
^6 Non ti curar prometter ritornarti
Nella prigion, poi che ’l mio padre vuole,
Ch’ io verrò, per Macone, a liberarti.
Prima che molti di s’ asconda il sole ;
10 vo’ il destrier e 1’ arme apparecchiarti.
Cosi furon finite le parole,
E di prigione Orlando è liberato,
E innanzi all’ Amostante appresentalo.
17 L’ Amostante l’ abbraccia umilemente,
E quanto può del suo fallir si scusa,
E se gli ha fatto olirazgio, che si pente;
11 gran Soldan dì ciò ne ’ncolpa e accusa ;
E che per far la pace il fé vilmente.
Come per suo miglior talvolta s’ usa ,
E lecito operare era ogni ingegno
E tradimento, per salvar sé e ’l regno.
18 Orlando, come savio, fu contento,
E disse : Per amor della tua figlia
Farò sol quel che ti fia in piacimento,
Chè cosi Chiariella mi consiglia ;
Chè so che sanza lei morivo a stento,
E eh’ io sia vivo,- mi par maraviglia.
Armossi tutto innanzi al re pagano,
E Chiariella l’ armò di sua mano.
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CANTO DECIMUQUINTO.
SOS
19 Come fiM armalo, saltò in sul destrieri,
E Chiariella gli fe compagnia,
Armata con trecento cavalieri :
Cosi dall’ Amostanle si pania.
Verso dell’ oste pigliava il sentieri.
Come Rinaldo apparir lo vedia.
Che slava attento armato al padiglione,
Subitamente montava in arcione.
20 E Luciana anche lui avea armato,
E datogli il destricr che gli donoe
A Siragozza, e poi l’ha accompagnalo,
E molli cavalier seco menoc ;
Adunque il giuoco è molto pareggiato:
E cosi inverso Orlando se n’ andoe
Rinaldo, e salutò cortesemente,
E la risposta fu similemente.
21 Ma r uno e l’altro quanto può s’ ingegna
Non essere alla voce conósciuto.
Acciò eh’ al suo disegno ognun pervegna ;
Dicea Rinaldo dopo il suo saluto :
Io credo, cavalier, eh’ al campo vegna.
Per far coll’arme in man quel eh’ è dovuto;
Piglia del campo, ognun mostri sua forza.
E volson r uno a poggia, e l’ altro a orza.
22 Orlando volse con tanta destrezza.
Nel dipartirsi, al suo cavai la briglia.
Che non si vide mai tal ecnlilezza;
E Luciana atlissava le ciglia,
Parvegli un atto di molla prodezza ;
Ma Chiariella con seco bisbiglia:
Questo è pur quel che ’l mondo grida certo
Nell’ arme tanto valoroso e sperlo.
2 ) Rivoltava il deslrier Rinaldo prima;
Comincia al modo usato a furiare :
Orlando che sia vólto anco si stima.
Subito in drieto lo venne a trovare ;
Ma non potre’ qui dir prosa nè rima.
Qual sia il valor eh’ ognuno usa mostrare:
Se Annibai parea l’un, l’altro è Marcello;
Se r un volava , e l’ altro era un uccello.
26 *
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306
li. MOBGANTE UAGGIOBE.
24 E si vedea sol polvere e faville.
Non credo eh’ a veder fussi più degno
Alla cillà famosa Ettorre e Achille:
Ognun di grande ardir mostrava segno :
Ma che bisogna far (ante postille,
0 dar [>er fede a chi noi crede il pegno ?
Non son costor de’ Paladin di Francia
1 miglior cavalier che portin lancia?
25 Le lance si spezzorno parimente
Sopra gli scudi, e’ destrier via passorno.
Come folgore va mollo fervente;
Poi colle spade a ferirsi tornorno ;
Or quivi s’ accostò tutta la gente ,
Quivi la zuffa insieme rappiccorno.
Era venuto a vedere il gigante
Con Luciana, chiamalo Corante.
26 E stava in piè, come un pilastro saldo,
A veder di costor la gran tempesta:
E Luciana avea messo a Rinaldo
Indosso una leggiadra sopravvesta :
Orlando, eh’ era insuperbito e caldo
Con Durlindana avea stampata questa ;
E Luciana si doleva a morte.
Dicendo: Mai non vidi uom tanto forte.
27 Egli cran 1’ uno e l’ altro si infiammati
Rinaldo e ’l conte Orlando, che l’un l’altro
Non iscorgea. Inni’ erano inGammati;
Nè si vedea vantaggio all’ uno o 1’ altro :
Ferivansi co’ brandi si inGammati,
Che nel colpirsi dicea l’ uno all’ altro,
Aiùfati da questo, can malfusso ;
E detto questo, si sentiva il busso.
2S Rinaldo dette un colpo al conte Orlando
Sopra il cimier, che gliel fece sentire
Frusberla, che ne venne giù Gschiando ;
Non ebbe alla sua vita un tal martire ;
E ’nsino in sulla groppa vien piegando,
E disse: 0 Dio, non mi lasciar morire;
Aiutami tu, Vergin benedetta ;
E ’l me’ che può nell’ arme si rassetta.
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CANTO DEGIHOQCINTO.
307
H9 E trasse con tant' ira Durlindana
Al prenze, che, lo giunse in sull’ elmollo,
Il qual sonò che parve una campana,
E con fatica alla ()Orco8sa ha retto ;
Ed ogni cosa vide Luciana ,
Tanto ch’eli’ ebbe del colpo sospetto,
Chè ’nsino al collo del destrier piegassi
ilinaldo, tal eh’ a gran pena rizzossi.
óo Non arebhe però voluti tre
Ch’ uscito sare’ fuor del seminalo :
Pur si riebbe; e ritornava in sé,
E ’l brando i crini al cavallo ha trovato;
Sicché due parte del collo gli fc,
E ’nsieme con Rinaldo è rovinalo :
Gridò Rinaldo al conte : Traditore,
Tu r uccidesti per viltà di core.
31 Rispose Orlando : Traditore o vile
Non fu’ mai reputalo alla mia vita.
Ma sempre in verità baron gentile;
Or se mi venne la mazza fallila,
£’ me ne ’ncresce, e però [>arlo umile:
Ma innanzi che da me facci partita.
Io li farò disdir quel che tu hai dello.
E poi saltò del suo cavai di netto.
33 E cominciorno più aspra battaglia.
Che si vedessi mai Ira due baroni :
Lo scudo in pezzi I’ uno all’ altro taglia :
Non cavaiìer parieno, anzi dragoni;
E benché regga la piastra e la maglia,
Pc’ colpi spesso cadean ginocchioni;
E r uno e I’ altro sotTiava e sbutTava ,
Com’ un lione o altra fera brava.
35 Dannosi punte, dannosi fendenti.
Dannosi siramàzzon, danno rovesci;
Fannosi batter drenlo ali’ elmo i denti.
Frugano in modo da sbucare i pesci
Alcuna ^olla co’ brandi taglienti.
Acciò che meglio il disegno riesci ;
Raddoppia il colpo I’ uno all’altro, e piomba,
E l’aria e ’l cielo e la terra rimbomba.
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308
IL MORGANTE MAGGIORE.
34 Rinaldo nn trailo Frusberla riserra,
Per dare al conte Orlando in sulla testa ;
Orlando si scostò, donde il brando erra,
£ cadde in basso con tanta tempesta.
Che si ficcò più d’ un braccio sotterra :
Pensa se fallo gli arebbe la festa,
E se fu grande il furore e la rabbia,
Ch’appella par che la spada riabbia.
55 Orlando allor se gli scagliava addosso,
E grida ; Or polre’ io, come tu vedi.
Tagliarli colla spada inaino all’ osso ;
Poi che lu ha’ confitto il brando a’ piedi :
Ma basta che tu intenda sol eh’ io posso,
Ch’ io non son Iradilor, come tu credi.
Disse Rinaldo : Ogni ragion hai tue,
£ che sia Iraditor mai dirò piue.
36 Era già sera, e 1 Sol verso la Spagna
Nell’ocean luQava i suoi crin d’oro,
£ Chiariella graziosa e magna
Benignamente parlava a costoro:
Perchè e’ si fa già bruna ogni campagna.
Ponete fine a si fallo marloro ;
E per mio amor, cosi vo’ che si segua
Che venti di facciate insieme Iriegua.
37 E l’ uno e l’ altro rimase contento.
Diceva Chiariella: Al mio parere.
Non vidi mai più a uom tanto ardimento.
Nè mai più penso a’ miei giorni vedere ;
lo triemo tutta, quando io mi rammento
De’ colpi fatti e del vostro potere :
E perchè tanta virtù si conservi.
Ho chiesto Iriegua, e vo che ognun l’osservi.
38 Rinaldo si tornò col suo Balante
Al padiglione, e la sua Luciana
Gli trasse l’arme, ch’avea messe avanle.
Orlando torna alla città pagana :
E Chiariella disse aU’Amoslante,
Che gli pareva oltre ogni cosa umana
Quel eh’ avea fallo in sua presenzia Orlando,
Dicendo: Quanto so, tei raccomando.
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CANTO DBCIMOQUINTO.
309
59 Orlando volle in prigion ritornarsi,
E rende Durlindana e Tarmadura,
£ sla con Chiariella a ragionarsi.
Or ritorniamo al campo alla piannra :
Garante 1’ altro giorno fece armarsi ,
Dicendo ; Io intendo provar mia ventura ;
Ed accostassi alle mura alla terra,
E mandò a dir che cercava di guerra.
40 Aveva cinquecento scelti quello
De’ miglior ch’egli avessi nel suo campo;
Era montato in so ’n un suo morello
Nato d’ altana, e menava gran vampo.
Chiamando l’ Amostante tristo e fello.
Dicendo: Contro me non arai scampo.
Nè triegua, o pace, o patti, nè concordia,
Ch’ nom non se’ degno di misericordia.
41 Erano usciti già certi Pagani
Della città col gigante alia mischia.
Ma tutti gli straziava come cani;
A qual le spalle, a chi il capo cidcischia.
Colpi menando si aspri e villani.
Che per paura nessun più s’ arrischia
A dieci braccia accostarsi alla mazza;
£ bisognava con si fatta razza.
42 Ghiarieila senti ct)p ’l Saracino
A molti il capo ha schiacciato com’uova,
£ fa fuggire il suo popol meschino ;
Subito Orlando alla prigion ritniova,
£ dice : A questa volta, paladino,
Aiutami, poi ch’altro non mi giova;
Sappi ch’egli è comparito un gigante,
Ch’ ammazza ognun che se gli para avanle.
43 A te ricorro come mio refugio.
Che non mi lasci in questi casi stremi;
E’ debbe avere un poco il cervel bugio,
Ch’ ognun minaccia, e ’l ciel non par che temi;
E’ ti convien soccorrer sanza indugio,
Chè lutto il popol nostro par che tremi,
E per paura ognun tornato è drento,
Chè del bastone hanno avuto spavento.
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310
IL nOBGANTE UAGGIORE.
44 E’ n’ ha già baslonali centinaia,
E trita lor le carni, i nervi e I’ ossa.
Rispose Orlando : Sempre ove a te paia
La mia persona, Chiariella, è mossa ;
E so, che se m’aspetta alla callaia.
Vedrai che la tua gente fìa riscossa :
Fecesi l’ arme trovare e ’l cavallo,
E Chiariella sua sol volle armallo :
45 E fece armare alquanti cavalieri :
Orlando disse volea poca gente ;
Che lasci col gigante a lui i pensieri.
Annessi Chiariella incontanente,
E con Orlando montava a destrieri.
Anzi su vi saltò molto attamente;
E ’l suo fratei, eh’ era ardito e gagliardo.
N’andò con lei, ch’avca nome Copardo.
46 Era il gigante alla porta a aspettare ;
Vide costoro, e innanzi si facea;
Ma Chiariella, che ’l vide accostare :
Io vo’ con esso provarmi, dicea.
Se questa grazia , Orlando , mi vuoi fare.
Orlando eh’ è contento rispondea.
Allor la dama va inverso il Pagano,
Che se n’ avvide, e prese un’asta in mano.
47 Abbassa la sua lancia Chiariella,
E poi nel petto al gigante la spezza ;
Ma non si mosse ponto della sella
Per sua gran forza e per la sua grandezza,
E giunse nello scudo la donzella
Coir aste dura e con molta fierezza,
E fecela cader fuor dell’arcione.
Che molto spiacque al Ggliuol di Milone.
4S Corante la volea pigliar pel braccio,
E come il lupo portamela via :
Diceva Orlando: Non gli dare impaccio ;
Se tu la tocchi, per la fede mia.
Per mezzo il petto la spada ti caccio :
Oltre, gaglioffo pien di codardia.
Della tua gran viltà, per Dio, m’ incresce,
Ed è ben ver eh’ ogni trista erba cresce.
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CANTO DECIHOQOINTO.
311
49 Non (i vers;ogni tu, donna si degna
V'olerne via portar, can peccatore,
Chè in tulle quelle parte ove il Sol regna.
Non è donzella degna di più onore?
Nè vo’ che '1 suo cader tuo pregio legna ,
Chè fu difetto del suo corridore.
Disse il gigante : Per Iklacon, eh’ io sono
Contento, e per prigione a le la dono.
£0 Orlando disse: Tu mi pari or saggio,
Chè quel che non puoi vender vuoi don farne.
Se tu vedessi costei nel visaggio,
Diresti: Cibo non è da beccarne
Un oom si rozzo, rustico c selvaggio ;
Ch’ io so che’ denti tuoi non son da starne.
Allor Copardo addosso a quel si getta,
Per far della sorella sua vendetta.
51 E r uno e l’ altro una lancia pigliava,
E di concordia insieme si sGdaro ;
Ma al fin Copardo in terra si trovava ,
E restò prigionier sanza riparo :
Perchè Cerante ad Orlando parlava :
Che costui sia prigion tu intendi chiaro.
Cosi, per non opporsi alla ragione,
Copardo n’ andò preso al padiglione.
52 Disse il gigante: Ed anco la donzella
È mia prigion, ma non la vo’ contendere,
Però eh’ io la gittai fuor della sella,
E s’ io volessi , io te la farei rendere ;
Chè tu dicesti , eh’ io li donai quella
Per questo eh’ io non la potevo vendere.
Orlando disse: Sia come si vuole.
Coll’arme arai costei, non con parole.
53 Disse il gigante: Disfidalo sia.
Da poi che tu m’hai tolto la mia preda,
Poi mi minacci, e dimmi villania,
E credi per viltà le la conceda;
lo t’ ho donato per mia cortesia
Questa donzella, e par che lo noi creda.
Orlando al suo cavai la briglia volse.
Ed un’ arcata o più del campo tolse.
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312
IL SfORGÀNTE MAGGIORE.
6A Poi ritornava, per darei! la mancia,
E ’l Saracin colla lancia s’ abbassa ;
Ma ’l conte Orlando gli pose alla pancia,
E ’l petto e ’l cuore e le reni gli passa :
Due braccia o più riusciva la lancia,
Sparve allor rovinassi una massa:
Perchè Cerante abbandonava il freno,
E dette un vecchio colpo in sui terreno.
55 Rinaldo al padiglione aveva detto.
Quando Copardo prigion fu menato.
Che andassi tra le squadre a suo diletto,
Chè gl’ increscea di tenerlo legato ;
E giurato gli avea per Mneometto,
Se dal gigante non è liberato,
Rappresentarsi a ogni suo volere;
E va pel campo veggendo le schiere.
56 In questo tempo la novella viene.
Come Covante caduto era morto,
E che passato è ’l ferro per le schiene :
Ebbe di questo Rinaldo sconforto ;
E volle chi l’uccise intender bene.
Giurando vendicar si fatto torto :
E minacciava, e facea gran tagliata,
Comunch’ e’ fussi la triegua spirata.
67 Copardo già pel campo aveva inteso ,
Come quest’ era d’ Orlando cugino ;
Però veggendo Rinaldo sì acceso,
Rispose: A me perdona, paladino.
Per quel eh’ i’ ho da tua gente compreso ,
La pace si farà con poco vino ;
Io t’ ho a dir cose che ti piaceranno,
E sia* silenzio posto a tanto affanno.
58 Sappi, che quel c’ ha combattuto teco,
È il conte Orlando, che preso dimora,
E a tua posta il menerò qui meco.
Per quello Dio che la mia gente adora.
Rinaldo, il di che combattè con seco.
Di sua gran forza ammiralo era ancora,
E cominciossi tosto a ricordare,
Ch’ altri eh’ Orlando noi poteva fare.
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CANTO DBCmoOClNTO.
69 E 80 non fosse la sorella mia,
Dicea Copardo, che s’è innamorala
Della sua fama e di sua gagliardia,
Sarebbe or la sua vita annichilala,
Perché il mio padre non lo conoscia;
Ma poi che vide la terra assediata ,
Gli dette Chiariella per rimedio
Di liberarlo, per levar l’assedio.
60 Ma per paura lo tien del Soldano,
E non gli dà di partirsi licenzia ;
Ma tu se’ qui or con armata mano:
To ti darò la città in tua potenzia.
Tanto m’ incresce di tal caso strano
D’ un uom si degno e di tanta eccellenzia :
La mia sorella tanto amor lì porta,
Ch' a tradimento daremti una porla.
61 Rinaldo, ch’avea già legato il core
Per gran dolcezza, abbracciava Copardo,
E disse : Io sento già tanto fervore
Del mio cugin, che tutto nel petto ardo;
50 che tu parli con perfetto amore.
Se bene alle parole tue riguardo :
E Chiariella, per la fede mia,
51 loderà della sua cortesia.
63 Al mio parer, ritorna alla cittate,
E di con Chiariella questo fatto :
Quando fìa tempo poi me n’avvisate,
Ch’ io so che riuscir ci debbe il tratto,
Ch’ io mi confido nella tua bontate,
Sanza far teco altra convegna o patto.
E dettegli il cavallo e Tarmi sue,
E presto al padre suo dinanzi fue.
63 L’ Amostante dicea : Chi T ha mandato?
Copardo disse : Da me son fuguilo.
Rispose T Amostante: Tu hai fallato;
Poi disse: Forse è pur miglior partito,
Chè non t’ avessi un giorno là impiccalo.
Copardo a Chiariella sua n’ è ito,
E ogni cosa ragionorno insieme,
E la fanciulla d’ allegrezza geme.
I.
27
314
IL HOBGANTE MAGGIOBB.
64 Erasi Orlando tornalo in prigione,
Quel di eh’ al campo avea morto Coranle :
La damigella fe conclusione
Di tradir la sua patria e l’ Amostanle,
E rinnegar con questo anco Macone ;
Or vedi questo amor quanto è costante I
Lasciò Copardo, e vassene ad Orlando,
Che si vivea all’ usato sospirando.
65 E disse: Che diresti tu, barone,
Se fussi il tuo Rinaldo qua venuto.
Per liberarli e trarli di prigione,
E se tu avessi con lui combattuto,
E mortogli già sotto il suo rondone.
Acciò che non ti puossi dare aiuto?
Non sarebbe ragion, tu confessassi
Essere ingrato a chi ne domandassi ?
66 Or oltre io ti vo’ dir presto ogni cosa,
E darli una novella, che ha buona,
Ch’ io veggo la tua vita assai dogliosa ;
Sappi che il tuo Rinaldo c’è in persona.
Per trarli di prigion si tenebrosa.
Come colui che ’l grande amore sprona :
Per questo all’ Amostante ha mosso guerra,
E per tuo amor si combatte la terra.
67 Copardo è ritornato, e detto ha questo;
E perch’ io l’ ho donato il mio amor tutto,
L’ anima e ’l cuore, e s’ altro c’ è di resto.
M’accordo che il mio padre sia distrutto,
E dare al tuo cugin la città presto ,
Acciò che del mio amor tu vegga il frullo,
Che non ti pasca più di foglie e bori,
E che tu esca ornai di career fuori.
6S Orlando, quando intese Chiariella,
Rispose : Io credo lo fussi mandata
Il primo di dal ciclo un’angiolella,
Ch’ alla prigion mi li fussi mostrata ;
E se’ sempre poi slata la mia stella ,
E la mia calamita a te voltala :
Qual merito, qual fatto vuol eh* io sia
In grazia tanto a Chiariella mia?
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CAMTO DECIMOQOINTO.
31S
69 Io li dono le chiavi in sempiterno
Della mia vita , e lien tn il core e I’ alma ,
10 vo’ che il nostro amor si facci eterno ;
Tu se’ colei che 1’ ulivo e la (>alma
M’ arrechi, e che mi cavi dello inferno,
E la tempesta mia converti in calma.
E non potè più oltre Orlando dire,
Tania dolcezza gli parea sentire.
70 Ghiariella a Copardo ritornava,
E ordinò che la notte seguente
Rinaldo venga, ed Orlando cavava
Di fuor della prigiun sesrrelamente;
Ed a Rinaldo un messaggio mandava,
E scrisse che venissi arditamente;
E soggiusnea queste parole appresso:
Giunta la lettra, sia impiccalo il messo.
74 Rinaldo, eh’ a quest’opera era attento.
Aveva in punto già le genti armate.
La lettera ubbidiva a compimento;
Al messo sue vivande ebbe ordinate,
E fecegli de’ calci dare al vento :
Poi se n’ andò alla |iorta alla ciltate.
Quivi trovava insieme armati in sella
Copardo con Orlando e Ghiariella.
72 Preso la porla, levorno il remore:
A sacco, a sacco! alla morte, alla morte!
E muoia l’ Amostanle traditore,
E’ suoi seguaci, e tutta la sua corte!
11 pojiol si destò tutto a furore.
Vide i nimici già drente alle porte,
E chi fuggiva, e chi per arme é corso.
Chi si nasconde, c chi chiama soccorso.
73 L' Amostanle si desta spaventato,
E sente tanta gente e tante grida;
Subito alcun de’ servi ha domandato :
Che vuol dir questo che il popolo strida?
11 me’ che può si lieva, e fussi armato,
E corre come cieco sanza guida :
£ non sapea lui stesso ove e’ si vada,
Ghè avea smarrita la mente e la strada.
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310
IL MORGANTB MAGGIORE.
74 Pur s’ avviava ove e’ senlia gran zufla,
£ risconlrossi appunto in Ulivieri,
Ch’ era nel mezzo di questa barulTa ,
E della spada gli dette al cimieri,
Tanto cbe ’l colpo ne beva la mulTa,
Ma non potè piegarlo in sul destrieri ;
Ulivier lo conobbe incontanente,
£ trasse della spada un gran fendente.
75 Un cappelletto avea di cuoio cotto
L’ Amostante la notte in testa messo.
Ma Ulivier lo passava dì sotto,
E ’l capo e ’l collo al Saracino ha fesso,
£ fecelo d’ arcion giù dare il botto ;
La gente si fugui che gli era appresso,
Piena di doglia e terrore e sconforto.
Siccome avvien quando il signore è morto.
76 Rinaldo avea veduto cader quello ;
Benedetto ti sia, gridò, la mano
Ch’ a quel cagnaccio partisti il cervello.
Tu se’ pur de’ baron di Carlo Mano.
Or qui comincia avviarsi il macello;
Era venuto un gigante pagano.
Che si chiamava il feroce Grandono,
£ gettasi tra questi in abbandono.
77 Ulivier riscontrò quel maladetto ,
£ trasselo per forza da cavallo.
Però eh’ al colpo suo non ebbe retto.
Poi si gettava in mezzo a questo ballo;
£ perchè il popol mollo è insieme stretto.
Colpo non mena che giugnessi in fallo:
£ spesso dava anch' a’ suoi di gran botte ,
Chè d’ error pieno è il furore e la notte.
78 £ mentre che ’l gigante pur combatte.
Vi sopraggiunse a caso Luciana:
Ma quel Grandon, com’a costei s’abbatte.
Gli dette una percossa assai villana.
Però che le picchiate sue son matte,
£ finalmente in terra giù la spiana :
£ non sentia mai più nè gel nè caldo ,
Se non che corse a quel furor Rinaldo.
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CANTO DECIMOQDINTO. 317
79 E ripose a cavai questa e ’l marchese,
E domaitdò chi l’ aveva abbattuto.
Disse Ulivieri : In terra mi distese
Un gran gigante, e poi non 1’ ho veduto.
Mentre che sono in si fatte contese.
Orlando a Ricciardetto s’è abbattuto,
E perchè e’ noi conobbe nella stretta,
Lai e ’l cavai d’ un colpo in (erra getta.
SO E poi trovò Terigi suo scudiere,
E sopra l’elmo gli appiccava il brando:
Per modo che rovina del destriere,
Benché l’ elmetto non venga spezzando ;
Quando Terigi si vide cadere,
Dicea fra sè: Dove se’ tu. Orlando?
Ghè sta ci fussi , i’ non sarei cascato ,
E pur cadendo io sarei vendicato.
81 Orlando il riconobbe alle parole,
Dismontò presto, e chiesegli perdono.
Dicendo: Del tuo caso assai mi duole.
Ma che tu monti in sella sarà buono;
Cosi sempre la notte avvenir suole.
Diceva Orlando : Or gli altri dove sono ?
Aresti tu veduto Ricciardetto^
O Ulivier? eh’ i’ ho di lor sospetto. ,
82 Disse Terigi: Ulivier vidi dianzi.
Che cacciava una turba di Pagani ;
Ma Ricciardetto è in terra qui dinanzi,
E stato sarai tu colle tue mani:
Credo che poco di vita gli avanzi;
Morto r aranno questi cani alani.
Orlando guarda, e Ricciardetto vede.
Che si difende colla spada a piede.
83 £ grida: Ah Ricciardetto, hai tu paura?
Orlando è teco; tu non puoi perire,
Chè sai eh’ io ho fatata la ventura ;
Quel che t’ ha fatto della sella uscire ,
È stato un gran tuo amico, o tua sciagura.
Quando Ricciardo senti cosi dire.
Disse: Per certo io mi maravigliai,
Chè con un colpo io e ’l cavai cascai.
57 *
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318
IL MOBGANTE HAGGIOBE.
S 4 E dissi fra me slesso: Ecci Pagano,
11 qual dovessi aver tanto valore ?
Allora Orlando stringe il brando in mano,
E gettasi là in mezzo del furore,
E grida: Ah Iraditor popol villano.
Con un soletto acquistar credi onore ?
A drieto, Saracin, canaglia, porci.
Che Ricciardetto mio credete torci.
85 E Ricciardetto in sul cavai rimonta,
E di Rinaldo cercan per la terra.
Tanto che Orlando e Rinaldo s’ affronta,
E cominciorno a rinforzar la guerra;
E Chiariella i suoi peccali sconta.
Che spesse volle si Iniova a gran serra ,
£ con fatica ha salvata la vita,
Chè da Copardo e gli altri era smarrita.
86 Combalteron costor tutta la notte;
Ma i terrazzani al Qn domandon patti
Ch’avien le membra faticatee rotte,
E dubitavan non esser disfatti :
Era tra lor delle persone dotte;
Poson giù r arme con questi contratti ,
Che la città fìa lor liberamente.
Salvando tutta la roba e la gente.
87 Era apparito in oriente il giorno,
£ Chiariella a Rinaldo ne viene,
E si diceva: Cavaliere adorno.
Le cose veggo ornai che vanno bene.
E tutti insieme al gran palazzo andorno;
Rinaldo per la man Co[>ardo tiene,
£ molte cose con esso favella ;
Orlando sempre allato ha Chiariella.
88 Vennevi il popol tutto la mattina
A visitar costor come signori ;
Rinaldo parla con molta dottrina :
0 Chiariella, quanto m’innamori !
Di questa terra vo’ che sia reiaa
Pe’ beneticj e i servigi e gli onori.
Per non parer per nessun modo ingrato,
E ’l tuo Copardo re sia coronato.
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CANTO DECIHOQOINTO.
319
S9 E fe deir Amostante ritrovare
][ corpo, e poi gli dette sepoltura,
E tutta la città fece ordinare ;
Orlando d’ ogni cosa gli diè cura,
E sta con Chiariella a motteggiare,
Quando cavalca insin fuor delle mura.
E ogni<li se ne vanno a solazzo :
Rinaldo governava nel palazzo.
90 Or ci convìen lasciar costoro un poco ;
II Soldan si tornava a Babillona,
Fatta la pace, e messo Orlando in loco
Che pensò che lasciassi la persona :
Senti com’ era acceso un altro foco,
E come egli era morta la corona
Dell’ Amostante , e presa la sua terra,
E cominciava a dubitar di guerra.
91 In drieto verso Persia ritornava
Col campo tutto per miglior parlilo,
E presso a poche leghe s’ accampava ;
E ’ntese meglio il caso com’era ilo:
Un suo messaggio alla città mandava,
E duolsi, r Amostanle sia perito,
Ma che comunche la cosa si sia.
Che s’ appartiene a lui la signoria.
93 E se Rinaldo la terra non lascia.
Che s’ apparecchi di difender quella;
Se non, che gli darà di molla ambascia:
E troppo biasimava Chiariella,
Che come meretrice, anzi bagascia
D’ Orlando, il tradimento ayea fall’ ella :
Ed era un barbassor molto stimalo
Colui che imbasciadore avea mandalo.
95 Giunse al palazzo, ove ciascun dimora,
II barbasspro, e spose la ’mbasciata:
Quel Macometto, che per noi s’adora.
Distrugga questa gente battezzata ;
E ’l mio signor eh’ è nel campo di fuora,
E la sua figlia, c’ha l’arma incantala.
Famosa e forte, che si chiama Antea,
Salvi e mantenga: in tal modo dicea.
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320
IL MOBGANTE MAGGIORE.
94 E guardi e salvi ciascun Saracino,
E spezialmente que’ del gran Snidano ;
E viva Triviganle ed Apollino,
E sia dislrulto ogni fedel cristiano ;
E sopra tutti Orlando paladino,
E ’l superbo signor di Montalbano,
Astolfo, col Danese, e Ulivieri,
E Carlo, e Francia, e tutti i cavalieri.
95 Rinaldo non potè più tanto orgoglio
SolTerir del l’agan bestiale e malto.
Che par che gli abbi trovati tra 1’ ogiio;
Disse ad Orlando: Io voTare un bel tratto,
Ch’ io so punire i pazzi, quand’ io voglio;
Vedrem come a saltar costui fia adatto,
E com' egli abbi la persona destra.
E ’n piazza lo gittò d’ una finestra.
96 La novella al Soldan n’ andò di volo;
Onde il Soldan si duol mollo aspramente,
E minacciava apparecchiar lo stuolo,
E la città assediar con molta gente ;
Yeggendol la sua fìglia in tanto duolo.
Diceva : La ragion ti reco a mente.
Che non dovea però il tuo barbassoro
Parlar come si dice in concistoro.
97 Per quel eh’ io intendo, e’ disse cose strane ;
Se vuoi che la ’mbasciala da tua parte
Udita sia dalle gente cristiane.
Non ti bisogna altro messaggio o carte :
Lascia andar me, che con parole umane
Dirò con miglior modo e miglior arte;
E so eh’ io tornerò colla risposta.
Donde il Soldan rispose : Va a tua posta.
98 Questa fanciulla udito avea per fama
Rinaldo nominar molto in Soria ;
E perché le virtù molto quella ama,
S’ innamorò della sua gagliardia.
Or s’ alcun vuol saper come si chiama.
Quantunque il barbassor detto 1’ avia,
Repliclierem ch’ella avea nome Antea,
E tulle sue bellezze eran di Dea.
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CANTO DECIMOQOINTO.
. 321
99 E parevon di Danne i snoi crin d’oro,
Ella pareva Venere nel volto;
Gli occhi stelle eran dell’ eterno coro,
Del naso avea a Giunon 1’ esemplo tolto ;
La bocca e’ denti d’un celeste avoro,
E ’i mento tondo e fesso e ben raccolto;
La bianca gola e 1’ una e l’ altra spalla
Si crederria che tolto avessi a Palla.
100 E svelte, e destre, e spedite le braccia
Aveva, lunga e candida la mana.
Da potere sbarrar ben l’arco a caccia.
Tanto che in questo somiglia Diana :
Dunque ogni cosa par che si confaccia,
Dunque non era questa donna umana :
Nel petto larga quanto vuol misura,
Proserpina parea nella cintura.
101 E Deiopeia pareva ne’ Ranchi,
Da portare il turcasso, e le quadrelle:
Mostrava solo i piè piccoli e bianchi ;
Pensa che l’ altre parte anch’eran belle,
T{into che nulla cosa a costei manchi :
A questo modo fatte son le stelle,
E vadinsi le ninfe a ripor tutte,
Chè certo allato a questa sarien brutte.
102 Avea certi atti dolci e certi risi.
Certi soavi e leggiadri costumi.
Da fare spalancar sei paradisi,
E correr su pe’ monti all’ erta ì fiumi.
Da fare innamorar cento Narcisi,
Non che Gioseppe per lei si consumi :
Parca ne’ passi e l’ abito Itachele,
Le sue parole eran zucchero e mèle.
103 Era tutta cortese, era gentile.
Onesta, savia, pura e vergognosa.
Nelle promesse suo sempre virile.
Alcuna volta un poco disdegnosa.
Con un atto magnalmo e signorile,
Ch’ era di sangue e di cor generosa:
Eron tante virtù raccolte in lei.
Che più non è nel mondo, o fra gli Dei.
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322
IL HOBGANTK MAGGIORE.
104 Sapeva luUe l’.arti liberali ,
Portava spesso il falcon pellegrino,
Feriva a caccia boni e cinghiali :
Quando cavalca un pulito ronzino,
£ correr noi facca, ma metter ali,
Da ogni man lo volgeva latino ;
E nel voltar, chi vedeva da parte.
Are’ giurato poi che fussi Marte.
dOS Questo cavallo al Soldan fu mandalo.
Che gliel mandò l’arcaito Almansore,
Di Barberia, e in Arabia era nato.
Nè mai si vide il più bel corridore ;
D padre a questa 1’ aveva donalo,
Però che mollo l’ aveva nel core :
Tra falago c sdonnino era il mantello.
Nè vedrà mai Soria simile a quello.
106 Egli avea tutte le fattezze pronte
Di buon cavai, come udirete appresso.
Perchè nato non^ sia di Chiaramonle :
Piccola lesta, e in bocca mollo fesso;
Un occhio vivo, una rosetta in fronte ;
Larghe le nari; e ’l labbro arriccia spesso;
Corto l’orecchio, e lungo e forte il collo;
Leggier si, ch’alia man non dava un crollo.
107 Ma una cosa noi faceva brullo.
Ch’egli era largo Ire palmi nel petto,
Corto di schiena, e ben quartato lutto.
Grosse le gambe, e d’ogni cosa netto.
Corte le giunte, e ’l piè largo, allo, asciutto,
£ molto lieto e grato nell’ aspetto ;
Serra la coda, e anitrisce e raspa.
Sempre le zampe palleggiava e innaspa.
dOS II primo di che Antea volle prò vallo,
Fe cose in Babillonia in sulla piazza,
Che fu troppo mirabil sanza fallo ;
Quand’ella vide cosi buona razza,
E le virtù del possente cavallo,
Vennegli voglia portar la corazza,
£ da quel tempo cominciò armarsi,
E in giostro e ’n lorniamcnti espri montarsi.
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CANTO DECIMOQCINTO.
82 J
109 Poi cominciò in battaglia andare armata
Come Cammina o la Pantasilea,
E la sua armadura era incantata.
Che nessun ferro tagliar ne potea ;
Era in Damasco sula lavorata, '
Fornita d’ oro, e più che ’l Sol lucea :
E quanti cavalier giostran con quella.
Tanti gittati avea fuor della sella.
■1)0 Eran venuti di tutto Levante,
Di Persia, di Fenicia, e dello Egitto;
E alcun cavalier famoso errante,
Ognuno aveva abbattuto e sconfìtto;
Nessun baron più gli veniva avante.
Che colla lancia non lo facci al gitto;
E ’nsino al ciel la fama risonava,
E Babillonia e ’l Soldan l’ adorava.
111 E maraviglia non è che l’adori ,
Ch’ ogni suo effetto pareva divino
Al tutto dcH’uman costume fuori;
Massime là quel popol saracino.
Ch’era già avvezzo a mille antichi errori.
Come si legge dì llelo e dì Nino :
Donde e’credevon certo che costei
Fussi nata del seme degli Dei.
112 E’ si polre’ mille altre cose ancora
Delle virtù di questa donna dire;
Ma perch’ e’ fogge il tempo, e cosi l’ora.
La nostra storia ci convien seguire;
E se talvolta un bel canto innamora.
Pure al fìn piace nuove cose udire;
Cosi direm nel bel cantar seguente,
Acciò che a tutti consoli la mente.
»ro T £.
5. arcaito. Titolo di dignità mili-
tare presso i MoometlaDi.
9. rubicondo. Fiero, valoroso.
14. tiare in contumace. Stare in
prigione.
so. Ck’utcilo sare' fuor del te-
minato. Uscir del seminato vale per-
dere l’ intelletto , impazzare. I Latini
dicevano delirare, die sigoliìca in so-
stanza lo stesso, essendo formato della
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324
IL UORGANTB MAGGIOBE.
preposizione de, e dolla Toce lira , la
<|uale, secondo Columella, significa lo
stesso cbe porco , cioè quel rialto di
terra che rimane fra l’ un solco e l’ al-
tro, e dove si sparge il seme.
41 . cineitthia. Cincischiare signi-
fica tagliare dise^ualmente e male,
come fanno i ferri mal taglienti.
43. il terrei bugio. Il cervello
bucato, cioè guasto.
44. alla callaia. Al varco, al
passo.
bfi. faeea gran tagliala. Cioè ,
minacciava con molte parole, e bra-
vando.
5T. con poto vino. Facilmente.
65. roncione. Cavallo ; lo stesso
che ronzone.
67. di foglie e fiori. Cioè, di sem-
plici apparenze d’ amore.
71. E feeegli de' calci dare al
vento. Lo fece impiccare ; il che si
dice anche dar calci al rovaio , che è
il vento di tramontana.
90. Babillona. Babilonia.
92. aiut bagateia. Bagascia è io
stesso che meretrice, ma più abietta e
più vile, e tal differenza è indicata dal
Poeta colla particella anzi. Viene for-
se , secondo il Menagio , dal tedesco
balg, che significa pelle, e concubina,
siccome leortum presso i Latini. Altri
però trasse questa voce da vagui, per
questo che i Latini indicarono alcuna
volta col nome di vaganti o vagaboH"
de le femmine di mondo, come si cava
da Plauto nel Soldato MiUantatore,
ove dice : « Te alloquar, vilii probri-
que piena , quee circum oictnoi va-
gas. « Atto II, se. 5.
99. Danne. Dafne, ninfa.
104. Ialino. Avverbialmente, alla
usanza latina.
111. di Belo e di Sino. Il Belo
babilonese che molti vogliono esser lo
stesso che il Belo egiziano, fn, secondo
i Greci , figliuolo di Nettuno e di Li-
bia, e condusse una colonia in Babilo-
nia , sulle rivo dell’ Eufrate. Nino fu
re d’ Assiria.
CAUTTO DECIMOSESTO*
di!B<BiDiaataie<Ba
Viene a Rinaldo Antea , perchè suo padre
L’ eredità dell’ Amostante chiede :
Rinaldo adocchia le forme leggiadre
Di tal donzella; e più lume non vede.
Con tre campion delle contrarie squadre
Antea combatte , e un solo a lei non cede.
Rinaldo e Orlando , partito il Soldano ,
Si trovan tra i giganti a un caso strano.
i O gloriosa figlia di Davide,
Ch’ogni emisperio allumi, e ’l ciel fai bello,
Per cui salvate fur tante alme afflitte,
Quel di che ti disse Ave Gabriello;
Insino a qui son nostre storie pitte
Col tno color, tua arte, e tuo pennello;
Colla tua grazia abbiam passato il mezzo :
Non lasciar la mia mente al buio e al rezzo.
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CANTO OEaHOSESTO.
325
3 Pareva a Antea mill’ anni di vedere
Rinaldo, e Ulivieri, e Peonie Orlando,
E Ricciardetlo si buon cavaliere ;
E tuUavolla si viene assettando :
Della sua gente ordinava tre schiere
Forniti d' arme e di lancia e di brando,
E dal Soldan facea la dipartila,
E finalmente in Persia ne fu ita.
3 Nè prima giunse in sulla piazza questa,
Ch’ una lancia pigliò con gran fierezza,
Mosse il cavallo, e poi la pose in resta,
Ruppela in terra con gran gentilezza ;
E mentre che ’l cavai furia e tempesta,
Volselo in aria con tanta destrezza.
Che non lo volse mai si destro Eltorre:
E '1 popolo a furor là a veder corre.
4 Rinaldo, che vedea dalla Gneslra,
Maravigliossi troppo di quell’alto,
E disse: Donna mai vidi sì destra.
Nè cosa più mirabil ch’ella ha fallo;
Questa è pur d’ogni cosa la maestra.
Orlando ne pareva stupefatto,
E vanno tulli incontro alla donzella.
Ed evvi Luciana e Chiariella.
6 E giunti appresso alla gentil Pagana,
Ognun la salutò con grand’ onore ;
Ella rispose in lingua soriana
Cose che tulli infiammava nel core:
E in mezzo a Chiariella e Luciana
Menala fu nel palazzo maggiore,
E in una ricca sedia a seder posta ;
Poi fece in questo modo la proposta.
6 Quel primo Dio che fece cielo e terra,
E la natura, e stelle, e sole, e luna.
Ed a sua posta l’abisso apre e serra,
E fa, quando e’ vuol, 1’ aria chiara e bruna,
E eh’ è pietoso e giusto, e mai non erra.
Benché ciascun pur gridi alla fortuna ;
Salvi c mantenga il mio padre Snidano,
E '1 buon Rinaldo e ’l Senalor Romano :
!■ SS
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326
IL HOHGANTB MAGGIORE.
7 E Ulivier, Ricciardetto, e Terigi,
E se alcun c’è della vostra brigala,
E Carlo imperadore, e San Dionigi.
La cagion che ’l Soldan m’ha qai mandata,
Non è per ricercar guerra o litigi,
Ma credo indoviniate la ’mbasciala ;
Altro non vuol, che quel che vuol ragione,
E conservar la sua giurisdizione.
S Questa città coll’ altre tutte quante
Del corno qua di Persia e di Soria,
E di tutto il paese di Levante,
Son sotto|K>ste a nostra monarchia :
Però, poi ch’egli è morto l’ Amostante,
Ritorna al padre mio la signoria :
Questo si dice, e questo chiar si mostra.
Che in ogni modo questa terra è nostra.
9 Nè credo che voi siate in quest’errore,
Di non sapere a cui ricade il regno :
Ma ogni cosa il Roman Senatore
Ha fatto per vendetta e per isdegno,
11 quale ha tanta forza in nobii core.
Che fa della ragion passare il segno;
E cosi fe il Soldan (nota, Rinaldo)
Per isdegno anco lui di Marcovaldo.
<0 Se voi volete lasciar la citlade
Sanza quistion, contento è il padre mio,
E ritornar nelle vostre contrade:
Se questo non farete , sia con Dio ;
Noi provercm se taglian nostre spade,
E cosi da sua parte vi dich’ io ,
E vengo a protestarvi nuova guerra.
Se non ci date libera la terra.
41 Poche parole a chi m’ intende basti.
E poi soggiunse: 0 misero Copardo,
O Chiar iella mia, quanto fallasti !
O giudizio del del, tu vien si tardo !
Ma licito ti sia, poi che cavasti,
Se ben col mio giudizio retto guardo.
Di luoghi tenebrosi oscuri e boi
Si gentil cavalicr quanto è costui.
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CANTO DECIMOSESTO.
327
43 E volsesì ad Orlando con un riso,
Con un alto benigno, e con parole,
Che si vedeva aperto il paradiso.
Che si fermò a udir la luna e ’l sole.
Ma Chiariella diventò nel viso
Del color delle naammole viole,
Cosi Copardo; e gli occhi giù abbassorno.
Che del peccato lor si ricordorno.
43 Segni più oltre AnCea : Ciò eh’ io v’ho dello,
È quel che ’l padre mio da voi sol brama ;
Or vi dirò quel eh’ io serbo nel petto :
È questo il cavalier c’ ha tanta fama.
La qual già non asconde il suo cospetto ?
Se’ tu colui , che lutto il mondo chiama
Il miglior paladin che abbassi lancia.
Onore e gloria e di Carlo e di Francia?
41 Se’ tu Rinaldo mio famoso e bello?
Se’ tu colui che li stai in su quel monte ?
Se’ tu d’ Orlando suo cugìn fratello T
Se’ tu quel delle gesta di Chiarinonte ?
Se’ tu colui ch’uccise Chiariello?
Se’ tu quel eh’ ammazzasti Brunamonte ?
Se’ tu il nimico di Gan di Maganza ?
Se’ tu colai eh' ogni altro al mondo avanza ?
45 Rinaldo sono, o gentil damigella,
Come tu conti, e di quel parentado.
Disse la dama : Di te si tavella
Per tutto r universo, e ciò m’ è a grado,
Salvo eh’ alcun te mancatore appella
Di gentilezza, ch’udito hai di rado
A imbasciador giammai far villania,
Comunch’ e' parli, o qualunque e’ si sia.
46 Tu uccidesti il nostro imbasciadore :
Io non vo’ giudicar chi s’abbia il torlo;
Se non che mi dispiace per tuo onore,
E per onor di me, poi ch’egli é morto,
Sendo mandato da si gran signore :
Di far di lui vendetta mi conforto.
Nè sanza giostra incielo vo’ tornarmi :
Cosi li sGdo, e prenderai tue armi.
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328
IL MORGANTE MAGGIORE.
17 Se tu m’ abballi per tuo valimenlo,
Ogni cosa sia luo c’ hai acquislalo,
E so che ’l padre mio sarà conlenlo ;
Ma s’ io l’arò del luo cavai gillato,
Io vo’ eh’ e’ tuoi stendardi spieghi al venlo,
E con tua gente in Francia sia tornato :
E che tu lasci in pace i nostri regni,
E contro al padre mio mai più non vegni.
<8 Rinaldo disse alla donna famosa :
Perch’ io non paia nè mulo nè sordo,
Ciò che tu hai dello, nel petto ogni cosa
Drento scolpilo ho, eh’ io me ne ricordo ;
Ma tu facesti alla fine tal chiosa,
Che fa che d’ogni cosa siam d’accordo:
Non c’ è più giusta cosa che la spada
A assolver nostra lite; e cosi vada.
19 Ma una grazia prima li domando.
Che colla s|iada al campo ci troviamo,
Cosi ti priega il mio cugino Orlando,
Che insieme questo giorno dimoriamo :
Ch’ io sento il cor ferito , e non so quando
10 fossi da le preso, o con che amo;
11 terzo di sopra il mio buon destriere
Verrò in sul campo armato a luo piacere.
20 Rispose alle parole presto Anlea :
Ciò eh’ a te piace, a me convien che piacci^;
E mentre che cosi gli rispondea,
S’accese lolla quanta nella faccia.
Però eh’ un foco sol due cori ardea.
Come anima sentii presto s’allacciai
Cosi ferito è 1’ uno e l’ altro amante
Da quello strai che passa ogni adamante.
21 E cominciorno insieme a riguardarsi
Ognun più che 1’ usato intento e fiso :
Rinaldo non polea di lei saziarsi,
Nè crede eh’ altro ben sia in paradiso:
E la fanciulla cominciò a pensarsi
Che cosi bel giammai fossi Narciso ;
Dovunque e’ va, gli lenea drieto gli occhi,
E par che fiamme Amor nel suo cor fiocchi.
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CANTO DECIM09EST0.
329
2-2 E ordinossi dii convito si ma;;no,
Che simil forse non fu ancor veduto.
Disse Rinaldo al suo caro compagno:
O Ulivier, qui bisogna il tuo aiuto,
Vadiane Persia e ciò eh’ io ci guadagno,
Fa che tu alibi a tutto provveduto ;
E vo’ che di tua man serva costei
Per lo mio amor, com’io per te farei.
23 E s’ io ti fe’ mai gentilezza alcuna
Di Forisene e di Meridiana,
Fa che qui cosa non manchi nessuna.
Da onorar questa gentil pagana.
Disse Ulivier : Così va la fortuna ;
Gércati d’altro amante, Luciana;
Da me sarai d’ogni cosa servito.
Ed ordinò di subito il convito.
2; Forno al convito le vivande tulle
Che si potevon dare in quel paese,
Con preziosi vin, confetti e frutte;
Furonvi tutte le dame cortese
Delia città, nè creder le più bruite :
E sempre di sua man servi il marchese.
Massime Antea con molla riverenzia,
Di coppa, di coltello e di credenzia.
25 Fatto il convito, vennon molli suoni,
Acciò che meno il giorno lor rincresca.
Trombe e trombette, e nacchere e busoni,
Cembolo e slafTa, e cemmamelle in tresca,
Corni, tamliur, cornamuse e sveglioni,
E moli’ altri stromenti alla moresca.
Liuti e arpe, e chitarre e salteri,
fiuflbni e giuochi, e infiniti piaceri.
26 Cosi passorno il giorno con gran festa :
Ma poi che ’l sole in Granata s’accosta.
La gentil donna con voce modesta
Disse, che al tutto tornare è disposta.
Benché tal dipartenza gli è^molesla.
Al gran Soldan eh’ aspetta la risposta ;
E ’l terzo di, come promesso avea.
Essere armata in sul campo dicea.
58 »
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330
IL HOKGANTB HAGGIOaE.
S7 Cosi la festa ristette co) ballo,
E dipartissi la donna famosa ;
Rinaldo compagnia gli fe a cavallo,
Insino appresso ove il Soldan si posa :
E morir si credette sanza fallo,
Qnand’ e’ lasciò questa dama vezzosa,
E con fatica le lacrime tenne,
Insin che pure a casa se ne venne.
38 II Soldan domandò quel eh’ avea fatto
La gentil figlia in Persia co’ Cristiani:
Ella gli disse la convegna e ’l patto.
Che ’l terzo di debb’ essere alle mani ;
E che sperava dare scaccomatio
Al buon Rinaldo coll’arme in su’ piani,
E racquistar tutte le terre sue :
Donde il Soldan molto contento fue ;
39 Però che molto in costei si fidava.
Or ci convien tornare a dar conforto
A Rinaldo, eh’ a letto se n’andava,
E non pareva già vivo né morto ,
Ma con sospiri Antea sna richiamava ;
Dicendo: Lasso, tu m’hai fatto torto.
Avermi dato e poi furato il corei
E detto questo, si dolea d’ Amore.
50 Com’ hai tu consentilo, che costei
M’ abbi cosi rubato da me stesso,
E trasformato cosi tosto in lei.
Tanto che quel eh’ io fui non son più desso ?
Ella se n’ ha portati i pensier miei.
Questo non è quel che tu m’ hai promesso !
E non ti gloriar, se col tuo arco
Per donna si gentil m’ hai preso al varco.
31 Chè non sarebbe ingannala Europia,
Non si sarebbe trasformato in toro
Giove, e mutata la sna forma propia,
Nè Ganimede rapito al suo coro,
S’ avessi visto si leggiadra copia :
E non sarebbe Dafne un verde alloro.
Se Febo avessi veduto il di Antea,
Che, innamorato: Aspetta; pur dicea.
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CANTO DECTH08BST0.
331
33 Né faUo servo de’ servi d’ Ameto,
Nè tanto tempo Giacobbe fedele,
Che vergendo costei, come discreto.
Serviva per Antea non per Rachele ;
Che col suo viso faria mansueto
Ogni aspro tigre arrabbiato e crudele;
Anzi farebbe il mar pietoso e’ venti,
£, per vederla, fermi stare attenti.
33 E non arebbe Andromada Perseo
Combattuta col capo di Medusa,
E fatto un sasso diventar Fineo,
Nè fatto arebbe Ipolito mai scusa:
Nè tanto Euri<lice chiesto Orfeo,
O ver conversa in un fonte Aretusa ;
Se slata fussi Antea nel mondo allora.
Che degli abissi l’ anime innamora.
3t Non bisognava che Venere Iddea
Insegnassi a Ipomene già, come
Gittassi, mentre Atalanta correa.
Come fussi passala innanzi, il pome;
Nè nel suo Aconzio Cidippe scrivea,
Veggendo a questa il bel viso e le chiome ;
E non sarebbe il convito turbato
Del pome eh’ a Pari.sse fu mandalo.
35 Chè non l'areblte giudicato a Venere,
Non bisognava far di ciò contesa,
E Troia non saria conversa in cenere,
E tutta Grecia mossa a tanta impresa ;
Veggendo nude queste membra tenere.
Che m’ han si il cor ferito, e 1’ alma incesa.
Nè da sè sè per sè stesso diviso
Arebbe, questa veggendo. Narciso.
36 E non sarebbe Leandro d’Abido
Portato cosi misero è meschino.
Come tn sai, fra Tonde già. Cupido,
Appiè della sua donna dal dalOno;
S’avessi Antea veduta, ond’io pur grido:
Nè Polifemo in sul lito marino
Chiamala Galatea colla zampogna.
Dolendosi che in grembo Ati a lei sogna.
I y t '.oogll
332
IL MORGANTE MAGGIORE.
37 Tu non aresti già, Teseo, menata
Ipolila, del regno già Amazzone;
Tu non aresli Adriana lasciata
Sull’isulelta in tanta passione;
£ non sarebbe Emilia repugnata,
Atene per Arcita e Paiamone,
Nè Pirramo già morto, e mille amanti,
Ch’ or sare’ lungo a contar tutti quanti,
38 Se fussi al secol lor vivala questa.
Ch’io pur non vidi mai più bella figlia,
S’.io guardo ben la refulgente testa,
E ’l capo suo, che Venere simiglia.
La faccia palerà angelica e modesta ,
I duo begli occhi e l’archeggiale ciglia,
E gli alti si soavi, e le parole ,
Ch’ arien forza di far fermar il sole.
59 Ben puoi tu, erodo, per lei saettarmi.
Ben puoi di me vittoria avere. Amore;
Che pensi tu, ch’io apparecchi l’armi.
Per passar colla lancia a questa il core.
Che può ferirmi a sua posta e sanarmi.
Come Pelleo? non già tu, traditore.
Queste parole e molte altre dicea ,
Ma finalmente richiamava Antea.
40 Dove se’ tu, perchè m’ hai qui lasciato?
Non potesti star meco solo un giorno ?
Che pensi tu? che al campo io venga armalo?
Aspetta tanto eh’ io chiami col corno;
Tu m’ hai già preso per modo e legato,
Ch’ ornai più in Francia al mio signor non torno, |
Nè posso in Babilonia anco star teco.
Nè, poi eh’ io vidi le, più star con meco.
41 Che debbo far? dove sarà il mio regno?
Dove starà il mio cor cosi soletto?
Orlando, eh’ avea fallo alcun disegno.
La mattina trovò Rinaldo a letto,
£ misse a queste parole lo ’ngegno :
Disse: Cugino, aresti tu difetto?
Rinaldo il volea far pur cornamusa
D’ un certo sogno, e trovava sua scusa.
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C&NTO DECIHOSESTO.
333
43 Rispose Oi-taado: Noi sarein qne’ frati,
Che mangiando il migliaccio, I’ un si cosse ;
L’ altro gli vide gli occhi imbambolati,
E domandò quel che la cagion fosse ;
Colui rispose: Noi siam due restati
A mensa, e gli altri sono or per le fosse,
Ché trentalré già fummo, e tu lo sai :
Quand’ io vi penso, io piango sempre mai.
43 Quell’auro, che vedea che lo ’ngannava,
Finse di pianger, mostrando dolore,
E disse a quel che di ciò domandava :
£ anco io [>iango, anzi mi scoppia il core,
Che noi siam due restati; e sospirava.
Ed è già r uno all’altro traditore:
Cosi mi par che facciam noi, Rinaldo;
Cbè noi di’ tu che ’l migliaccio era caldo?
44 Ma questo è altro caldo veramente.
Rinaldo si volca pur ricoprire :
Per Dio, cugin, eh’ i’ sognavo al presente,
r.h’un gran lion mi veniva assalire,
Ond’ io gridavo e chiamavo altra gente,
£ con Frusl>erta il volevo ferire;
Forse che in sogno parlai per ventura.
Tu mi destasti in su questa paura.
45 Dond’ io ti son, ti prometto, obbligato,
Però eh’ i’ ero tanto impaurito,
Che mi par esser di bocca cavato
Air animai che m’ aveva assalito.
Rispose Orlando: Ah cugino impazzalo.
Or fussi sogno quel eh’ i’ ho udito :
Più su sta mona luna, fralel mio!
Guarda se in sogno dicevi com’ io.
46 O vaga Antea, che ti feci io giammai?
Dove m’ hai tu lasciato, ove è la fede?
Dove se’ ora, e quando tornerai?
£ non arai tu mai di me merzede.
Che t’ho pur dato il cor, come tu sai.
Che son tuo servo pur, come Amor vede.
Che tante volte di me domandasti :
Se’ tu colui che tu m’ innamorasti ?
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334
IL HOBGINTE MAGGIORE.
47 Tu se’ colei ch’ogni altra bella avanza,
Tu se’ di nobiltà ricco tesoro,
Tn se’ colei che mi dèi sol baldanza.
Tu se’ la luce dell’ eterno coro ;
Tu se’ colei che m’ hai dato speranza ,
Tu se’ colei per ch’io sol vivo e moro ;
Tu se’ fontana d’ogni leggiadria.
Tu se’ il mio cor, lo se’ l’anima mia.
48 Nè mica, cugin mio, par che tu sogni.
Non creder da me tu voler celarti,
Pensa eh’ un altro trovar ti bisogni;
Dunque tu vieni in Persia a innamorarli
D’una pagana I or fa che ti vergogni,
Chè questo è poco men che sbattezzarli:
Se’ tu si della mente fatto cieco ?
Guarda che Cristo non s’adiri teco.
49 . Ove è, Rinaldo, la tua gagliardia?
Ove è, Rinaldo, il tuo sommo potere?
Ove è, Rinaldo, il tuo senno di pria?
Ove è, Rinaldo, il tuo antivedere?
Ove è, Rinaldo, la tua fantasia?
Ove è, Rinaldo, l’ arme e ’l tuo destriere?
Ove è, Rinaldo, la tua gloria e fama ?
Ove è, Rinaklo, il tuo core? alla dama.
50 Pàrli che '1 tempo sia conforme a questo?
Pàrti che ’l tempo sia da innamorarsi?
Pàrli che ’l tempo sia qui lungo o presto?
Pàrti che ’l tempo sia dover piò starsi?
Pàrti che ’l tempo sia tranquillo o infesto?
Pàrli che ’l tempo sia da motteggiarsi?
Pàrli che ’l tempo sia da dama o lancia?
Pàrli che ’l tempo sia d’ andarne in Francia?
51 A questo modo il regno in pace aremo?
A questo modo acquisterai corona ?
A questo modo Antea giù abbatteremo?
A questo modo andrem poi in Babbillona?
A questo modo la fede alzeremo?
A questo modo or di te si ragiona?
A questo modo se’ fatto discreto?
Misero a me, eh’ io non sarò mai lieto.
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CANTO DEGIHOSESTO.
335
62 Lascia ques(o pensier si stollo e vano,
Comincia a rassettar la tua armadura,
Chè questo nostro Cristo e parlieiano
Non so come comporla tua natura ;
Vedi ch’addosso ci viene il Snidano;
E se tu abliatli Aniea per tua ventura.
Che questo resno e tulle sue contrade
Sicuro abhiam, sanza operar pid spade.
63 Quando Rinaldo si vide scoperto,
E non potè celar quel eh’ è palese.
Rispose sospirando: lo ve;;go certo
Che queste al nostro Rio son gravi offese,
E molta punizion, come di’, merlo;
Ma se quel Giove Dio non si difese
Di questo amor, nè ’l bellicoso Marte ,
Che vai qui la mia forza, o ingegno o arie?
64 Io voglio al campo andar, ch’io l’ho promesso,
E porterò la lancia e ’l brando cinto,
Ma come polre’ io ferir me stesso,
O vincer mai colei che m’ ha già vinto?
lo ho la mente cieca, io tei confesso,
E anche il mio signor cieco è dipinto,
K guida a questa volta il cieco l’orbo ;
Dunque tu bussi a formica di sorbo.
65 Io non posso voler, perch’io non voglio;
Lasciar costei, dunque io non voglio o-posso;
Io non son più il cugin tuo, com’ io soglio, *
Però che questo è mal che sta nell’osso:
E s’ io sapessi gittar questo scoglio.
Sarebbe Salamon suto un uom grosso,
• Aristotile, e Socrate, e Platone:
Dunque, fratei, non ne facciam quistione.
68 Ch’io non vo* disputar d’ astrologia
Con quel che non sa ancor che cosa è stella;
Io non vo’ disputar di cerusia
Con ehi sem|>re ara, o macina, o martella;
lo non vo’ disputar quel eh’ amor sia
Con un che sol conosce Alda la bella;
Ma priego Amor che qualche ingegno trovi.
Acciò che tu mi creda, e che tu ’l provi*
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330
IL U0R6ANTB HAGGiOHE.
67 Rimase Orlando (ulto spennacchiato,
Quando e’ senti quel che ’l cugino ha detto.
Perchè conobbe eh’ egli era ostinalo ;
A Ulivier n’ andava e Ricciardetto,
E disse : Il nostro Rinaldo è già armalo,
Ch’ aspetta alla battaglia Antea nel letto :
E raccontò ciò eh’ egli avea sentito,
Donde ciascun di lor n’ è sbigottito.
68 Ma Ulivier con Orlando dicea :
Io gli ho a cantar poi il vespro, s’io mi croccio.
Deh taci , Orlando testo rispondea ;
Chè li direbbe : Néttati il cappuccio ;
A me, che ignuno error di ciò sapea,
M’ ha rimandato in drieto come un coccio :
Chi vi cercassi trito a falde a falde.
Nè r un nè l’ altro è farina da cialde.
69 Vo’ che io corra, come fe a furore
Quella badessa, e lievi il romor grande.
Che volle lor la cuffia, e per errore
Si misse dell’abate le mutande;
Perchè la monacella peccatore
Disse: Madonna, il capo vi si spande,
cuffia prima un poco v’acconciale;
Dond’ ella si tornò al suo santo abate.
60 Qui si bisogna provvedere a noi,
E che noi andiam domani al campo armati :
Io sarò il primo, e poi sarete voi.
Che con Antea ci saremo sGdati :
lo so eh’ io r uccidrò, sia che vuol poi :
Se noi sarem dal Saldano assaltali,
Difenderenci, e Dio ci aiuterae.
Nè più la dama il mio cugino arae.
61 Ma forse altri pensier potrebbe avere.
Se la fortuna o il peccalo volessi
Ch’ ella m’ abbatta in terra del destriere,
Bench’ io mi credo che se ne ridessi;
Ma Cristo mi darà forza e potere,
E con sua man mi sosterrà lui stessi :
E lasccrem Rinaldo a riposarsi
Nel letto, insin che potrebbe destarsi.
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CANTO DECtMOSESTO.
337
62 Ulivier non rispose nulla a questo,
E diecimila a cavallo ordinorno;
L’ altra mattina oi^nun s’ armava presto :
Verso deli’ oste del Soldan n’ andorno :
Cosi Rinaldo sansa esser richiesto ;
E disse al conte: Sonerai tu il corno,
Chè sai che poco il sonarlo è mia arte,
E chiama al campo Antea dalla mia parte.
63 Ah, disse Orlando, tu non di’ da vero.
Io Io farò come persona sciocca.
Che di piacerli ho troppo desidero;
E r elefante si poneva a bocca ,
E sonò tanto forte e tanto altero.
Che come il suon del corno fuori scocca.
Subito venne agli orecchi d* Antea,
Che fra sé stessa gran dolor n’ avea.
64 Dicendo : Io ho qui perduta ogni fama :
Parrà che per viltà nel padiglione
Mi stessi addormentata; e l’arme chiama,
E finalmente saltò in sull’ arcione.
Quando Rinaldo scorgeva la dama.
Par che sia tratto il cappello al falcone ;
E tutto si rassetta in sulla sella,
E*in qua eJn là con Baiardo saltella.
65 Giunta costei, con un gentil saluto
Lo salutò , che in mezzo il cor gli passa;
Poi fece con Orlando il suo dovuto; •
Orlando per dolor giù gli occhi abbassa.
Disse la dama : E’ vi sarà paruto
Ch’io sia mollo per certo pigra o lassa,
Chè sto nel letto, e voi siete a aspettarmi;
Veggo che l’ arte è pur vostra dell’ armi.
66 Prendi del campo tu, Rinaldo mio,
Chè so che tu m’aspetti alla battaglia,
E ciò eh’ io li promisi pel mio Dio
Osserverotti, sanza mancar maglia.
Dicea Rinablo : A combatter vengh’ io.
Ma vorrei far con arme che non taglia:
Volse il cavallo , e cosi la fanciulla ;
Disse Ulivieri : E’ non ne sarà nulla.
29
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33S
IL HORfiiNTE MAGGIORE.
67 £ parvcgli ch’Anlea se ne ridesse.
Quando ella volse il cavallo arabesco:
Volto Kinaldo, l’ aste in resta messe,
E con Baìardo fe del barberesco ;
Ma come e’ par eh' alla dama s’ appresso.
Un bello scudo eh’ aveva moresco,
Subito drieto alle spalle gittava,
E gitta via la lancia che portava.
68 Veegendo questo Antea, ch’era gentile.
Subito anch’ella lo scudo volgea,
Per non parer nè villana nè vile ;
Orlando troppo di ciò si dolca,
£ dice: L'esca riscalda il fucile;
MaladeUa sia tu per certo, Antea:
Or vedi, Ricciardetto, ove noi siamo;
Qui si convien che l’ arme adoperiamo.
$9 Chè quando vidi Antea sì larghi patti
Far, se Kinaldo la vinceva in giostra,
lo dissi : Or sono acconci i nostri fatti ,
A salvamento ornai la terra è nostra;
Ora ho temenza al (in non siam disfatti.
Poi che tanta pazzia Rinaldo mostra :
Farmi eh’ uscito sia dello intelletto.
£ cosi a me; diceva Ricciardetto.
/
70 Accostasi a Rinaldo Orlando allora,
£ disse: Dimmi, dove hai tu apparato
Giostrar cosi, ch’io noi sapevo ancora?
£ mollo caro ho tu m’abbi insegnato:
Veggo che ’l foco drento ben lavora,
£ ’n questo di riman vituperalo.
Disse la dama: Cosi vuole Amore ;
Prendi del campo tu, gentil signore.
71 Allor comincia Ulivieri a pregare :
Per grazia, car cognato, ti domando.
Che tu mi lasci con questa provare.
Io son contento, rispondeva Orlando;
Non che pregarmi, tu puoi comandare:
Ulivier venne il suo destrier voltando,
E quanto gli parea del campo prese ;
Cosi la donna, e volsesi al marchese.
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CANTO DECIHOSK8TO.
339
72 Risconlrò Ulivier la damigella,
E ruppe la sua lancia, e non la mosse.
Né piegò pure un dito in snlla sella ;
Ma in sullo scudo in modo lui percosse.
Che cadde per virtù della donzella,
E bisognoe che prigione suo fosse ;
E Ricciardetto gli fe compagnia.
Acciò che gl’ increscessi men la via.
73 E ’nverso il padiglion fumo avviali;
Rinaldo si ridea del suo fratello.
Orlando gli dicea : Pe’ tuoi peccati
Credo tu abbi perduto il cervello ;
Ma que’ che son di sopra coronati.
Ben li serbano a tempo il tuo flagello.
Rinaldo, eh’ avea il cor dato in di|>osito.
Non rispondeva ad Orlando a proposito.
74 Per la qual cosa Orlando è insuperbito,'
E disse: lo giuro pel nostro Gesù,
Che se ’l peccato tuo non è punito.
In qualche modo io piglierò virtù
Di levarti da giuoco c da partilo,
Chè con Antea non giostrerrai più tu.
Ch’io gli darò la morte in tua presenzia.
Per darti parte di tua |>enilenzia.
76 E disse: Antea, se vuoi, piglia del campo,
Chè fìa cagion del tuo morir Rinaldo,
Ch’io li farò sentir, s’ io non inciampo,
D’ altro per certo che d’amor pur caldo.
Disse la dama : Non c’ è isnuno scampo.
Se fussi. Orlando, più che muro saldo.
Io ti farò cader per tuo dispetto;
Cosi li sfido, e cosi li prometto.
76 Orlando con grand’ ira il destrier volse ,
E va sbuffando che pareva un toro ;
Cosi del campo la fanciulla tolse.
Poi si voltò, che' non fe ignun dimoro:
Sopra lo scudo del buon conte colse.
Credendo dargli il suo sezzo martoro;
Ruppe la lancia, e non si mosse il muro,
Come avea detto, tanto è forte e duro.'
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340
IL HOHGANTE HAGGIOBE.
77 Maravigliossi di questo la dama,
E disse: Io ero in no pensiero strano.
D’abbatter un tal uom c’ ha tanta fama.
Orlando anco la lancia ruppe invano,
Perchè lo scudo è incantato e la lama;
Dunque le spade pigliavano in mano,
E cominciomo la battaglia insieme.
Per modo che d’ Antea Rinaldo teme.
78 Are’ voluto, tanto è innamorato,
Del suo cugin veder la terra rossa;
E come Orlando il colpo aveva dato.
Gli rimbombava nel cuor la percossa,
E par che ’l petto gli resti intronalo.
Come avviene all’ infermo per la tossa :
E ogni volta con Cristo si cruccia,
E dice l’ orazion della bertuccia.
79 Alcuna volta che Antea superava
Un poco Orlando, egli arebbe voluto
Ch’ ella il giltassi in terra, e sospirava,
E con sue proprie man porgergli aiuto :
Guarda costui quanto Amor lo ’ngannava t
Ch’era di poco di Francia venuto
Con tanta impresa a trarlo di prigione.
Ed or chiedea la sua distruzione.
$0 Or basti questo esemplo a chi m’intende:
Orlando con Antea mirabil pruova
Facea col brando, e costei si difende ,
Però che 1’ arme sua fatala Iruova,
E spesso a lui simil derrate rende;
Ma sopra l’armi sue poco ancor giova.
Però che Orlando tale avea armadura.
Che regge a tulle botte, in modo è dura.
81 Durò tutto quel giorno la battaglia, .
Sanza avanzar l’ un l’ altro di niente.
Da poi che 1’ arme non si rompe o taglia :
Era già il sol caduto in Occidente,
E non restando la fiera puntaglia,
Orlando disse alla dama piacente :
Credo che tempo da ritrarsi sia,
E facendo altro, sare’ villania.
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CANTO DECIII08E8TO.
341
82 Non c’è vergogna, chè non c’é vanlaggio:
Per istasera la guerra è fìnila.
Disse la donna: Io ho per grande oltraggio,
Ch’ io non l' ho fatte qui lasciar la vita :
Ora a tua posta vanne a tuo viaggio.
E cosi fecion del campo partita,
E ritomossi Orlando al suo slazzone,
E la fanciulla al padre al padiglione.
83 E fra tre di promesson ritornare
Alla battaglia, e far quel eh’ è usanza.
Or altra storia ci convien trattare:
Cercato il mondo avea Gan di Maganza,
Com’ e* potessi Rinaldo trovare.
Ma dove fossi non avea certanza ;
Al campo capitò dove è il Soldano,
E dettesi a conoscer eh’ era Gano.
84 E disse che di corte era sbandilo,
E dava tutte a Rinaldo le colpe,
£ che pel mondo alcun tempo era gito,
Per fargli al fln lasciar l’ ossa e le polpe.
Avea il Soldan di Gan mollo sentito,
Com’ egli è malizioso più che volpe,
E più che Giuda tristo e traditore;
E quanto più polca gli fece onore.
85 E raccontò di Persia come era ilo
Il fallo, e come Orlando l'avea presa,
E Chiariella il padre avea tradito,
‘ E che per questo mossa ha tale impresa ;
Però che ’l regno a lui è stabilito.
Ma noi può racquistar sanza contesa;
Ma tanto tempo è disposto far guerra ,
Che torrà loro e la vita e la terra.
S6 E disse come al campo era venuto
Rinaldo e Ulivieri, e ’l conte Orlando,
E come Ricciardetto era caduto.
Ed Ulivier, sanza operare il brando;
E la sua figlia l’ aveva abbattuto,
£ com’ egli ha ì prigioni a suo comando :
Ebbe di questo Gan molla letizia,
£ cominciò a pensar tosto a malizia.
2 »»
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3f2
IL UOBGANTE HAGGIOBB.
87 E dopo molto gran ragionamento
Dicea : Soldano, intendi il mio consiglio;
Combatter con Orlando è fumo al vento,
E’ darà al Gne a’ tuoi prigion di piglio:
Io cercherei d’ avergli a salvamento,
Acciò che non ti fugghin dell’ artiglio,
E non farei in su’ campi più dimoro,
Ma in Babillona me n’andrei con loro.
88 So che Rinaldo tanto ama il fratello,
E cosi Orlando il cognato Ulivieri,
Che ciò che tu vorrai Tarai da quello.
Pur che tu renda lor questi guerrieri;
Io darei presto al vento il mio drappello.
Che non riusciranno qui i pensieri :
E tanto seppe il Soldan confortare.
Che s’ accordava il suo campo levare.
89 Rinaldo con Orlando era tornato
In Persia, e fatta gran disputazione;
Orlando s’ era con lui riscaldato :
Io credo che tu stavi in orazione
Ch’ io fussi da colei preso e legato ;
E quando bene alla tua intenzione
Non riusciva il disegno o Tarchimia,
Dicevi il paternostro della scimia.
90 E forse che di questo era indovino.
Cosi la sera a posar se n’ andorno,
Rimbrottandosi insieme col cugino.
Rinaldo si levò, come fu giorno:
Vide levato il campo saracino
Da nn balcon dond’ e’ vedea d’ intorno ;
Maravigliossi, e gran dolor n’ avea,
Chè riveder mai più non crede Antea.
91 Non si ricorda già di Ricciardetto,
Non si ricorda che Ulivieri è preso.
Ch’egli soleva amar con tanto alTello,
Tanto il foco d’amor drento era acceso;
Al conte Orlando presto andava al letto,
E disse : Hai tu del nuovo caso inteso?
Dal mio balcon testé guardando il piano.
Veggo che il campo ha levato il Soldano.
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CANTO DECIM08BST0.
343
92 Ah, disse Orlando, come esser può questo,
Come può farlo altro che solo Dio,
Che sia di qui partito cosi presto?
O Ulivieri^ o Ricciardetto mio.
Forse che avvolto avete ora il capresto !
Or se’ contento, cugin pazzo e rio?
Or si vendicherà il Soldan de’ torti;
Io ne farò vendetta, se gli ha morti.
93 Qni si bisogna subito riparo,
E tempo non è più d’ essere amante.
E Analmente d’accordo ordinare.
Che Chiartella sposassi Salante,
E ’l regno a questi a governo lasciaro:
E Luciana col sno Balugante
A Saragozza a Marsilio tornassino,
E per lor parte pssai lo ringraziassino.
94 E ben conobbe Luciana, e vede
Ch’ai sno Rinaldo era uscita del core;
Contenta si parti, come ognun crede,
E disse fra sè stessa : Ingrato Amore,
È questo il raerto di mia tanta fede?
Cosi va chi si Ada in amadore.
E ritornossi assai dogliosa al padre
Con Balugante e colle loro squadre.
95 Ordinalo la terra, si partirò
Rinaldo, Orlando, e ’l suo caro scudiere,
E per diverse vie cercando giro,
Dove sien del Soldan le sue bandiere.
Una manina in un bosco apparire.
Dove s’ andava per istran senliere ,
Per {spelonche, per burroni e balze.
Dove vanno le capre appena scalze.
9« E come fumo in mezzo del deserto.
Cinque giganti trovorno assassini,
Che tutto quel paese avien diserto.
Tanto che presso non v’è più vicini:
In una grotta in un luogo coperto
Si riducevan come malandrini,
E una damigella avien con loro
Tutta angosciosa, e con assai marloro.
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344
IL HOBGANTE HAG6I0RE.
f7 Al re Goslanzo l’ avevon rubata.
Ch’era signor della Bellamarìna:
In questa grotta l’ avevon legata,
E molto la sua vita era meschina :
£ come giunse la nostra brigata ,
1/ un de’ giganti a Rinaldo cammina,
E in ogni modo Boiardo volea,
E minacciavai, se non ne scendea.
9S E dice: Tu potrai poi starti meco,
E menerotti per queste contrade ; .
Aiutera’mi a recar ciò ch’io reco,
Chè ogni giorno rubiam queste strade.
Disse Rinaldo : Dunque starò teco,
Se drieto ti verrò per le masnade ?
Tu mi par poco pratico, gigante,
Ch’ io non son uom da star teco per fante.
99 E detto questo, Boiardo scostava ,
Poi cogli sproni in su’ fianchi ferillo.
In modo che tre lanci egli spiccava.
Che gozzivaio non parea ma grillo ;
La lancia abbassa, e ’l gigante trovava:
In mezzo il petto col ferro ferillo,
E passò il cuore al gigante gagliardo,
Ed anco d’ urto gli diè con Boiardo.
100 Un di quegli altri ad Orlando s’accosta,
E ’n sull’elmetto gli dié si gran picchio.
Che se non fossi che rarme fe sosta,
E’ gli levava del capo uno spicchio.
Non si potè riavere a sua posta
Orlando, che pel duol si fece un nicchio,
E tramortito par che giù cascasse.
Ma il fer gigante di sella lo trasse.
101 E portollo di peso un mezzo miglio,
Per gittarlo in un luogo fuor di strada :
Orlando ritornò nel suo consiglio,
Videsi preso, e pigliava la spada,
E ficcolla al gigante in mezzo al ciglio,
Tanto che morto convien che giù vada:
Che per l’ orecchio riuscì dal lato.
Sicché pel colpo il gigante è cascalo.
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CANTO DECIMOSeSTO.
345
'102 Terigi sempre l’ aveva seguito.
Or ritorniamo a Rinaldo, che resta
Nella battaglia dagli altri assalito,
Che forse ai fin gli rompevan la testa.
Se non fussi il cavai ch’ò tanto ardito.
Che morde e trae, e facea gran tempesta :
Tanto che gnun non si vuole accostare;
Donde un gigante cominciò a parlare :
103 Chi tu ti sia. Cristiano o Saracino,
Tu mi par uom da far poco guadagno;
Per mio consiglio, piglia il tuo cammino,
Chè questo tuo destrieri è buon compagno.
Rinaldo s’ avviava e Veglianlino
Cercato ha tanto del suo signor magno.
Che lo trovava, e su rimonta Orlando,
E molto di Rinaldo andò cercando.
104 E Rinaldo di lui cercava ancora.
Non si trovorno, ché smarriti sono:
Della foresta cercano uscir fuora.
Orlando sente per la selva un suono :
Ecco apparir quella fanciulla allora,
Che s’ inginocchia e domanda perdono, ''
K dice come ella fussi scampata.
Mentre eh’ egli era la zuffa appiccala;
• 105 E che gli dessi ed aiuto e conforto.
Orlando di Rinaldo suo domanda ;
Disse la dama : Io so che non è morto.
Ma dove e’ gissi non so da qual banda ;
Andiam cercando,, per Dio, qualche porlo.
Allora Orlando a Dio si raccomanda ,
E cavalcamo il giorno, e poi la notte.
Sempre per balzi e per fossati e grolle.
106 Rinaldo uscito al giorno d’ un burrone.
Comincia del dimestico a trovare:
Truova un pastor che in su ’n un capperone
Certe vivande sue volea mangiare,
E fece insiem con lui colezione :
Mangialo, cominciossi addormentare.
Perchè la notte non avea dormito,
E dal pastor si trovò poi tradito.
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346
IL HOBGANTE MAGGIORE.
107 Questo paslor sopra Baiando arranca ,
Come vide Rinaldo addormentalo ;
Vede Rinaldo che ’l deslrier gli manca,
Che si desiò, perch’egli avea sognalo,
Ch’ an gran lion l’ avea preso |>er l’anca ;
E disse : Or sono io ben male arrivalo I
E ’l me’ che può solello ne va a piede,
Perchè Baiando e ’l paslor non rivede.
lOS Questo paslor n’ andò a una città ,
Dove il Soldan teneva il suo tesoro:
Il mastro giustizier, che qui^i sta,
Vide il cavallo a quell’ uom grosso e soro,'
E quel che ne volea domandato ha:
Costui chiedea trecento dobbre d’oro;
Onde e’ rispose : Io vo’ veder provallo;
E quel paslor di spron dette al cavallo.
109 Baiando conosceva a chi egli è sotto :
Subitamente prese in aria un salto
Onde il paslor, che all’arte non è dotto.
Si ritrovò di fallo in sullo smallo,
E del petto due costole s’ ha rotto.
Il giustizier, che ’l vide levar allo.
Disse al paslor: Questo è pel tuo peccato.
Ch’io so che questo cavallo hai imbolalo.
110 Poi gli fece i danari annoverare.
Or ritorniamo a Rinaldo, ch’andava
Sanza veder dov’ egli abbi arrivare,
E Ricciardetto e Ulivier chiamava :
A questo modo vi vengo aiutare?
Quando d’ Orlando si rammaricava:
Dove lascialo l’ ho, cugin mio buono.
Nel bosco, e io dove arrivato sono?
IH O Carlo Magno, ben sarai contento,
O Ganellon, bene arai allegrezza,
O Chiaramonle, il tuo rigoglio è spento,
0 Montalban, tu tornerai in bassezza;
0 buon (ìuieciardo, dove è il tuo ardimento?
0 donna mia^ dov’ è tua gentilezza?
0 caro Astolfo mio, come farai?
Omè, Rinaldo, .che via piglierai?
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Canto decihosbsto.
347
112 E cosi lamentando, capiioe
A Babillona per molte contrade ;
Essendo presso, on Pagan risconlroe,
E domandollo di quella cittade;
Onde il Pagan ridendo lo betfoe,
Quando lo vide cosi in povectade:
Tu hai gli spron, dicea, dov’è ’l ronzino?
Tu ’l debbi aver gìucalo pel cammino.
113 Donde Rinaldo s’adirò con quello,
Disse: Per Dio, tu pagherai lo scotto;
Prese la briglia, e colui pel mantello,
E disse: Io vo’ 1’ alfana che tu hai sotto,
E serba tu gli spron, ribaldo e fello:
Poi trasse fuoc Frusberta, e non fe motto,
E dettegli un rovescio alla francesca,
Che lo tagliò pel mezzo alla turchcsca.
114 Morto costui, innanzi gli venia
Un altro che parea buona persona :
Disse Rinaldo: Dimmi in cortesia.
Questa città com’ella si ragiona?
Colui rispose sanza villania:
Sappi che questa è la gran Babillona,
E Babillona si chiama maggiore ,
E il Soldan deH’Amecche n’è signore.
115 Ed ecci una figliuola del Soldano,
Che molto afililta mena la sua vita,
Ed èssi innamorata d’ un Cristiano,
£ duolsi che noi vide alla parlila:
Sento ch’egli è non so che Montalbano:
Tant’è, che per lui par tutta smarrita,
E tutta solitaria è fatta questa.
Che solea la città tener già in festa.
116 Or io t’ho detto più che non domandi:
S’ altro tu vuoi da me, chiedi tu stesso,
Ch’ io ’l farò volentier pur che comandi,
Chè certo un uom gentil mi par da presso.
Disse Rinaldo: Troppo me ne mandi
Contento, se ’l tuo nome mi di’ adesso.
Dicea il Pagan: Sia fallo e volentieri
Ciò che tu vuoi ; chiamalo son Gualtieri.
348
IL M0B6ANTB MAGGIORE.
117 E se ti piace, io vo’leco venire
Dove tu vai, ch’io son uom poveretto,
Non ho faccende o roba da partire,
E d’ esserti fedel giuro e prometto :
Quando Rinaldo cosi ode dire.
Disse: Gualtier, per buon fratei faccetto;
Come nell’altro dir vi sarà porlo.
Cristo vi guardi, e dia pace e conforto.
NO
IT. valimenio. Valore.
2S. itaffa. Stramento da suonare,
fatto di ferro a guisa dì staffa , con
Bienne campanelle. Si dice anche staf-
fetta. — cemmamelle. Strumento a
modo di due piatti o bacini che si
suona colle mani , picchiando 1’ nno
contro l’altro. — tveglioni. Sveglie
grandi. Era la sveglia uno strumento
antico da suonare col fiato, del quale
s’è perduto l’uso.
31 . Europia. Per comodo della ri-
ma in vece d’ Europa, rapita da Giove
in forma di Toro. Rammenta qui il
Poeta varìi numi ed eroi, i quali, egli
dioe , so avessero conosciuto Antea ,
non si sarebbero innamorati d’ altra
donna.
39. Che può ferirmi ec. È noto
come la lancia d’ Achille , figlinolo di
Peleo, feriva ad un tempo e sanava.
41. far... cornamusa. Vale, dar-
gli ad intendere cosa non credibile o
stravagante.
54. tu bussi a formica di torba.
Modo di dire tratto da ciò che quella
specie di formiche che stanno nel sor-
bo, per quanto altri dia percosse nel- .
1’ albero, esse non escono mai fuori ;
laddove quelle che abitano nei ceppi
degli altri alberi, sbucano tosto per
ogni pìccola percossa. Vedi Varchi ,
Ercolano.
58. Mutali il cappuccio. Impe-
rocché tu se’ macchiato della medesi-
ma pece. Rinaldo rimproverò gìé Oli-
vieri pereb’ egli era come 1’ asìn del
pentolaio, e appiccava il maio ad ogni
TE.
uscio. — Chi vi cercatti ee. Chi ri-
cercasse per entro attentamente a que-
sto negozio. — farina da cialde. Fa-
rina, pura, schietta.
65. E l’elefante. Questo corno
era d’avorio, che è dente d’elefante.
78. C oraiion della bertuccia.
Dire 1’ orazione o il paternostro della
bertnccia è mormorare o bestemmiare
fra’ denti e sotto voce. E si dice cosi,
perchè colui che borbotta fra i denti
fa con la bocca quei moti e gesti che la
bertuccia suol fare quando è in rab-
bia ; sicché pare che ella borbotti e di-
scorra fra sé, come se dicesse orazioni.
82. ttatzone. È voce antica, e si-
gnifica stazione, abitazione.
89. archimia. Alchimia: 1’ arte
dì raffinare , mescolare ed alterare i
metalli. Secondo il Bociarto questa
voce viene dalla particella araba al e
dal verbo pure arabo chima, che si-
gnifica occultare.
99. goxzivaio. Specie d’ animale
COSI detto dall’avere il color della pelle
vaio e nereggiante.
106. capperone. Gappuccìo con-
tadinesco o da vetturali, ebe si metta-
no in capo sopra il cappello quando
e’ piove.
108. toro. Dicesi d’uccello di ra-
pina, avanti eh’ egli abbia mudato, ma
che però abbia volato ; e figuratamente
d’ uomo semplice cd inesperto . —
dobbre. Doppie; monete d’oro.
114. coni' ella ti ragiona. Come
si chiami. — dell' Àmecche. Della
Mecca.
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CAJVTO DECiaiOSETTUHO.
^m<oiDiQaav9»
Ecco Rioaldo a Babbillona, ed ecco
Gano attorno al Soldano , acciò disperso
llesti Rinaldo da quel Veglio becco,
Che SD in montagna la suona a traverso :
Gano modella poi con altro stecco ,
E cootra Muntalban IMra ba converso:
Antea l’assedia , allor cb’ altrove Orlando
La figlia al re Éalcon sta liberando.
1 Vergine innanzi al parto, e ora e sempre
Vergine para, Vergine beata,
Vergine che ’l tuo figlio in ciel contempre,
Vergine degna. Vergine sacrala,
Vergine, ch’ogni cosa guidi e tempre,
Vergine con Gesù nostra avvocata,
Vergine piena di grazia e di gloria,
Vergine eterna, aiuta la mia storia.
S Sappi, eh’ io son colui per cui sospira
Nella città Ja 6glia del Soldano;
Ma la Torlnna, che sue rote gira.
M’ha qui condotto cogli sproni in mano,
E di me fallo il berzaglio e la mira;
Or pur torrai quest’ alfana. Pagano,
Chè ’l mio cavallo ho perduto Boiardo,
£ il mio cugin, che mai fu il più gagliardo.
3 Nella città n’ andrai subito a quella;
Di che Rinaldo in sul campo l’ aspetta
Alla battaglia, armalo, non in sella.
Che vuol de’ suoi prigion far la vendetta:
Vedrai che gli parrà buona novella.
Gualtier sopra l’ alfana si rassetta,
E presto in Babillona andava a Antea,
E quel c’ ba detto Rinaldo, dicea.
30
350
IL HORGANTE MAGGIORE.
4 Diceva Anlea: Può farlo la fortuna,
Che sia Rinaldo, e sia cosi soletto
Sanza cavallo, o compas^nia nessuna?
E corse a Ulivieri e Ricciardetto,
E disse: Or non temete cosa alcuna:
Perchè sapea che vivon con sospetto ;
E quanto più potea gli confortava,
Che per amor di Rinaldo gli amava.
h E Ricciardetto avea trattato in modo.
Che mai nessun disagio comportoe.
Tanto la strigne P amoroso nodo.
Poi, fatto questo, al Soldati se n’andoc:
Voi non sapete, disse, quel ch’io odo.
Però quel c’ ho sentito vi diroe:
Rinaldo fuor m’aspetta delle mura,
A piè, soletto, sol coll’ armadura.
e II Soldan disse: Molto strano è il caso,
Ch’ un cavalier di tanta nominanza
Cosi sanza cavai sia sol rimaso ;
E disse : Che di’ tu, Gan di Maganza,
Che se’ d’ ogni scienza e virtù vaso?
Sai che Rinaldo ha pur molta possanza.
Nè la fortuna ritentar vorrei ;
Per tanto il tuo consiglio caro arei.
7 Forse che Gano ebbe a pensare a questo,
Ch’avea di tradimenti pieno il seno,
E la risposta apparecchiala ha presto ;
Disse: Soldan, s’a mio modo fareno.
Non metlerem cosi in un tratto il resto ;
Ma minor posta eh’ Antea meltereno:
Se Rinaldo ama là donna famosa.
Credi per lei che farebbe ogni cosa.
8 E’ c’è quel Veglio antico maledetto,
Che sta nella montagna d’Aspracorte,
E lotto il regno tuo tiene in sospetto:
La tua fanciulla con parole accorte
Conchiugga con Rinaldo questo effetto.
Che se a quel Veglio dar crede la morte ,
Che riarà i prigioni, e tutti i patti
Gli osserverai che in Persia furon fatti.
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CANTO DECIMOSETTIHO.
3»1
9 Era il Soldan uom molto scozzonato,
E ’ntese ben che lo manda alla mazza,
E fra sè disse: Che uom scellerato!
Ecco ben traditor di fine razzai
Rispose: Io lodo quel c’ hai consigliato;
Ogni altra cosa sare’ forse pazza.
E la sua figlia confortò eh’ andassi
Al suo Rinaldo, e questo domandassi.
10 Ella rispose al Soldan, ch’era presta,
E quanto più potè si facea bella:
Messesi indosso una leggiadra vesta.
Ove fiammeggia d’oro alcuna stella
Nel campo azzurro, molto ben contesta
Di seta ricca, e poi montava in sella
Con due sergenti, e non volle armadura,
Ed a Rinaldo andò fuor delle mura.
11 Quando Rinaldo Antea vede venire,
Sente nel cuor di subito un riprezzo
D’amor, che gliel facea per forza aprire:
Ecco il Sol, disse, fra le stelle in mezzo.
Giunse la donna che ’l facea morire.
Vide che s’ era a seder posto al rezzo ,
Appiè d’ un moro gelso in sulla strada,
In sul pomo appoggiato della spada.
12 E disse : Mille salate a Rinaldo :
Qual fato ingiusto o qual fortuna vuole,
Ch’ a piè soletto cammini pel caldo?
Quando Rinaldo senti le parole,
Non potea il cor nel petto stargli saldo ,
E disse : Ben ne venga il mio bel sole ;
Qual grazia qui li manda a confortarmi?
Ma dimmi, dov’ hai tu lasciato l’ armi?
13 Rispose la fanciulla: Ah puro e soro,
A quel che ci bisogna ogni arme è buona:
Ch’ io doverrei per uscir di marloro.
Far come Tisbe mia di Babillona,
Poi che noi siamo appiè del gelso moro.
Della cui fede ancor la fama suona :
E forse del mio amor costante e degno
In qualche modo il ciel farebbe segno.
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3K2
IL UOHGANTE MAGGIORE.
14 Io SOI) venata, perchè il padre mio
Vuol ch’io ti dica quel che intenderai,
Gh’ un nostro gran nimico antico e rio.
Se tu 1’ uccidi, i tuoi prigioni arai,
E ciò che in Persia già ti promissi io :
Non so se ricordar sentito I’ hai ;
hla molto suona la sua possa magna,'
Il Veglio appellato è della montagna.
15 £ statti d’ogni cosa alla mia fede.
Se tu farai, Rinaldo, quel ch’io dico;
Ma dimmi come sia rimase a piede,
E ch’io non veggo Orlando qui il tuo amico:
Piglia questo cavai, che, per mia fede.
Se non l’accetti, sarai mio nimico.
Disse Rinaldo : In un deserto follo
Rimase Orlando, e ’l deslrier mi fa tolto.
16 11 me’ eh’ io posso mi son qui condotto:
L’ amor eh’ io porto a Àntea me lo fa fare,
£ son venuto a piè più che di trotto;
Nè voglio altro cavai mai cavalcare,
Infìn che ’l mio Baiardo non m’ è sotto:
Or perchè sempre mi puoi comandare.
Colui , che di’ di montagna o di bosco,
Fammi assaper, eh’ io per me noi conosco.
17 £ s’egli avessi la testa di ferro.
Per lo tuo amor due pezzi ne faroe;
Cosi ti giuro, e so che mai non erro,
£ d’ ogni cosa in le mi fideroe
Di ciò che fu ne’ palli, s’ io l’ atterro.
Rispose Antea : Con teco manderoe
Un de’ miei mamalucchi, che là vegni,
£ questo càn malfusso te lo ’nsegni.
1S Io mi ritorno drento alla città,
Chè tempo non è or da far soggiorno:
A’ tuoi prigioni niente mancherà.
Ch’io gli ho sempre onorati notte e giorno:
£ libero ciascun di lor sarà ,
Rinaldo, in ogni modo al tuo ritorno;
Macon sia teco. E poi voltò il cavallo,
Chè ’n volto più non solferia guardallo.
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CANTO DBCIMOSETTIHO.
3S3
19 E rilornossi sospirando drento,
E ridiceva al Soldano ogni cosa:
Non domandar come Gan fu contento:
Dell’allegrezza non trovava posa;
E perchè e’ Tassi doppio il tradimento ,
Disse cosi: Se tu vuoi còr la rosa
A tempo, e sanza pugnarti la mano,
Un altro bel partito c’è, Soldano.
20 Rinaldo non arà col Veglio scampo:
Or mi parrebbe la tua figlia andassi
A Montalbano intanto a porre il campo,
E bastere’ trentamila menassi.
Prima che sia ralTreddo questo vampo:
Orlando non v’ è,or, che rimediassi.
Ma sol Guicciardo, Alardo e Malagigi;
E, preso Montalban, preso è Parigi.
21 Questo Ulivieri e questo Ricciardetto
De’ miglior paladin son eh’ abbi Carlo :
Carlo in Parigi è rimaso solello,
E per paura attenderà a guardarlo:
Qui è il partilo vinto, e ’l giuoco netto.
Pur che tu sappi, signor mio, pigliarlo:
Donde al Soldan troppo la ’impresa piace,
E ciò c’ha detto Gan, gli fu cajiace.
22 E la figliuola scongiurava , e priega,
Che ora è tem|io acquistar qualche fama;
Ma la fanciulla al principio ciò niega.
Come colei che Rinaldo molto ama:
E molto saviamente al padre allega.
Che sempre più l’ onor che 1’ util brama,
E che Rinaldo voleva aspettare,
E ciò eh’ aveva promesso osservare.
23 II padre rispondea: Prima che torni
Dal Veglio, o eh’ e’ gli dia si tosto morie,
• Saranno trapassati molti giorni:
Tu sarai a Montalban prima alle porle
Co’ tuoi stendardi, e’ tuoi baroni adorni:
E oltre a questo. Orlando or non è in corte,
Nè Ricciardetto, Ulivieri o Rinaldo;
Però balliamo il ferro mentre è caldo.
30 *
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354
IL HOBGANTE MAGGIORE.
24 Quando Rinaldo sarà ritornato,
Perch’io m’avveggo tu gli porli amore,
Ciò che promesso gli hai tìa osservato,
E giusto il mio poter farengli onore.
Tanto che in Persia si sia ritornato:
Quivi si poserà, sendo signore:
Direm che nella Mecca tu sia andata,
E ’n pochi giorni qui sarai tornata.
25 Gano in sul fallo diceva parole,
Ch’eran tutte de’ colpi del maestro:
Quando Anlea vide che ’l Soldan por vuole.
Rispose che parala era a suo destro:
Fannosi insegne, come far si suole,
E fornimenti pel luogo campestro.
Padiglioni e trabacche s’apparecchia,
E tutta l’arme si ritroova vecchia.
26 Non credo che mai tanto martellassi
In Mongibello il gran fabbro Vulcano,
Quanto per tutta Babillona fassi:
E chi portava l’arco soriano.
Racconcia le saette co’ turcassi;
Chi la sua scimitarra piglia in mano,
E vuol veder s’ eli’ è di tutta pruova;
Chi briglie e selle, e chi staffe rinnuova.
27 In pochi giorni son tutti assettati,
E diè il Soldan le sue benedizioni
Alla figliuola, e sono accommiatati,
E dati tutti al vento i lor pennoni:
- Guardava Anlea que’ cavalieri armati,
E tutti gli vagheggia in sogli arcioni,
E dice : lo vedrò pur Crislianitade,
Castella e ville e l’ altre sue contrade.
28 Le sue marine, i boschi, i monti e ’i piano,
E ’l bel castel che guarda Malagigi
Del mio Rinaldo, detto Montalbano; *
Vedrò la bella chiesa San Dionigi : «
Vedrò il Danese, Astolfo e Carlo Mano,
Quand’ io sarò a combatter poi a Parigi :
E s’ io lorrò a Rinaldo il suo castello.
Potrò ciò eh’ io vorrò poi aver da quello.
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CANTO DECIHOSETTIHO. 3SS
29 Combatterò co’ paladini ancora :
Rinaldo tornerà, cosi Orlando,
£ proverromnii con lor forse allora :
La fama insino al ciel n’andrà volando.
Cosi di queste cose s’innamora,
Mentre che a ciò pensava cavalcando.
Come colei che sol bramava onore,
£ mollo generoso aveva il core.
30 Gan per la via con lei mollo parlava.
Ch’era con essa a farli compagnia:
Cosi faremo, e molto confortava.
Dicendo spesso: Per la fede mia.
Del traditor Rinaldo non mi grava;
£’non ci va due mesi, che in balia
Arele tutto il reame di Francia,
Sanza operare spada molto o lancia.
31 Io ho parenti e amici in ogni lato,
E non ha Carlo si fidata terra.
Ch’io non sappi ordinar qualche trattalo.
Come e’ vedranno appiccala la guerra.
Diceva Antea: Guata uom bene ostinato!
Chi dice traditor, certo non erra;
Che se di questo il mio giudizio è saldo.
Non vidi alla mia vita un tal ribaldo.
32 Cosi costor ne vanno a Monlalbano.
Or ritorniamo un poco al suo signore:
Rinaldo e ’l mamalucco del Soldano
Vanno a quel Veglio crudo e peccatore.
Dicea Rinaldo allo scudier pagano:
Monta in su quest’ alfana per mio amore,
Chè insin che ’l mio cavai non Iroverroe,
Altro destrier giammai cavalcheroe.
53 Non voleva il Pagan per reverenza.
Ma poi per reverenza anco l’accella:
Vanno parlando della gran potenza
Di queir aspra persona e maladetta.
Diceva 11 mamalucco: Abbi avvertenza.
Che la sua branca addosso non ti metta.
Rinaldo rispondea : Tu riderai,
Chè maggior bestia son di lui assai.
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Vi6
IL MORGANTE MAGGIORE.
34 Poi che furono entrati in un gran bosco,
In mezzo a quel trovorno un gran burrone
Diserto, oscuro, e tenebroso, e fosco:
Disse il Pagan: Qui sta quel can ghiottone
In quel palagio che vedi; io il conosco
Insin di qua, eh’ io ’l veggo a un balcone.
£ mostra quello a Rinaldo, che stava
Alla finestra, e pel bosco guardava.
35 Com’ e’ vide apparir Rinaldo, forte
Gridò da quel balcon : Che gente è questa ?
Che andate voi cercando qua la morte?
Venne alla porla con molla tempesta.
Disse Rinaldo : A le sanza altre scorte
Venuti siam per l’oscura foresta,
E vengo a dare a te quel che ha’ tu dello,
Per onta e disonor di Macometlo.
33 So che tu se’ del gran Soldan nimico,
E son venuto qui per vendicano
Di ciò che fatto gli hai pel tempo antico,
Chè contro lui commesso hai più d’ un fallo.
Rispose il Veglio : lo fui sempre suo amico
Per ogni tempo, e lutto il mondo salto;
E perchè cavalìer mi par da bene,
Vo’ che tu intenda onde tal cosa viene.
37 Questo Soldan, già sendo a^ddormentato,
Una mattina in vision vedea.
Che sendo sopra il suo cavallo armalo,
Una montagna addosso gli cadea;
E ha per questo sogno interpretato.
Ch’io sia quel desso, e già ci mandò Anlea
A combatter con meco, e finalmente
Della battaglia si parli perdente.
38 Questo sospetto fa che mi persegua,
E cerchi quanto e’ può lormi la vita,
Sanza voler con meco accordo o Iriegua :
Ma se questa sentenzia è stabilita
In ciel, se innanzi a me non si dilegua ,
Convien che finalmente sia esaudita ;
Or se tu se’ venuto qua a sfidarmi.
Aspetta tanto eh’ io prenda mie armi.
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CANTO 'DBCIMOSETTIMO.
35Y
39 Disse Rinaldo: In ogni modo voglio,
Che lu ti vesta tutta tua armadora,
Ché altrimenti combatter non soglio:
Vedrein come al mio brando sarà dura ;
E forse ti farò giù por I’ orgoglio,
E più il Soldan non istarà in paura :
Armossi il Veglio allor di tutta botta
Di pelle di serpente dura e cotta.
40 E tolse per ispada un mazzafrusto.
Con tre palle di piombo incatenate,
Ferrato, nocchieruto, grave e giusto,
E ritornò a Rinaldo immediate ;
E disse : Io ti farò mutar di gusto.
Come tu assaggi di queste picchiate ;
Che s’ io l’accocco una palla di piombo.
Di Babillona s’ udirà il rimbombo.
41 Ma vo’ che lo mi dica, se ti piace.
Il nome tuo, e se tu se’ Pagano,
Poi che tu parli si su(>erbo c audace,
E vuoi far le vendette del Soldano.
Disse Rinaldo: Ciò non mi dispiace;
10 sono il gran signor di Montalbano,
E {>cr amor d’ Antca vengo a ammazzarli,
Ché lo farò, pria che da me li parli.
42 E so che per la gola. Veglio, menti,
Ch’ alla battaglia vincessi colei;
Non sette come le co’ tuoi parenti:
Oltre, io ti sfido per amor di lei ;
Ed hogli fatti mille sacramenti,
Che sanza il capo tuo non tornerei ;
E nel partir mi donò questa stella
D’ una sua vesta che avea mollo bella :
43 Ed io gli donerò, per cambio a questo,
11 capo tuo, malvagio traditore.
Turbossi il Veglio nella fronte presto,
Quand’e’ senti chi era quel signore,
E se russi il partirsi stalo onesto.
Si dipartia, si gli tremava il core;
Ma per vergogna il mazzafrusto alzoc,
E con Rinaldo la zuffa appiccoe.
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358
IL MORGANTE MAGGIORE.
44 Rinaldo aveva gli occhi a quelle palle,
Ch’un tratto che l’avessin fatto colla.
Gli facevon le gole altro che gialle ;
Pur s’ appiccorno alcuna qualche volta.
Che non potè cosi netto schifalle,
Tanto che l’ elmo sonava a raccolta :
Dunque convien ch’ogni suo ingegno adopre,
E collo scudo e col brando si cuopre.
45 E come e’ vede la mazza caduta,
Il me’ che può colla spada il punzecchia.
Quando alle gambe, quando alla barbuta;
('oli’ altro braccio lo scudo apparecchia.
Per riparare ; e ’n tal modo s’ aiuta,
Chè lo schermire era l’arte sua vecchia;
Ma ogni volta riparar non puossi,
E spesso coir un piede inginocchiossi.
46 Quand’ ebbon combattuto un’ ora o piue,
Rinaldo un tratto Frusberta su alza,
Per mostrare a quel colpo sua virine ;
Un cappellaccio ch’egli avea giù balza,
Per la percossa, che si aspra foe,
Che ’l crndel Veglio la terra rincalza :
E cadde come il tordo sbalordito,
Tanto eh' un |)ezzo stette tramortito.
47 E risentilo disse : Cavaliere,
Io mi t’arrendo, e dommi tuo prigione.
Che mi potevi uccidere a giacere :
Da ora innanzi, famoso barone,
Di mia persona fanne il tuo volere.
Disse Rinaldo : Per mio compagnone
T’accetto, e tua persona franca e degna
Con meco in compagnia vo' che ne vegna.
48 Rispose il Veglio : Io son molto contento
Seguitar cavalier tanto giocondo,
E vo’ che sia tuo sempre a tuo talento
Questo palagio, e ciò eh’ i’ ho nel mondo,
E s’ altro c’ è che li sia in piacimento.
Rinaldo disse: A questo sol rispondo.
Che tu ci dessi da far colazione,
Ch’ ognun ci piglierebbe oggi al boccone.
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Cìnto decihosettimo.
49 Noi abbiam per on deserto camminato,
Dove pan non si Iruova nè farina,
E so che ’l mio com[>agno anco è afTamato,
Ch’era a cavai, pensa chi a piè cammina:
Abbiam sanza vigilia diginnato,
Chè ci partimmo per tempo ier mattina.
II Veglio'apparecchiar facea vivande,
E fece loro onor subito, c grande :
60 E stanno cosi insieme a riposarsi.
Or ritorniamo ov’io lasciai Antea,
Ch’ a Montalban cominciava appressarsi ;
Tanto che un giorno alle mura giugnea,
£ con sua gente comincia accamparsi :
E poi mandò, come Gan gli dicea,
Un messaggier di subito al castello
Al buon Guicciardo e l’ altro suo fratello.
61 II messo andò colla ’mbasciata in fretta,
£ disse, come del Soldan la figlia
Era venuta con molta sua setta ;
E che non abbin di ciò maraviglia.
Però che questo è fatto per vendetta
Del lor fratei contro alla sua famiglia :
Che mandin giù le chiavi del castello,
0 vengan sopra il campo a salvar quello.
62 Guicciardo a quel messaggio rispondea.
Che non sa che vendetta o che cagione
A quest’impresa commossa abbi Antea,
£ che restava pien d’ ammirazione.
E che le chiavi ch’ella gli chiedea
Gli porterebbe lui sopra l’arcione.
Per dargliel colla punta della lancia ,
Chè cosi era il costume di Francia.
63 Torna il messaggio, e fece la ’mbasciata,
Della qual cosa Antea seco sorrise :
Guicciardo con Alardo e sua brigata
L’altra mattina ognun l’ arme si mise,
E tutta fu la terra rafforzata,
E colle sbarre le strade ricise ;
E vennon in sul campo armati in sella.
Dove aspettava la gentil donzella.
380
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360
IL HORGANTE MAGGIORE.
64 La qual, come costor vide venire,
Feccsi incontro benigna e modesta,
E dicea seco: E’ non posson disdire,
Che non sien di Rinaldo e di sua gesta.
Tanto sopra il cavai mostran d’ ardire;
L’ aspetto e ’l modo lor lo manifesta :
E di Rinaldo suo pur si risente,
E salutògli graziosamente.
65 E disse: Tu che innanzi agli altri guardo
Sanza che ’l nome tuo più oltre dica.
Se’ quel gentil baron detto Guicciardo,
Dove ogni gentilezza si nutrica;
Quell’ altro cavalier chiamato è Alardo,
in cui. risorge ogni eccellenzia antica :
Ma dimmi, ove hai tu lasciate le chiavi.
Che in sulla lancia dicesti arrecavi ?
66 Guicciardo gli rispose : 0 damigella.
Io non so la cagion della tua impresa.
Ma poi che cosi è, venuto in sella
Sono in sul campo per la mia difesa ;
E certo tu mi par donna si bella ,
Che di combatter con teco mi pesa :
Se ignun de’ miei t’ ha fatto mancamento.
Per la mia fé eh’ io ne son malcontento.
67 E arei caro intender qual sia quello
Che l’abbi fatto ingiuria, ove, o in qual parte,
Per darti poi le chiavi del castello,
Chè In mi par, qnand’ io ti guato, Marte :
Nè altro fuor eh’ un mio carnai fratello,
E ’l mio engin maestro di quest’arte.
Cioè Orlando e Rinaldo d’Amone,
Vidi star meglio armalo in sull’ arcione.
68 Rispose allora a Guicciardo la dama :
Per gentilezza e non per nimistate.
Per acquistar con teco in arme fama,
Vengo a combatter la vostra ditate.
Disse Guicciardo : Se questa sì chiama,
Gentil madonna, come voi pariate,
Forse eh’ eli’ è gentilezza in Scria,
Ma in Francia nostra mi par villania.
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CANTO DECIMOSETTIMO.
361
M Pur se con meco volete provarvi,
Contento son, ma facciam questo patto,
Che a Babillona dobbiate tornarvi
Con tutta vostra gente, s’ io v’abbatto;
Se mi vincete, il castel vo’ donarvi.
Rispose Antea: Per Macon, ciò sia fatto;
Piglia del campo, gentil mio Guicciardo,
Ch’ io proverrò come sarai gagliardo.
60 Preso del campo, le lance abbassare,
E vengonsi a ferir con gran fierezza ;
E poi che insieme i destrier s’ accostare.
Il buon Guicciardo la sua lancia spezza,
E molti tronchi per l’ aria n’ andaro ;
Ma la fanciulla il colpo poco apprezza,
E per tal modo Guicciardo ha ferito.
Che di cadere al fin prese partito.
61 Di.sse la dama: Tu se’ mio prigione.
Io vo’ provarmi con quell’ altro ancora.
E mandò via Guicciardo al padiglione,
E ’nverso Alardo s’ accostava allora,
E disse : Piglia del campo, barone.
Poi che Guicciardo della sella è fuora.
Alardo presto allor del campo tolse,
E l’ uno incontro all’ altro il destrier volse.
62 Vanno più presto eh’ uccello, o saetta
' Di buon balestro o arco diserrata,
E pensa ognun la lancia in resta metta,
Quando fu tempo d’ averla abbassala :
E come insieme furono alla stretta.
Tremò la terra, e parve impaurata.
Tanto Antea grida, e ’l suo cavai conforta.
Che ’l suo signor come un dra'go ne porta.
63 Alardo nello scudo appiccò il ferro,
E fece colia lancia il suo dovuto ;
Ma poco valse il colpo, s’io non erro.
Che noi passò, benché sia molto acuto.
Perchè non era una foglia di cerro :
E ilnalmente restava abbattuto,
Ch’ al colpo della donna non s’ attenne ;
Tanto eh’ a lui come a quell’ altro avvenne,
31
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362 •
IL MORGANTE MAGGIORE.
64 E funne al padiglion preso menato.
Quivi allor Ganellon con lei s’ accosta :
Disse la Dama a Gan : G’ hai tu pensato
Far di costor? rispondimi a tua posta.
Quel traditor, che slava apparecchiato,
Non ebbe troppo a pensar la risposta,
E disse: Dama, a voler giucar netto.
Io gli farei impiccar ; questo è in effetto.
63 Rispose la figliuola del Soldano :
Non dubitate, cavalier, d’Antea;
Colui, per cui tenete Montalbano,
Giostrò con meco, c so che mi potea
Uccider colla lancia eh’ avea in mano,
Ma noi sofferse il ben che mi volea;
E per suo amor vo’ render guiderdone,
E non sarà contento Ganellone.
66 Io giostrai in Persia col vostro Ulivieri ,
E vinsilo, e cosi poi Ricciardetto,
Quantunque io noi facessi volentieri,
E molto duol ne sento, vi prometto ;
Però eh’ io gli ho lasciali prigionieri
Al padre mio, c stonne con sospetto:
Rinaldo è ilo acquistar per suo meglio
Della montagna quell’ antico Veglio.
67 E come questo acquistato sarà.
Gli renderà i prigioni il padre mio ;
E so che presto ne verranno in qua;
Della qual cosa i’ ho troppo disio:
Nè intìn che sia tornato, il cor mi sta
Contento drenlo al petto, pel mio Dio:
Or questo traditor can rinnegato
Si pentirà di quel c’ ha consiglialo.
65 E feccgli imbottire il giubberello
Da quattro mamalucchi co’ bastoni ;
Nè mai campana suonò si a martello.
Quanto e’ sonavan le percussioni :
Guicciardo ne godea, cosi il fratello.
Poi che battuto fu , que’ compagnoni
Lo rizzon so con ischerno e con beffe.
Dicendo tutti : Nafferi bizzeffe.
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CINTO DECIHOSETTIMO.
363
69 Non intendeva Gan questo linguaggio,
Se non che la.fanciuUa gliel chiari :
I mamalucchi voglion per vantaggio
Per ogni bastonata nn nasseri
Da ogni peccator che fanno oltraggio :
Or vedi, Ganellon, la cosa è qui;
II tradimento a molti piace assai,
Ma il traditore a niun non piacque mai.
70 Cosi in parte portò la pcnilenzia
Il traditor di Gan de’ suoi peccati,
Chè per occulta è divina sentenzia
Sono assai volte i nostri err'or purgati ;
Ma voglionsi portar con pazicnzia,
Non come Giuda andar tra’ disperati :
Dunque e’ si vede alfin la sua vendetta
Per qualche via, chi luogo e tempo aspetta-
71 Guicciardo ringraziò quanto più puole
La damigella di quel eh’ avea fatto ;
Ma per dolore il petto si percuote,
Gh’ Ulivier di prigion non era tratto
E Ricciardetto, e bagnava le gole.
Temendo che il Soldan non rompa il pàtio :
Ma quanto può, dà lor costei conforto,
Ch’ a niun di lor non sarà fatto torto.
72 Allor pregorno Guicciardo e ’l fratello :
Piacciali, Anlea, venire in cortesia
A star del tuo Rinaldo nel castello.
Tanto che torni in qua di Pagania;
Non ti bisogna ornai combatter quello,
Ogni cosa li diamo in tua balia.
Della qual cosa fu costei contenta;
E Ganellon nella prigione stenla.
73 Lasciamo Antea, che slava a suo piacere
A Montalbano, e ’l suo Rinaldo aspetta;
E mollo onor secondo il lor potere
Fanno i Cristiani a questa donna eletta.
Orlando va con mollo dispiacere
Con quella sventurata poveretta.
Come dicemmo, che s’era fuggita
Da que’ giganti, per campar la vita.
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364
IL MORGANTE MAGGIORE.
74 Ove se’ tu, dicendo, fralel mio?
Ove lasciato m’hai cosi meschino?
Ove vai tu? perchè non son teco io?
Ove mi gnidi, mio buon Vegliantino?
Ove capilerem? questo sa Dio :
Ove, 0 in qual parte ha nostro cammino?
Ove guido costei per questi boschi ?
Ove troviam qualcun che la conoschi?
75 Io maladico la fortuna ria.
Io maladico Persia e l’Amostanle,
Io maladico la disgrazia mia.
Io maladico la gente affricante;
Io maladico il soldan di Soria,
Io maladico Anlea che volle amante.
Io maladico Amor che n’ è cagione,
Io maladico il nostro -Ganellone.
' 76 Sentendo la fanciulla lamentare
Orlando, gran pietà gli venia al core.
Dicendo: Lasso, non ti disperare,
Raccomàndati a Dio giusto Signore,
Che non ci voglia cosi abbandonare.
Orlando disse: Dama, per mio amore,
Cavalca innanzi un po’ col mìo scudiere,
Ch’ io vo’ soletto alquanto rimanere.
77 Terigi e la fanciulla s’ avvine :
Orlando allor di Vegliantino scese,
£ in terra nella via s’ inginocchioe.
Le braccia al cielo umilmente distese,
E ’l suo Gesù, come solea, adorne,
E la sua Madre, che in qualche paese
Lo conducessi fuor di quei burrone ;
E in questo modo fu la sua orazione.
78 0 sommo Padre giusto onnipotente,
O Vergine, in cui sol sempre sperai,
0 Redentor della cristiana gente ;
Io non mi leverò di terra mai.
Se prima non m’ allumini la mente.
Là dove il mio cugin condotto l’ hai,
0 s’egli'è vivo 0 morto o incarcerato,
O sano, 0 infermo, o dove e’ sia arrivato.
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CANTO DECIHOSCTTIHO.
365
79 Io (e ne priego per quella virtule,
Che tu donasti* all’ Àngel Gabriello,
Venendo annunziar nostra salute,
Che tu mi guidi dove è il mio fratello;
E perch’io vo per vie non conosciute.
Come a Tobbia mi manda Raffaello,
Che m’accompagni insin che me lo ’nsegni,
S’ e’ pricghi miei di grazia in te son degni.
so Per r amor che portasti al nostro Adamo,
Pel sacrifìcio che Abram già ti fe ;
Per ogni profezia che noi leggiamo.
Pel tuo Daviddc e pel tuo Moisè ;
Per quella croce onde salvati siamo;
Pel tuo Jacobbe antico, e per Noè;
Pel lamento che fece Geremia;
Per Giovacchin, Joseffo, e Zaccheria ;
81 Pe’ miracoli già che tu facesti.
Concedi tanta grazia a’ tuoi fedeli.
Che dove è il mio cugin mi manifesti ;
Io te ne priego pe’ santi Vangeli.
In questo par che una voce si desti
Molto soave, che parea da’ cieli.
Dicendo : Al tuo cammin va ritto e saldo,
Chè sano e salvo trovcrrai Rinaldo.
82 E troverrai il cavai ch’egli ha smarrito,
E eh’ egli arà acquistato un gran gigante.
Poi fu subito un lampo disparito.
Che prima auli occhi gli apparve davante.
Orlando sopra il cavai fu salilo,
E ringraziava le potenzie sante ;
^E la fanciulla e Terigi trovava.
Che poco a lui dinanzi cavalcava.
83 Usciron della selva, c capitorno
A una gran città, che il re Falcone
Signoreggiava, ed all’oste smontorno.
Ch’apparecchiava certa colezione;
E due donzelli in questo vi passorno :
Questa fanciulla a sua consolazione
All’ uscio corse , per voler vedegli ,
E r un di lor la prese pe’ capegli.
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i66
IL MORGANTE MAGGIORE.
84 Era del re Falcon costai nipote,
E Calandro per nome si diceva ;
Le chiome spairse e le pulite gote
Vide, e con seco menar la voleva ;
La fanciulla gridava quanto puote :
Terigi presto alle grida correva,
Ed accostossi per toria ai Pagano,
Ma fagli dato un colpo assai villano ;
i>ò Tanto che cadde sbalordito in terra.
Orlando intanto e 1’ oste era là corso,
E Durlindana con grand’ira afferra,
Che mai non furiò si tigre o orso :
Un manrovescio a Calandro diserra.
Che lo tagliò nel mezzo come un torso,
E Macomelto nel cader giu chiama ;
Cosi per forza lasciò andar la dama.
$6 Eran con lui parecchi schiere armate ;
Corrono addosso subito ad Orlando;
Ma poi ch’assaggion delle sue derrate.
Ognuno a drieto si viene allargando.
Pur le novelle al re Falcon portate :
Vennene all’oste, e venia domandando:
Che cosa è questa? chi Calandro ha morto?
Fugli risposto: E’ non gli è fatto torto.
87 Orlando al re parlò discretamente :
Sappi eh’ io r uccisi io, santa corona ;
Una fanciulla di nobile gente,
Ch’ io ho con meco onesta e cara e buona,
Volea con seco menar quel dolente,
E fargli villania di sua persona,
E strascinava quella a suo dispetto :
Or tu se’ savio, il caso in te rimetto.
88 So che sicura vuoi che sia la strada,
E non si sforzi ignun per nessun modo.
Ma che sicuro di e notte vada.
Rispose il re Falcon : Troppo ne godo ;
Rimetti, cavalier, drente la spada.
Di quel c’ hai fatto io ti ringrazio e lodo :
Giustizia sempre amai sopra ogni cosa,
Questa è nipote mia, figliuola, e sposa.
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C4NT0 DECIHOSETTIMO.
89 Vo’ che In venga nella mia città,
Per ristorarti ancor di quest' oltraggio.
Guarda se questo era uom pien di bontà,
Guarda s’egli era un re discreto e saggio!
Rispose Orlando: Ognun di noi verrà.
Ma perchè cavalier siam di passaggio.
Un’ altra gentilezza ancor farai ,
Che r oste in cortesia ci accorderai.
90 Rispose il re Falcon : Ben volentieri ;
E subito chiamò lo spenditore,
E fece contentar del suo I’ ostieri :
Poi rimontò ciascun sul corridore.
Orlando, la fanciulla, e lo scudieri.
Il re Falcone a tutti fece onore :
E mentre che ’l convito era più bello.
Subito venne un messaggiero a quello.
91 Era un Pagan, che pare un corbacchione,
Molto villan, superbo, strano e nero.
Coperto d’ una pelle di dragone;
E giunto, con un modo crudo e Aero,
Diceva al re: Distruggati Macone,
E Giuppiter che reuge il grande impero;
Tu dèi saper che 'I tempo è pur venuto
Ch’ al mio signor tu mandi il suo tributo.
92 Turbossi tutto il re Falcone, e disse:
0 mia figliuola, lasso! sventurata.
Quanto era meglio assai che tu morisse.
Anzi ch’ai mondo mai non fussi natal
Orlando lo pregò, che gli chiarisse
Quel che importar volea quella imbasciata.
Rispose il re Falcon: Tu lo saprai,
• E meco insieme so che piangerai.
93 Un’ isola è nel mar là della rena :
Otto giganti son tutti fratelli.
Ognun molta arroganza e rabbia mena,
Come ha fatto costui eh’ è un di quelli :
Hannoci dato per eterna pena,.
Ch’ ogni anno di noi tristi e meschinelli
Una fanciulla lor tributo sia :
Tocca quest’ anno alla Ggliuola mia.
368
IL HOBGANTE MAGGIORE.
94 £ non potè più oltre dir parola ;
Colui pur la ’mhasciata sua replica :
Il re Falcone abbraccia la figliuola.
Orlando disse: Vuoi tu ch’io gli dica
Quel che mi par per la mia parte sola ?
Ghè di tener le lacrime ho fatica,
Tanto m’ incresce di lei e di voi I
Ond’ e’ rispose : Di ciò che tu vuoi.
95 Orlando disse al superbo gigante :
Non so quel che ’l signor tuo si domanda,
Ma tu mi pari uom crudele, arrogante:
La tua imbasciata minaccia e comanda,
j Che basterebbe al Soldan del Levante :
Dimmi il tuo nome, e di quel che ti manda ;
Poi ti dirò quel che sarà dovuto.
Come tu abbi a acquistar il tributo.
96 Disse il Pagan : Se pur saper t’ aggrada
Il nome mio, chiamalo son Dombriino,
E Salincorno il sir della contrada.
Rispose Orlando : Lecito a ciascuno
£ ciò che si guadagna colla spada ;
Questo confessi tu ? Dond’ io son uno.
Che vo’ questa fanciulla guadagnarmi
Con leco colla spada o con altr’ armi.
97 Disse Dombrun: Per Dio, contento sono;
Andiam, chè noi farem bella la piazza,
E se tu vinci, va ch’io tei perdono.
Orlando aveva indosso la corazza,
■ E disse al re Falcone: E’ sarà buono
Ch’ io ti gastighi cosi fatta razza.
Levassi ritto, e messesi l’elmetto,
E disse: Andiam, Pagan, ove tu hai detto.
98 Corsono in piazza ognun subitamente,
£ lutto fu conturbato il convito:
Sali Dombrun sopra un suo gran corrente,
Orlando è sopra Veglianlin salito :
Or qui si. ragunò di molla gente,
E la donzella col viso pulito
Era a veder la sua redenzione,
E per Orlando faceva orazione.
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CA^TO DECIHOSETTIHO. 369
99 Pur orazion s’ inlende alla moresca :
Pregava Macon suo che l’ aiutasse,
E che di sua virginità gl’ incresca,
Che ’l Pier gigante non la violasse
Nella sua pura età fiorita c fresca.
In questo i due baron le lance basse
Avieno, e tutta la piazza tremava,
Però che Yegliantin folgor menava.
100 li popol maraviglia avea di quello :
Orlando truova Dombruno alla peccia ;
Ma pur lo scudo resgeva al martello:
Ruppe la lancia che parve di feccia,
E tutto si scontorse il Pagan fello,
E la sua aste appiccava alla treccia :
Ma per quel colpo ne fe tronchi c pezzi;
Dunque lo scudo ad Orlando fe vezzi.
tot Prese Dombruno una sua scimitarra.
La qual già disse alcun eh’ era incantala.
Benché il nostro autor questo non narra ;
Credo più tosto forte temperala ;
E par che inverso il del bestemmi e garra ;
Dette ad Orlando una gran tentennata,
Gridando: Se lo puoi, da questa guarii.
E dello scudo gli fece due parti ,
•102 Perchè con esso si volle coprire :
Orlando dell’ un pezzo eh’ avea in mano
Dette a Dombrun, tal che gliel fe sentire;
Perchè nel celTo giugneva al Pagano,
E fecegli tre denti fuora uscire,
E tramortito rovinò in sul piano:
Onde ciascun maraviglialo fue.
Che così presto il torrion va giue.
103 Dicendo: E’ basterebbe al conte Orlando;
Quel colpo arebbe atterralo una rócca I
Il Saracin pur venne respirando,
E ritto si metlea la mano in bocca,
E le sue zanne non venia trovando,
E ’l sangue giù pel petto gli trabocca ;
Donde si e’ tluol sanza comparazione, ,
E sol si studia bestemmiar Macone.
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IL HORGANTE MAGGIORE.
lOi Poi disse al conte Orlando : Assai mi duole
De’ denti e dell’ onor eh’ i’ ho perduto;
Pur sempre la sua fè servar si vuote :
Comanda ciò che vuoi, ch’egli è dovuto.
Rispose Orlando : E’ basta due parole;
Ch’ al re Falcon mai più chiegga il tributo ;
Ed ogni volta che tu mungerai,
Della promessa ti ricorderai.
105 E vo’ che tu ti facci medicare,
Prima che tu ritorni a Salincorno,
E statti qualche di qui a riposare.
Cosi Dombrun si posava alcun giorno:
Alcuna volta che volea mangiare,
Dicieno i servi che stavan dintorno :
Che farehb’ ei co’ denti che gli manca?
Di Gramolazzo mangierebbe l’ anca.
t 06 Poi nel partir lasciò la fede pegno.
Ch’ai re Falcon mai più, come soleva.
Darebbe oppression ; ch’aveva il segno.
Come coll’ arme [Mjrduto lui aveva
Il gran tributo, e tornossi al suo regno.
Il re Falcon contento rimaneva,
E ringraziar non si saziava Orlando,
Dicendo eh’ ogni cosa è al suo comando.
107 Giunto Dombrun dove la rena aggira
Al vento, e come il mar tempesta mena,
Raccontò tutto, e molto ne sospira,
A Salincorno, che n’ ebbe gran pena ;
E fatto è scilinguato, e con moli’ ira
Diceva: A desinar sempre ed a cena
Ricorderommi di quel c’ ho perduto ;
Andrai tu, Salincorno, pel tributo.
108 Rispose Salincorno: Io v’andrò certo,
A dispetto del cielo e di Macone ;
Chi è quel cavalier che l’ ha diserto?
Non debbe esser di corte di Falcone.
Disse Dombruno : E’ non va pel deserto
Di Bàrberia si possente bone.
Nè leofanti, o per Libia serpenti.
Che non traessi a lor come a me i denti.
CANTO DECmOSBTTIHO.
371
^C9 Non so ben chi si sia quel cavaliere,
Ma so eh’ e’ sare’ hen buono erbolaio ,
Che sa cavare i denti , al mio parere :
Questo è il tributo eh’ io t’ arreco e ’l maio ;
E se tu vuoi andar, ti fo assapere.
Che ne trarrà a te anco più d’un paio:
10 gli promessi, se 1’ osserverai,
(>he mai tributo al re tu chiederai.
110 E per me tanto non vi vo’ venire,
Acciò che traditor non mi chiamassi.
Pur Salincorno tanto seppe dire,
Ch’ al fin Dombrun dispose che tornassi ;
E cinquecento d’ arme fé guernire
Di ciò che gli parea che bisognassi :
E ’n pochi di ne venne al re Falcone
Com’ uom bestiai sanz’ altra discrezione.
111 Sanza osservare o legge o fede o patto.
Con questa gente intorno s’ accampoe ;
E manda un suo messaggio drento ratto :
11 messo al re dinanzi se n’andoe,
E disse brevemente' appunto il fatto.
Siccome il suo signor gli comandoe :
Che mandi presto al campo a sua difesa
Colui eh’ al suo fratei fe tanta offesa.
M-i £ sta sopra un’ alfana, e suona un corno,
E minacciava il cielo e la natura.
Orlando come inteso ha Salincorno,
Fece a Terigi darsi 1’ armadura;
E la figliuola del re gli è d’ intorno.
Dicendo: Dio ti dia, baron, ventura,
E in ogni modo vincitor ti faccia :
Poi che fortuna ancor più mi minaccia.
113 Diceva Orlando: Non temer, donzella,
Chè in ogni modo rimarrem vincenti,
Ch’a Salincorno trarrò la mascella,
S’ al suo fratello ho tratto solo i denti;
E con Terigi suo montato è in sella;
Ma la fanciulla, e certi suoi sergenti.
Volle con lui in Gn in sul campo andare ;
Chè sanza lui non si Gdava stare.
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2
IL MORGANTE MAGGIORE.
114 Disse il gigante: Se’ tu quel Pagano,
Ch’ al mio Dombruno hai fallo villania?
£ questa la tua femmina, ruflìano?
Rispose Orlando: Per la testa mia.
Che gentilezza è teco esser, villano :
Cosi di le, come dell’ altro fia;
Quel eh’ io gli ho fallo mi pare una zacchera,
Tanto è che preso non fia più a mazzacchera.
116 Questa fanciulla ha cento servi e ’l padre.
Che te per servo non vorrebbon , credi ;
E le ^ue membra, che son si leggiadre.
Volevi per tributo eh’ ancor chiedi :
E se’ venuto qua con queste squadre,
E di eh’ io son ruftlan ; nettati i piedi ;
Chè per voler bagasce e concubine.
Avrà il peccato tuo sue discipline.
116 Disse il gigante : E’ non son sempre eguali.
Come tu sai, le forze di ciascuno,
I denti miei saranno di cinghiali.
Non ti parranno forse di Dombruno :
Otto giganti sìam fratei carnali ;
Signor là della valle di Malpruno
Cinque ne sono , e noi tre siamo insieme.
Dove la rena come il gran mar freme.
117 Rispose Orlando: I cinque pel bollire
Sono scemali, e questo abbi per certo.
Con questa spada un ne feci morire,
E r altro un mio cugin eh’ è molto sperto :
Una fanciulla usoron già rapire
Al re Costanzo, e stavan nel deserto.
Quale ho con meco, molto ornata e bella,
E voglio al padre suo rimenar quella.
118 E s’io ritorno mai per quel paese,
Ch’ io trovi ancor que’ tre nella foresta,
Io non sarò com’ io fu’ già cortese,
Ch’ a tutti tre dipartirò la lesta.
Or Salincorno tanta ira l’accese.
Che cominciava a menar gran tempesta,
Quand’ e’ senti ricordar tanti torti,
E come duo de’ suoi fratei son morti.
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CANTO DECIMOSETTIMO.
^19 Traditor, rinnegato, micidiale,
Piglia del campo, con un grido disse.
Orlando a Vegliantin fe metter l’ale;
Poi si voltava, e l’aste in basso misse,
Ch’ era un abete saldo e naturale,
Qual tolse alla città, prima partisse;
E giunse colla lancia dura e grave
Nel petto a quel, che gli parve una trave.
420 E disse allor:Che diavol fia, Macone!
Questo mi pare un albero di fusta.
La lancia resse alla percussione,
Perch’ era dura e gròssa e molto giusta ;
Ma regger non potè quel compagnone.
Nè la sua alfana, benché sia robusta:
Dunque fu il colpo di tanta boutade.
Che Salincorno e l’ altana giù cade.
421 La figliuola del re, che vide questo,
Fra sè disse : Un miracolo ho veduto.
E ’l gran gigante feroce e rubesto
Disse ad Orlando : Tu non m’ hai abbattuto :
(E saltò della sella in terra presto)
Vedi che staffa non ebbi perduto;
È stato sol difetto dell’ alfana,
E la tua lancia fu molto villana.
422 Rispose Orlando: Stu non se’ ben chiaro,
Io ti potrei col brando chiarir tosto ;
A ogni cosa troverrem riparo.
Disse il Pagan: Per Dio, s’io mi l’accosto,
Io ti farò costar quel colpo caro.
Diceva Orlando : E pagherai tu il costo.
E Durlindana sua fuori ha tirata ,
E Salincorno ha la mazza ferrata.
423 Qui si comincia a sentir vespro e nona,
Qui le dolenti note cominciorno.
Qui innanzi maltutin già terza suona.
Qui non si posan le mosche d’ intorno ;
Qui sanza balenar l’aria rinlruona,
Qui purga i suoi peccali Salincorno :
Qui si vedrà chi saprà di schermaglia.
Qui mostra Durlindana s’ella taglia.
374
IL MOBGANTE MAGGIORE.
d24 II Saracin talvolta alza la mazza,
'E dice: Aspetta, oh’ io ti forbo il nifo:
Il paladin rispondea: Bestia pazza.
Che dirai la se col brando lo schifo ?
E ritrovava a costui la corazza.
Tanto che spesso scontorceva il grifo ;
Ma non poteva colpirlo all’ elmetto.
Però che allato gli pare un fìaschetto.
125 E Salincorno per la sua grandezza
Alcuna volta la mazza fallava ;
Un tratto mena con tanta fierezza.
Che, giunto a vóto, in terra rovinava.
Orlando volle mostrar gentilezza :
Lieva su ; disse : e ’l Pagan si levava ,
E disse : Dimmi, cavalier da guerra,
Per che cagion non mi feristi in terra ?
126 Tu debb’ esser per certo un uom gentile.
Di nobii sangue: tu non puoi negarlo;
Tu non volesti darmi come vile:
Se lecito, barone, è quel ch’io parlo,
Dimmi il tuo nome. Orlando come umile
Rispose : Io son nipote del re Carlo,
Orlando di Milon tìgliuol d’Angranle,
Nimico d’ Appollino e Trivigante.
127 'Sentendo Salincorno dire Orlando,
Cominciò il cuore a tremargli e la mano,
E disse: Onde venuto, o come, o quando,
Se’, paladino, in questo luogo strano?
Non vo’ con teco operar mazza o brando ,
Ch’ io so che ’l mio poter sarebbe vano :
Da ora innanzi sia come tu vuoi,
Chè la battaglia è finita tra noi.
128 Odo che ’l fior se’ di tulli i Cristiani,
E che tu se’ fatalo per antico :
Io vo’ piuttosto trovarmi alle mani
Col tuo cugin, eh’ è molto mio nimico,
£ vendicarmi d’ assai casi strani :
E vo’ che mi prometta come amico.
Quando col tuo Rinaldo tu sarai.
Per qualche modo me n’avviserai.
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CANTO DKCIHOSETIIMO.
37iJ
129 Ch’ io son disposto rompergli la fronte.
Però che mio nimico è in sempiterno :
E s’egli è della schiatta di Chiarmonte,
Ed io del sangue son di Salinferno,
E non intendo solTerir tante onte:
Colui che ’l nome suo risuona eterno,
Mambrin delP lllivante, anco era nato
Del sangue mio da ciascuno onorato.
130 Disse Orlando : Io non so dove si sia
Rinaldo ancor, ma s’ io lo troverroe,
Subito un messo a te mandalo fìa ;
E ’n questo modo andar ti lasceroe,
Ch’ al re Falcon non dia più ricadia,
Benché malvolentier ti liberoe :
Ma so che tu darai nell'altra rete,
Se con Rinaldo mio vi proverete.
151 II Saracin promesse licenziare
Del tributo quel re liberamente,
E fece il campo suo presto levare.
Orlando al re Falcon subitamente
Nella città tornava a raccontare,
Com’ egli è salvo e libera sua gente ;
E dopo alquanti di prese commiato,
E lasciò quello al tutto sconsolalo.
132 E cavalcando va per molte strade,
Sanza posarsi mai sera o mattina,
E domandando va per le contrade.
Dove stia il re della Bellamarina :
Tanto che giunse un giorno alla cittade,
E quella damigella peregrina
Rappresentava al suo doglioso padre.
Che 1’ ha gran tempo pianta, e la sua madre.
133 Era vestito a nero la città,
E ’l re con lutti i suoi con molto afTanno,
Nè sopra i campanil gridando va
Ne’ suoi paesi più il talacimanno:
Per le moschee molli uficj si fa
Al modo lor, che di costei non sanno.
Dove perduta sia già stala tanto.
Sicché per morta n’ avean fallo il pianto.
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n«
IL MOBGANTE MAGGIORE.
I3A La novella n’ andò con gran furore
Al re Goslanzo, come la sua figlia
Era venula, onde e’ gli crebbe il core,
E corse incontro colla sua famiglia ;
E tutta la città trasse al remore,
Come avvien sempre d’ ogni maraviglia :
Ognun voleva il primo abbracciar questa :
Pensa se ’l padre suo gli fece festa.
1 Ó 5 . Ella gli disse: Questo è il conte Orlando:
E dove e come e’ l’aveva trovala,
E da’ giganti tolta, e disse quando
E in che modo e’ l’ avevon rubata :
E tutta la sua vita vien contando,
£ come pel cammin l’ abbi onorata
Orlando sempre, insin che 1’ ha condotta.
Il re Goslanzo così disse allotta :
156 Quest’ è colui, che ti scampò da morte?
Quest’ è colui che l’ ha dunque prosciolta?
Quest’ è colui eh’ è tanto ardilo e forte?
Quest’ è colui ch’agli altri fama ha tolta?
Quest’ è colui ch’allegra or la mia corte?
Quest’ è colui per cui non se’ sepolta ?
Quest’ è colui eh’ uccise il fìer gigante?
Quest’ è colui eh’ è ’l gran signor d’ Angrante ?
157 Non cavalca cavai miglioc barone.
Nè miglior cavalier porta elmo in testa;
Non cinse spada mai simil campione.
Nè miglior paladin pon lancia in resta ;
Non uom tanto gentil si calza sprone.
Ed abbracciava Orlando con gran festa,
E la reina e lui lo ringraziorno,
E tutto il popol suo che gli è dintorno.
138 Or lasciam questi star cosi contenti.
Ritorniamo al soldan di Babillona,
Che non pareva già che si rammenti
Di quel eh’ a Antea promesse sua corona
De’ due prigìon; ma pensava altrimenti
Di tor subito a questi la persona,
Prima che sia Rinaldo a lui tornalo
Dal Veglio, dov’e’sa che l’ ha mandalo.
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CANTO DECIMOSETTIHO.
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ir>9 Mandò pel giustizier quel Iradilore,
E scrisse un brievc per la gra n letizia
Al re Goslanzo, per mostrargli amore,
Che venissi a veder questa giustizia ;
Dicendo: Sappi, famoso signore,
Ch’ io gli ho a punir di più d* una malizia ;
Com’ io diro nell’ altro cantar bello.
Guardivi sempre l'.\ngiol Ralfaello.
NO
i . contempre. Cuntcìnpli.
‘J teozzonato. Scaltro, accorto.
Scozzonare è propriamente domare e
ammaestrare i cavalli , o altre bestie
da cavalcare. Viene da excocimatui,
il quale è formato da cacio, onit, die
valeva lo stesso che l’antico arulalor;
come si cara dalle glosse d’ Isidoro :
• ^rufator cacio. > Sesto, intorno la
origine di questa voce coeso, dice :
• Coctionez diclu cidentur a cuncta-
lione; quod in emendii , venden-
disque mercibus, tarde perceniunt
ad Juili pretti finem. » Da essa
venne la voce italiana cozzone, che
vale sensale , cioè colui che s’ intro-
mette tra il venditore e il compra-
tore per la conclusione d’ alcun nego-
zio, specialmente di cavalli; laonde
s’ adopera anche ad indicare quei che
domano, e ammaestrano tali animali.
17. mamalucchi. O Mainmaluki :
nome d’ una dinastia che regnò per
alcun tempo in Egitto. Erano in prin-
cipio schiavi dei Turchi, e Circassi che
Melicsaleh avea comperati dai Tartari,
ed istrutti nel servigio delle armi. In
appresso, sdegnati contro il sultano
Moadam , ultimo degli Ajoubiti, per-
chè a loro insaputa aveva conchiuso
un trattato con San Luigi re di Fran-
cia, suo prigioniero, lo uccisero, e po-
sero in luogo di lui un di loro, che fu
il sultano Azedim, o Monz Ibec. Se-
condo altri questi Mamaluki si sceglie-
vano d’ infra gli schiavi cristiani, id
erano ciò che i giannizzeri fra i Tur-
chi. Il nomo loro viene dalla voce
mamluc, che significa colui che c
fE.
sotto il dominio d’ un altro. Lo Scali-
gero tiene che cotal voce sia arabica ,
ma che propriamente significhi una
cosa comprata con danaro.
21. gti fu capace. Lo persuase.
25. Però battiamo ec. Non ci la-
sciamo sfuggire la opportunità.
40. mazzafrutto. Chiamavasi co-
si una specie di frusta, fatta dì cinque
0 sci cordicelle , o fili d’ ottone o di
ferro, goernitì in cima di palle dì
piombo 0 d’ altro, e legata ad un
manico di legno o di ferro.
51. con molta tua tetta. Con
molti della sua setta.
68. E fecegli imbottire ec. In-
tendi , lo fece bastonare. — nafferi.
Lo stesso che naffe o gnaffe ; modo
imprecativo, slmile all’ <Edcpo(, e al
meAcrcufe de’ Latini , e al vin 'ov
Tjpaxisoc de'Greci.Si usano forse que-
ste cotali voci in luogo di maffe; quasi
dicesse per mio fi. Vedi Varchi, Lezio-
ne ec. — bizzeffe. Dicesi comunemente
a bizzeffe , e vale in abbondanza , o
sìmili.
lOO. peccia. Pancia.
109. erbolain. Colui che va cer-
cando erbe. Forse qui è preso per Cer-
retano, che va per le piazze vendendo
erbe ed unguenti medicinali , e ca-
vando i denti.
114. Che gentilezza ec. Da quel
di Dante:
E cortesia fu lai esser TtlUno.
In/., t50.
— mi pare uno zacchera. Mi pare
un niente. Il Mcnagio fa venire la
Ai
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378 IL MORGANTE MAGGIORE. — CANTO DECIMOSETTIMO.
Toce saeehera dilla latina ciceum , |
che è lo stesso che hilum, che signi- l
fica, secondo Fasto, il nero della fava, I
e figuratamente cosa da nulla, di nes- |
snn pregio. — preso... a mazzaeche- I
ra. Mazzacchera è strumento da pi- |
gliare anguille e ranocchi al boccone, |
laonde pigliare a mazzacchera vale '
quanto pigliare ai-boccone.
■120. fusto. Specie di naviglio da
remo , di basso bordo , e da corseg-
giare.
124. nifo. Lo dicono i Fiorenti-
ni per grifo, dal greco yp6'^. Si dice
anche per ischerzo del viso dell’uomo ;
onde niffolo si chiama quell’ atto che
si fa col viso , arricciando le labbra
e ’l naso , quando si vuol mostrare
d’ avere a schifo checchessia.
130. ricadia. Molestia, travaglio.
153. tiUacimanno. Colui che ap-
presso i Saracini di sulle torri, o mi-
nareto, chiama il popolo al tempio,
nelle ore della preghiera.
FINE DEL VOLUME PRIMO.
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